domenica 25 maggio 2008

Segnalazione: articolo di Franca Olivetti Manoukian

caro Giovanni,
ti propongo di mettere sul sito questo splendido articolo di Franca Olivetti Manoukian, della facoltà di Sociologia della Bicocca, sui temi della sicurezza.
Abbiamo bisogno di conoscere questi ricercatori, finora praticamente inascoltati, che operano con rigore sui fenomeni veri. Mi viene di considerarla l'equivalente dell'Aldo Bonomi per le questioni di disagio sociale e di percezione dell'insicurezza.
I nostri politici la conoscono? l'hanno mai ascoltata?
Un caro saluto
Luigi
prospettive
Animazione Sociale 2008 Maggio 1
Nei sussulti e negli scossoni che di questi
tempi investono il nostro Paese i servizi
che portano nella loro denominazione
il prefisso «socio» in che rapporto stanno
con la «società»? I servizi che si occupano
di «disagio» contribuiscono, potrebbero, possono
contribuire a costruire condizioni di agio,
di ben-essere per coloro che abitano e vivono
in un territorio?
Sono, questi, interrogativi che mi pongo e
che pongo da qualche anno e che ripropongo
collegandoli ad alcuni fenomeni che vengono
più che in altri momenti sbandierati sui giornali
in concomitanza con gli esiti delle recenti
consultazioni elettorali. Attraverso attività
di formazione realizzate con operatori dei servizi
e soprattutto in esperienze di ricerca rivolte
a individuare nuove e più specifiche ipotesi
sul lavoro nel sociale, sono maturate delle
riflessioni, esposte in qualche convegno e in
qualche scritto su Animazione Sociale.
Non intendo ripeterle, né ribadirle. Le sollecitazioni
che emergono dalla realtà sociale e
dalle analisi che ne vengono offerte mi sembra
che permettano delle precisazioni e chiarificazioni
che vorrei sinteticamente presentare
per contribuire, per quel minimo che mi è possibile,
a costruire elaborazioni e orientamenti,
ad alimentare un bacino di idee e di riferimenti
a cui i servizi possano attingere per ricollocarsi
e ricollocare gli interventi, le direzioni
e le azioni che sostanziano la loro operatività
quotidiana.
L’insostenibile schema bisogni/risposte
Nelle descrizioni e prescrizioni con cui abitualmente
si individuano i servizi nei documenti
formali, nelle normative e nelle direttive
o nelle pubblicazioni informative stampate
dagli enti locali, dalle aziende sanitarie o da
enti privati, ma anche nel linguaggio utilizzato
da amministratori e dirigenti nel rivolgersi
agli operatori e negli scambi tra gli stessi operatori,
è ricorrente l’utilizzo di due termini che
vengono accoppiati: «bisogni» e «risposte».
Viene dichiarato con varie intonazioni che
«i servizi offrono risposte ai bisogni degli utenti
», come se questa fosse la funzione che devono
svolgere, come se questi fossero gli interventi
che sono chiamati a realizzare. Le parole
vanno prese alla lettera? Forse sì, forse no.
Non so. In ogni caso offrono elementi indiziari.
Nella comunicazione esprimono e configurano
delle rappresentazioni che vanno a
FRANCA OLIVETTI MANOUKIAN
LA DOMANDA DI SICUREZZA
PUÒ NON INVESTIRE I SERVIZI?
Tracce per una discussione pubblica
Oggi i servizi non possono banalizzare la domanda di sicurezza che sale dai territori e rischia di
trasformare i problemi sociali in problemi di ordine pubblico. Non possono ignorare i rischi di
discorsi che invocano «sicurezza pubblica» (più forze dell’ordine)
e relegano nell’insignificanza la «sicurezza sociale» (assicurata dai servizi). È cruciale che i servizi
accolgano il disagio collegato alla percezione di insicurezza dilagante e contagiosa, tentino
di offrirne letture meno semplificate di quelle circolanti, indichino strade un po’ più promettenti
di quelle che paiono riscuotere unanimi consensi.
sostenere delle attese rispetto ai modi di interagire
tra gli attori in gioco.
Se si parla di «bisogno» e di «risposta», si
induce l’idea che la mancanza, lo stato di privazione
di qualsiasi genere che è avvertito da
qualcuno, possa trovare saturazione, compiutezza
ad opera di qualcun altro. Ci si trova pertanto
intrappolati, in uno schema comportamentale
apparentemente razionale, ma ben
poco realistico. Da un lato si induce l’aspettativa
di essere soddisfatti e dall’altro si indica
un modello di intervento insostenibile.
Nella società in cui viviamo, sempre più attraversata
da squilibri e contraddizioni, da frammentazioni
e disgregazioni, i bisogni non possono
che moltiplicarsi. Più specificamente i bisogni
per definizione sono nello stesso tempo
inesauribili e diversamente avvertiti a seconda
dei contesti culturali. Gli stessi bisogni fisiologici
non sono mai colmati una volta per sempre
e ogni bisogno soddisfatto ne fa nascere un
altro. Intrinsecamente sono incolmabili, inafferrabili,
insostenibili e pertanto ingestibili.
Per questo nel corso degli anni, per quanto
riguarda i bisogni che afferiscono ai servizi,
si sono tentate delle classificazioni o più frequentemente
si sono condensati alcuni bisogni
nelle definizioni di alcune categorie di utenti:
ad esempio, anziani e anziani non autosufficienti,
minori e minori maltrattati... Come se la
qualificazione esprimesse di quali bisogni gli
individui siano portatori e indirizzasse il tipo
di intervento – «risposta» – da mettere in atto.
Parallelamente si sono procedurate le attività
da svolgere entro una logica razionale, di
per sé ineccepibile. E in questo schema si sono
avvitate da un lato le illusioni di poter avere la
risoluzione della difficoltà, l’esaudimento delle
aspettative e in sostanza l’ottenimento di ciò
che può trasformare il malessere in benessere
e dall’altro le collusioni nel far presumere che
questo sia praticabile.
I servizi oggi sono mal visti
Nonostante il lavoro che da anni svolgono,
nonostante gli investimenti di motivazioni,
di energie, di varie forme di finanziamento,
possiamo registrare nei confronti dei servizi
un’ampia e solida legittimazione? Non
credo, non da parte dei cosiddetti utenti, né
da parte degli amministratori, né genericamente
da parte dell’opinione pubblica, se consideriamo
l’immagine che ne viene data nei
mass media o che viene rispecchiata ad esempio
nei giornali locali.
Non sottovaluto il dato, culturale e strutturale,
per cui non gode di un grande apprezzamento
sociale chi si occupa delle parti oscure
e tristi, delle disgrazie, o per parafrasare il
titolo del libro di Bauman, delle vite di scarto:
ma oggi i rifiuti sono sempre più importanti,
sempre più presi in considerazione in tutti gli
ambiti e chi riesce a occuparsene in modo soddisfacente
è notevolmente apprezzato. «Soddisfacente
»: probabilmente in questa parola
sta l’insidia che incombe sui servizi, soprattutto
se viene usata senza riferimenti più specifici
al per chi e per che cosa.
L’utenza diretta è spesso critica. I servizi
hanno diverse tipologie di fruitori. Esiste un’utenza
diretta che sommariamente potrebbe essere
diversificata entro tre gruppi: «cronici»,
«assistiti», «nuovi».
I cronici. I «cronici» li indico con questo
termine soltanto per sottolineare l’esistenza,
nella loro vita, di una condizione permanente
di difficoltà in cui fattori di tipo economico,
culturale, relazionale, di storia familiare
e di patologie si tramandano, si combinano
in un quadro di deprivazione, che li rende destinatari
privilegiati dei servizi. Nei loro confronti
gli interventi si moltiplicano; prendono
tutto ciò che viene messo a disposizione, a volte
anche con atteggiamenti strumentali; a volte
sfidano, a volte occultano, raramente si lamentano
ma non smettono mai di chiedere (o
di pretendere quello a cui hanno «diritto»).
Gli assistiti. Gli «assistiti» sono coloro
che hanno delle ragioni specifiche per rivolgersi
ai servizi, ragioni collegate alla presenza
di un handicap di varia natura o di una disa-
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prospettive
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bilità fisica o mentale, a un deterioramento dovuto
a qualche tracollo fisico per l’età avanzata,
per un trauma, ecc. Questi utenti e soprattutto
le loro famiglie si aspettano molto dai servizi
e si fanno avanti con domande e anche con
proposte: non si sentono sostenuti come vorrebbero.
Gli uni e gli altri tendenzialmente non
si ritengono soddisfatti del lavoro dei servizi,
perché quello che viene messo a disposizione,
per ragioni differenti, appare sempre lontano
da ciò a cui si aspira.
I nuovi. Infine abbiamo i «nuovi». Sono
coloro che provengono da strati sociali che tradizionalmente
non si rivolgevano ai servizi, e
oggi ricorrono ad essi spinti da problematiche
relazionali e comportamentali che li spaventano
e li spiazzano. Sono impiegati di livello medio,
insegnanti, commercianti, professionisti che si
trovano impreparati di fronte alle aggressività
di figli adolescenti nei confronti di compagni
di scuola, episodi di bullismo e di vandalismo
con relative denunce, scoperta dell’esistenza di
bande oppure sono persone che hanno perso
la propria posizione lavorativa o che per una
malattia o una separazione sperimentano il venir
meno di qualche fonte di reddito e/o di riferimenti
affettivi e non riescono a trovare nuovi
equilibri. Nei confronti dei servizi costoro sono
spesso critici, tendono a portare le loro visioni
e le loro «soluzioni», dividono i professionisti,
li giudicano, cercano appoggi, svalutano ciò che
viene messo a disposizione.
Ho per sommi capi descritto una tipologia
e degli atteggiamenti che presentano senz’altro
molte variazioni a seconda dei contesti locali.
Segnalo soltanto degli elementi indicativi.
Potremmo prenderne altri, ma anche cambiando
l’ordine degli addendi il risultato non
cambia. Ciò che risulta – e che vorrei mettere
in risalto – è che i servizi attraverso i loro utenti
diretti non trovano riconoscimenti visibili,
pubblici, pubblicamente affermati dell’attività
che svolgono.
L’utenza indiretta si chiede «che cosa fanno i
servizi?». In una cerchia più ampia attorno ai
servizi si situa l’utenza indiretta, ovvero l’opinione
pubblica locale, quella che si manifesta
a livello di regione e anche nel Paese in generale.
Per quel che si può capire, sempre a livello
di segnali ed elementi indiziari, sembra
che non ci siano idee chiare su che cosa fanno
i servizi e si oscilla tra il considerare che svolgono
un lavoro molto difficile e importante e
il pensare che in fondo purtroppo non riescono
a realizzare attività significative: si arriva
anche a sanzionare esplicitamente gli interventi
(ad esempio, nei casi in cui vengono allontanati
dei bambini dai genitori) o le omissioni di
intervento (ad esempio, là dove persone tossicodipendenti
o malate di mente compiono
dei reati), fino a chiedersi tutto sommato che
cosa facciano.
Si potrebbe ipotizzare che la debole legittimazione
dei servizi da parte della cittadinanza
vada ricondotta al fatto che i servizi non accolgono,
non intercettano il disagio che è collegato
alla percezione di insicurezza dilagante e
contagiosa, ormai infiltrata più ancora che nella
realtà della nostra vita, nelle analisi sommarie
dei fatti di cronaca e nei commenti che le circondano.
Giustificata o meno, ragionevole o
irragionevole che sia, poco importa. Secondo
la legge di Thomas ciò che viene ritenuto reale,
diventa tale nelle sue conseguenze.
Non ci si può sottrarre alla insistente domanda
della gente di trovare protezione e sicurezza
e mi sembrerebbe anche importante
tentare di offrirne delle letture meno semplificate
di quelle normalmente circolanti, indicando
delle strade da percorrere un po’ più
promettenti di quelle che paiono riscuotere
unanimi consensi.
Se la gente chiede sicurezza
Grazie allo sviluppo economico e sociale
di cui il nostro Paese ha goduto negli ultimi
decenni del ’900 molte famiglie hanno potuto
raggiungere condizioni di vita migliori di quelle
delle generazioni precedenti. Sono cresciute
e crescenti le attese di «stare bene», sotto
vari punti di vista, dalla salute, al tempo libero,
ai consumi, all’abitazione; attese di vivere
in un ambiente ordinato con le strade pulite e
senza buche, senza pericolo di incontrare dei
malintenzionati o anche degli individui che
nelle loro stesse fattezze rappresentano fisicamente
l’esistenza di parti della società miserevoli
ed emarginate da cui si rifugge.
Il futuro spaventa. Forse possiamo ipotizzare
che oggi il disagio sociale non sia tanto
rappresentato da chi vive in stato di deprivazione,
di indigenza, devianza, dipendenza da
sostanze, ma dalle difficoltà di interazione che
la maggior parte della gente ha con singoli e
gruppi che sono «diversi», e che per questo
sono immediatamente una minaccia che allarma,
un pericolo a cui si è esposti e che suscita
immediatamente la paura di essere depredati.
Molti hanno collegato la percezione di insicurezza
all’impatto con l’immigrazione (che
per il nostro paese è fenomeno recente e tanto
più dirompente), alle trasformazioni e delocalizzazioni
produttive che hanno portato fuoriuscite
dal mercato del lavoro e conseguenti
impoverimenti, al venir meno delle grandi fabbriche
e della loro funzione di integrazione attraverso
il lavoro (così importante all’epoca
delle migrazioni interne). Credo che accanto
a tutto questo vada anche tenuto conto dell’immaginario
rispetto al futuro, che appare carico
di incertezze per la propria riuscita professionale,
per l’occupazione dei figli, per l’incremento
o il mantenimento dei risparmi o
delle proprietà faticosamente acquisite: prefigurazioni
non promettenti che portano a cercare
di difendere il più possibile quello che si
è e quello che si ha.
La gente chiede tutele per sé. Ed è a questo
che si ricollegano le rivendicazioni di tutela,
di protezione dal disordine e da coloro che lo
rappresentano, ma anche le affermazioni di
priorità delle proprie esigenze rispetto a quelle
di chiunque altro e le pressanti richieste di
essere sollevati da situazioni familiari gravate
da faticosi e dolorosi carichi assistenziali. Perché
i bimbi di famiglie immigrate vengono accolti
nei nidi o nelle scuole materne, scavalcando
nelle graduatorie i figli di chi abita da
tanti anni nella città? Perché devo sollecitare
tanto l’assistente sociale per avere l’assistenza
domiciliare per mio padre? E dove sono i servizi
che dovrebbero occuparsi della vicina del
piano di sopra che urla giorno e notte col figlio
handicappato e continua a buttar giù la
spazzatura dal balcone? Che cosa aspettano
ad intervenire in quella classe dove c’è una concentrazione
di bambini immigrati ritardati? Le
maestre li chiamano, ma loro non si muovono...
La rassicurazione è cercata nelle forze dell’ordine.
L’angoscia per tutto ciò a cui si è esposti
a fronte di rischi non prevedibili si riversa
in una pluralità di attese/pretese, in domande
che devono ottenere risposte innanzi tutto rassicuranti
al di là di quello che specificamente
contengono, in paure che devono trovare degli
oggetti a cui riferirsi per poter almeno essere
nominate. E le risposte sono rassicuranti se
provengono da autorità forti e se sono immediate.
Per questo si invoca tanto frequentemente
l’intervento di polizia e carabinieri, trasformando
dei problemi sociali in problemi di
ordine pubblico che richiedono un controllo
capillare del territorio e vanno trattati con la
repressione dura, persino violenta.
Eppure si sa bene che la violenza genera
violenza e che affidarsi o abbandonarsi all’uso
di poteri forti porta effetti disastrosi. Sono
veramente i sindaci impegnati con misure variamente
fantasiose a fare piazza pulita di immigrati
e prostitute, quelli maggiormente in
grado di garantire convivenza civile e relativamente
serena?
I servizi non potrebbero intercettare questo
disagio diffuso? I servizi non potrebbero effettivamente
intercettare questo disagio diffuso?
Non potrebbero offrire o contribuire a offrire
sostegni e protezioni? Sono presenti in modo
capillare sul territorio e lo sono da anni, avendo
quindi l’opportunità di conoscere e farsi
conoscere.
Forse i servizi sono più orientati a svolgere
degli interventi individuali che a realizzare
lavoro sociale nel sociale. Intervengono infatti
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prospettive
prospettive
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per lo più nei confronti di coloro che esplicitamente
lo chiedono e lo chiedono contattandoli
negli uffici e negli orari previsti. Ma quelli
che dormono per la strada o nelle stazioni, i
bambini che chiedono l’elemosina, le persone
che si ritrovano senza appoggi e si abituano a
vivere di piccoli furti, i gruppi di ragazzi che
si divertono a distruggere giardinetti e panchine...
costoro non accedono ai servizi.
Le difficoltà che questi comportamenti esprimono
non costituiscono manifestazioni di disagio?
Non è forse opportuno e consigliabile
che i servizi li prendano seriamente in considerazione?
È improponibile che come ci si mobilita
per un piano educativo individualizzato
nei confronti di un adolescente, ci si interroghi
sulle minacce che una banda di ragazzini, nota
per vari atti di vandalismo, continua a esercitare
nei confronti di alcuni coetanei sotto gli
occhi di insegnanti, genitori, bidelli, negozianti
che non vedono e non sentono nulla? La domanda
di sicurezza, che è segnale rilevante di
un disagio sociale diffuso, può non investire i
servizi? Non li tocca, non li interroga, non li
sollecita a capirne meglio i fattori scatenanti e
le derive illusorie e regressive?
A quale sicurezza aspiriamo?
Chi può avere competenze per affrontare
la questione della sicurezza? Nei discorsi che
circolano ovunque si tende a fare una netta separazione
tra sicurezza «pubblica» e sicurezza
«sociale»: la prima è compito delle forze
dell’ordine, la seconda non si sa più se possa
esistere e possa essere tutelata dalle nuove fisionomie
che va prendendo il welfare. In ogni
caso mi pare che gli assessorati degli enti locali,
che fino a quindici anni avevano nella loro
denominazione il riferimento alla «sicurezza
sociale», oggi abbiano altre titolazioni.
Dipende dal progetto di società che vogliamo.
Vorrei sottolineare che non è così chiaro ed
evidente a quale sicurezza si aspiri e forse si
sorvola troppo rapidamente sulle connessioni
che esistono tra qualità della sicurezza e qualità
della vita sociale. Le scelte delle strategie
per la sicurezza sono collegate al progetto di
società che ci si propone di realizzare per l’oggi
e per il domani.
Vogliamo una società stile Sudamerica?
Si tende a costruire una società in cui il benessere
è fatto coincidere con l’ordine garantito
dall’autoreferenzialità etnocentrica e dalla
chiusura entro aree residenziali ben protette,
attraverso l’espulsione del diverso, la repressione
esercitata da corpi di guardie armate, la
netta separazione tra gruppi sociali?
Ci proponiamo di andare verso un modello
di società come quello che si è instaurato in
certe aree del Sudamerica o del Libano (cito
paesi che ho visitato) in cui la gente per bene
vive e lavora in quartieri e in edifici guardati a
vista, protetti da sentinelle e da filo spinato?
Se è questa la méta da raggiungere per noi
e per i nostri figli è logico moltiplicare finanziamenti
e organici di polizia e carabinieri, istituire
nuove figure di vigilanti, insistere nelle
punizioni esemplari, inventare ulteriori misure
repressive.
O vogliamo una società in cui vivere in
pace? Ma la sicurezza che si pretende con tanta
insistenza non viene forse riferita nelle rappresentazioni
di molti a una società in cui si
può vivere in pace, a una vita sociale in cui esistono
legami di reciprocità, in cui convivono
gruppi disomogenei, in cui gli scambi fiduciosi
prevalgono sulle competizioni per avere il dominio
e sulle lotte per eliminare l’avversario?
Marcel Mauss lo metteva in evidenza con
grande lucidità più o meno un secolo fa. Se è
verso questo tipo di società che ci si propone
di andare, la strada da imboccare è quella del
coinvolgimento e del convincimento, della ricerca
di ciò che unifica e accomuna, della negoziazione
con chi è portatore di orientamenti
e interessi diversi e non può essere totalmente
sottomesso o inglobato, come ricordano
Bruno Latour, Isabelle Stengers e tanti altri.
Non banalizzare la questione sicurezza. Credo
che la questione della sicurezza non vada banalizzata,
né stigmatizzata e neppure assecondata:
va presa in considerazione senza procedere
per parole e azioni ad effetto, rivolte più
ad acquisire battimani che ad affrontare i problemi.
Prendiamo ad esempio la formula che
viene costantemente ripetuta: «tolleranza zero».
Che cosa significa? In una accezione più esplicita
e più drastica esprime un contenuto pesantemente
repressivo che richiama il pugno
di ferro, l’intransigenza più dura, un atteggiamento
«razzista», ma per altro verso esprime
l’esigenza di usare fermezza verso comportamenti
illegali e trasgressioni di regole, che sono
necessarie per mantenere la convivenza.
Forse se ci si riferisce al primo significato
si intende implicitamente delegare gli auspicati
interventi drastici e definitivi a qualche figura
forte e goderne gli effetti. La pratica della
fermezza invece non può essere affidata soltanto
a qualcuno ma richiede un impegno più
ampio, più trasversale e diffuso che chiama in
causa l’operato di tanti ruoli, dai genitori, agli
insegnanti, ai responsabili e operatori di servizi
di ogni genere.
Le riflessioni che sto cercando di esporre
nell’intento di essere sintetiche rischiano di
essere schematiche. Non immagino certo che
si possano progettare dei modelli di società
da realizzare. Le dinamiche sociali si sottraggono
per larga parte a ogni indirizzo voluto,
ma non si può esimersi dall’interagire con esse
e lo si fa alla luce di alcuni orientamenti e anche
di alcune opzioni che appaiono preferibili rispetto
ad altre. È in questo senso che mi sembra
che i servizi abbiano un ruolo importante
perché possono contribuire a rendere più esplicite
e leggibili le scelte che si fanno rispetto al
disagio sociale.
Riaprire il dialogo con la società
I servizi lavorano oggi in un quadro molto
diverso da quello in cui sono stati istituiti. Come
possono ricollocarsi nel nuovo quadro?
Una funzione che è da reinterpretare. I servizi
oggi lavorano in un clima culturale in cui
le speranze allora intense e largamente condivise
di un futuro migliore e di una società più
equa si sono tramutate in inquietudini e preoccupazioni
per incognite e minacce incombenti,
in vissuti angoscianti di possibile perdita e
di ripiego nell’accettazione conformistica di
squilibri e disparità che si ampliano.
È comprensibile e ragionevole che si ricerchino
orientamenti e modalità diverse di trattare
il disagio. Non è facile perché si tratta di
ideare, inventare, intraprendere e sperimentare
in mezzo a contraddizioni e confusioni, con
risorse limitate e soprattutto con il dispiacere
di lasciare o trasformare dei contenuti di lavoro
in cui si è creduto e in cui ci si è identificati,
che sono stati affinati nel tempo e che
hanno anche avuto tanti riscontri positivi.
Forse si può pensare che le nuove forme
di disagio con cui si ha a che fare siano una opportunità
per assumere una nuova e diversa impostazione
delle attività, più visibile e riconoscibile,
più consistente e congruente con attese
che non riescono a essere intercettate da
altri. Gli operatori dei servizi hanno conoscenze
e competenze importanti da valorizzare e mettere
in circolo e potranno farlo quanto più saranno
in grado di ricollocarsi e reinterpretare
la propria funzione in un contesto profondamente
mutato.
Alcuni orientamenti per l’azione. Provo a indicare
alcuni elementi da tener presenti per
aprire – oggi – un dialogo più diretto tra servizi
e società. Se si assume che nella nostra società
esiste un disagio dilagante, che ha complesse
e oscure componenti, ma viene sommariamente
denunciato come stato di insicurezza
a cui va posto rimedio con l’adozione di
misure punitive e coercitive, immaginate come
potenti e decisive, per i servizi si tratta di confrontarsi
più apertamente e direttamente con
questa situazione e di attrezzarsi mentalmente
e operativamente per individuare e sostenere
delle azioni più pertinenti e ragionevolmente
fondate.
Riscoprire un ascolto rivolto a costruire
fiducia. Un primo aspetto da riscoprire e po-
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tenziare è costituito dall’ascolto che i servizi
attivano nei confronti delle condizioni di disagio
per cui vengono richiesti degli interventi.
Da sempre gli operatori sanno che non è positivo
classificare subito le richieste di chi accede
ai servizi e intervenire in corto circuito, entro
uno schema per cui posta una domanda a quella
si reagisce in modo speculare, accettandola
o respingendola. Non si eroga un sussidio appena
viene chiesto e neppure si dispone l’inserimento
di una persona disabile in una semiresidenza
o in un centro diurno o si accoglie
la denuncia di un genitore che il coniuge accusa
di maltrattamenti.
Oggi arrivano ai servizi persone che provengono
da diversi ambienti sociali e culturali
e rispetto ai tradizionali utenti portano richieste
più articolate, più specifiche o più ampie,
e in parte inedite, che è importante accogliere
e cogliere con un ascolto più approfondito, attento
a collocarle nel clima generale. Spesso accanto
o dietro richieste di supporto «materiale
», sono presenti attese di trovare qualcuno a
cui raccontare l’angoscia per aver scoperto le
bugie della figlia sedicenne e per non sapere
come comportarsi, lo smarrimento per non aver
più un lavoro e un reddito fisso e sentirsi indegno
come marito e come genitore, la disperazione
repressa per un padre demente, diventato
un peso insopportabile, l’isolamento
in cui ci si sente relegati, perché si è diversi.
Rispetto a vicende di questo tipo le persone
cercano rassicurazioni che non sono date da
interventi risolutivi – che non esistono – ma
dal poter confidarsi e confidare, perché si trova
un aiuto a comprendere le difficoltà, a riconsiderare
le situazioni per vedere qualche risvolto
positivo, a immaginare piccole iniziative
da prendere, a sentirsi un po’ meno soli. In
un certo senso per i servizi sembrerebbe cruciale
mettere in campo un ascolto non tanto
finalizzato al decidere erogazioni di prestazioni,
quanto rivolto al costruire fiducia e allo
stabilire interazioni e relazioni significative, all’accrescere
relazionalità.
Saper ascoltare in campo aperto. L’entrare
in contatto con il disagio vissuto ed espresso
in situazioni singole non può esimere i servizi
dall’ascolto di quelle forme di disagio che
si manifestano con indizi e segnali deboli nei
comportamenti collettivi, come ho ricordato
più sopra. Qui l’ascolto è più complicato perché
non può avvenire in un ambito protetto
dalla sede istituzionale e dalle prerogative professionali:
si realizza per così dire «in campo
aperto» e richiede di lasciarsi «impressionare
», da ciò che tendenzialmente si è portati a
non vedere, persino da ciò che tutti pensano
sia «normale».
Talvolta agli operatori può sembrare che
questo sia poco professionale ma in realtà fa
riferimento a rilevazioni di diversi dati in ambiti
e momenti diversi e a elaborazioni sostenute
da qualche ipotesi sui rapporti tra gruppi
sociali, tra generazioni, tra cittadini e istituzioni,
tra fenomeni generali e vicende circoscritte
a un territorio. Chiama in causa competenze
che connettano saperi specialistici con
conoscenze offerte da altre discipline e investimenti
per apprendere dall’esperienza.
Attrezzarsi a gestire le emergenze. Un’area
critica nei rapporti tra servizi e società riguarda
le modalità con cui i servizi affrontano
quelle situazioni-limite, non così infrequenti,
che potremmo definire «emergenze sociali».
Sono situazioni caratterizzate da comportamenti
anomali e devianti, particolarmente allarmanti
per il loro significato dirompente e
disconfermante dei rapporti «normali», normalmente
messi in atto dai singoli e praticati
all’interno delle famiglie.
Penso ad esempio a un marito che accoltella
per gelosia la moglie sotto gli occhi di due
bimbi piccoli, a una madre che tenta di buttar
giù il figlioletto dal balcone, a degli immigrati
che dormono sotto una tettoia e vengono
picchiati a sangue, o più semplicemente a una
ragazzina che scappa di casa e non si fa trovare
per qualche giorno o anche a due gemellini
che restano soli perché il padre è in carcere
e la madre viene ricoverata con urgenza per
una grave emorragia, o a un ragazzo adottato
che aggredisce violentemente la madre, ecc.
In tutti questi casi è vero che c’è da rivolgersi
a polizia e carabinieri, ma è anche vero
che accanto a reati che vanno accertati e puniti,
esistono dei fallimenti nei rapporti familiari,
delle esigenze di accoglienza e accudimento,
che sono più propriamente sociali, che vanno
trattate con competenze sociali e psico-sociali,
socio-educative e socio-assistenziali.
Non sempre e non tutti i servizi sono attrezzati
per far fronte alle emergenze, mentre
credo che oggi questa sia una questione prioritaria.
È in questi frangenti che si dà un’immagine
dei servizi e del loro funzionamento e
che si misura nel contesto locale l’efficacia del
loro operato e quindi la loro utilità. È in questi
momenti che si sperimenta se qualcuno
entra in gioco e prende in mano le cose, se c’è
qualcuno che ci pensa e interviene tempestivamente,
tranquillizzando e rassicurando.
Probabilmente per gestire le emergenze si
tratta di sviluppare un lavoro su due fronti. Da
un lato individuare in tempi brevissimi le coordinate
essenziali che caratterizzano la situazione,
identificare i problemi prioritari e la
loro gravità sotto diversi punti di vista, dall’altro
predisporre collaborazioni e appoggi
di altri servizi pubblici e privati, di famiglie,
di volontari (la famosa rete!) che possano essere
attivati rapidamente per ricostituire un
minimo di tessuto relazionale a fronte delle
lacerazioni e dei traumi che si sono verificati.
Ambedue sono attività non nuove per i servizi
che andrebbero potenziate e perfezionate,
anche con investimenti formativi e organizzativi
specifici.
Sviluppare integrazioni tra le risorse territoriali.
Il lavoro sui «casi», quello più tradizionale
e a contenuto assistenziale che attualmente
svolgono soprattutto i servizi sociali,
impegna molte risorse e molto tempo degli
operatori. Spesso grava a tal punto da costituire
la parte preponderante dell’attività, con
un andamento che rischia di routinizzarsi entro
copioni standard e anche di burocratizzarsi.
Le più recenti disposizioni normative, e le stesse
direttive espresse da vari enti locali orientano
a sviluppare maggiore progettualità e soprattutto
integrazione tra varie risorse territoriali
ma le evoluzioni verso questi indirizzi sono
lente. Spesso si scontrano con spinte in senso
contrario. Si sono avviati degli spostamenti,
ma il percorso è faticoso e incontra molti ostacoli
di varia natura, sia all’interno dei servizi
stessi che all’esterno.
Stare nella vita quotidiana
Le emergenze sociali, l’ascolto in campo
aperto, la stessa promozione di progettualità e
integrazione degli interventi offrono ai servizi
delle notevoli opportunità di contatto e di comunicazione
non solo con singoli e gruppi che
vivono sofferenze e devianze, difficoltà di adattamento
ed eventi traumatici, ma anche con
coloro che abitano nello stesso territorio e giudicano
comportamenti e atteggiamenti, per lo
più semplificando i problemi e immaginando
che possano essere facilmente eliminati con decisioni
appropriate, in quanto autoritarie.
Sono queste occasioni assai interessanti e
propizie per incontrare la gente e per fare opera
di acculturazione, per proporre e diffondere
delle visioni un po’ meno unilaterali e un po’
più realistiche, in cui non domini soltanto l’attribuzione
di colpe e la denuncia di carenze, in
cui si dia spazio a comparazioni e ad analisi che
mettano in luce complessità e ambivalenze.
Si pongono questioni che stanno a cuore,
che riguardano la vita quotidiana e hanno molto
a che fare con le richieste di sicurezza. Se si
riescono a comprendere, a districare un po’
meglio si può anche meglio fare la propria parte
per affrontarle, attraverso co-operazioni nel
conoscere e nell’agire che costruiscono socialità
e comunanze, ovvero i più efficaci antidoti
alle paure e alle violenze, e all’insicurezza
che esse generano.
8 Maggio 2008 Animazione Sociale
prospettive
Franca Olivetti Manoukian - psicosociologa - Studio
APS - via San Vittore 38/a - 20123 Milano - tel.
02 4694610 - e-mail: olivettimanoukian@studioaps.
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