venerdì 21 agosto 2009

Giuseppe Berta: Non abbiamo toccato il fondo

Da La Stampa

7/8/2009

Non abbiamo toccato il fondo





GIUSEPPE BERTA

I numeri diffusi ieri dall’Istat sulla nostra produzione industriale hanno l’effetto di una gelata sulle aspettative che, pur timidamente, erano state adombrate sull’andamento della crisi e sulle sue ripercussioni per l’economia italiana.

Le cifre ci dicono non soltanto che l’urto della crisi globale sulle attività produttive non si è attenuato, ma che non possiamo ancora prevedere il momento in cui sarà possibile cogliere i segnali della ripresa.

Per la verità, i cauti cenni di ottimismo non erano stati sottoscritti né dagli operatori economici né dai sindacati, che in questi giorni avevano già anticipato la necessità di prepararsi a un nuovo periodo di difficoltà al rientro dalle ferie. Ora le stime dell’Istat confermano come non si sia fin qui arrestata la caduta produttiva, che riguarda praticamente tutti i settori.

Di fatto, è difficile individuare componenti del sistema industriale che non registrino un peggioramento significativo anche rispetto ai valori, di per sé deludenti, riscontrati negli ultimi mesi. La flessione si rivela meno grave nel settore della produzione dei beni di consumo, che segna un meno 9% nel giugno di quest’anno rispetto al giugno 2008 (ma se si considera l’intero primo semestre 2009 rispetto al primo semestre dell’anno scorso la perdita sale al 9,8%). La profondità della recessione in atto è tuttavia testimoniata soprattutto dai livelli di regresso toccati dalla produzione dei beni durevoli (-26% rispetto al giugno 2008) e dei beni strumentali (-26,8%). Ciò mostra come l’aspetto più preoccupante della crisi stia in un ristagno degli investimenti che, quanto più si prolungherà, tanto più allontanerà e renderà incerte le prospettive della ripresa. Settori come la metallurgia e la produzione degli autoveicoli raggiungono picchi negativi superiori al 30%, nonostante l’ampliamento delle quote di mercato conseguito dai marchi Fiat e Lancia.

Quali conseguenze trarre dai dati Istat? La prima, naturalmente, è che nessun indicatore dell’economia reale ci può indurre a credere che la crisi sia avviata verso un superamento spontaneo, magari al seguito dello spiraglio di crescita di recente preconizzato per fine anno dal presidente Obama. È possibile e sicuramente auspicabile che i tempi della ripresa Usa siano più celeri di quanto si era temuto, ma un miglioramento economico al di là dell’Atlantico non è destinato a riverberarsi immediatamente sulle condizioni delle nostre imprese. Le quali mai come adesso devono essere accompagnate e sostenute in un cammino che consenta loro di sopravvivere, in attesa di poter cogliere il soffio del vento della ripresa internazionale quando si manifesterà.

Per adesso dobbiamo sapere che chi sta soffrendo di più è la parte maggiormente dinamica del nostro sistema industriale, quella che, dopo aver esplorato le strade della globalizzazione, paga gli effetti della contrazione del commercio mondiale. Nei mesi a venire serviranno nuove azioni sia sul fronte degli ammortizzatori sociali che su quello del credito, dando corso pratico all’intesa stabilita fra la Confindustria e l’Associazione Bancaria Italiana.

Rendersi conto della situazione di pesantezza che sta vivendo la nostra industria è indispensabile per calcolare con senso di realismo i costi da sopportare. E non si tratta soltanto dei costi vivi degli ammortizzatori sociali e delle inevitabili misure di sostegno: vi sono da mettere nel computo anche quelli che si stanno abbattendo e si abbatteranno ancora, nel prossimo autunno, su una struttura industriale fatta di una miriade di aziende di dimensioni piccole e piccolissime, drammaticamente esposte alla crisi e alla sua lunga durata. Non può essere sottovalutato il prezzo che verrà pagato dai ranghi dell’imprenditoria minore e da quelli dei lavoratori.

Le elaborazioni dell’Istat hanno dunque anche il valore di un richiamo a chi ha la responsabilità di gestire la crisi. Essa va affrontata, da un lato, senza indulgere a pensare che la moneta dell’ottimismo serva a contrastarla e, dall’altro, senza sottovalutare il vasto e non sempre visibile serbatoio di risorse che un sistema economico capace di grande adattamento e di flessibilità come quello dell’Italia possiede.

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