la stampa
8/12/2008 - I GUAI DEL PD
Le parole tra noi leggere
LUCA RICOLFI
Genova, Firenze, Perugia, Roma, Napoli. Per non parlare dell’Abruzzo e della Calabria. Da Nord a Sud, ma specialmente nelle regioni rosse e nel Mezzogiorno, le inchieste giudiziarie stanno travolgendo il partito di Veltroni.
Gli elettori di sinistra sono, per l’ennesima volta, sgomenti e stupefatti. Eppure non dovrebbero esserlo più di tanto. Lo spettacolo cui oggi assistiamo, infatti, non è iniziato nelle ultime settimane, ma continua ad andare in scena da anni. Ed era largamente prevedibile, perché le sue radici non stanno in qualche errore dell’oggi, ma in meccanismi e scelte politiche che risalgono molto indietro nel tempo.
La reazione a Tangentopoli (1992), innanzitutto. Se oggi siamo a questo punto è anche perché la politica - tutta la politica, non solo quella della sinistra - anziché reagire a Tangentopoli tentando un’autoriforma preferì battere un’altra strada: la legalizzazione dell’abuso di potere. Un tassello dopo l’altro, un intero sistema di norme penali e amministrative venne riconfigurato per rendere possibile il finanziamento e l’espansione del potere dei partiti anche senza violare la legge: chi è curioso di sapere come questo capolavoro normativo venne messo a punto può leggere l’eccellente ricostruzione fornita già qualche anno fa da Salvi e Villone nel loro libro Il costo della democrazia (Mondadori, 2005; vedi in particolare i capitoli 6, 7, 8). La bellezza di questa ricostruzione, dovuta a due docenti di diritto, entrambi di sinistra ed entrambi provenienti dalle file dei Ds, è che essa spiega sia l’aumento dei comportamenti contrari all’interesse generale, sia la loro scarsa perseguibilità da parte della magistratura.
All’analisi di Salvi e Villone, che già allora profetizzavano l’imminente impantanamento morale del futuro Partito democratico, è forse il caso di aggiungere che la storia continua, e continua in termini rigorosamente bipartisan: proprio perché il ceto politico è innanzitutto una corporazione, né la destra né la sinistra hanno mai provato a cambiare veramente le regole della sanità, né a varare una riforma incisiva dei servizi pubblici locali, come mostra la triste storia del disegno di legge Lanzillotta. Se lo avessero fatto, avrebbero chiuso, o perlomeno inaridito, i due principali rubinetti da cui il ceto politico locale trae le «risorse» per autofinanziarsi e per espandere il proprio potere. L’importanza dell’analisi di Salvi e Villone, come di altre metodologicamente consimili (penso ad esempio al recente libro di Roberto Perotti L’università truccata, o al volume Toghe rotte di Bruno Tinti, procuratore aggiunto a Torino) è che esse non si limitano a denunciare la disonestà dei protagonisti, ma mostrano come certe macchine che non funzionano - le amministrazioni locali, la magistratura, l’università - non falliscano semplicemente perché ci sono in giro troppi disonesti, bensì perché sono «programmate per non funzionare», come ha giustamente rilevato Marco Travaglio nell’introduzione al libro di Tinti.
Ci sono poi le scelte politiche e culturali. Nonostante Tangentopoli, e a molti anni di distanza, né la sinistra nel suo insieme né il Partito democratico hanno mai rinunciato veramente al mito di un primato morale della sinistra. Non lo ha fatto Fassino, non lo ha fatto Prodi, ma non lo ha fatto nemmeno Veltroni, che anzi per certi versi ha rilanciato l’idea che la «bella politica» - fatta di onestà e trasparenza, democrazia interna e partecipazione - potesse essere la marca distintiva del partito nato dalla fusione di Ds e Margherita. Questo è stato un errore madornale, perché certe parole non si possono pronunciare invano: se un partito è fatto di gente capace e disinteressata non ha bisogno di proclamarlo, ma se lo proclama non può assolutamente permettersi di non esserlo. Soprattutto non può permettersi quel che Veltroni ha permesso in questo primo anno di guida del Pd: non solo decisioni verticistiche e beghe correntizie, ma sostanziale rinuncia a fare pulizia in casa propria, ossia l’unica cosa che un partito può tentare finché le regole restano quelle che sono.
Spiace ritornare sul punto più spinoso, quello delle candidature e degli eletti, ma occorrerà pure farsi qualche domanda. Perché, quando si è trattato di scegliere i candidati alle ultime elezioni politiche, il Pd non ha deciso di escludere non dico tutti gli inquisiti, ma tutti i rinviati a giudizio, o almeno tutti i condannati? O dobbiamo pensare che l’opinione che i dirigenti del Pd hanno della magistratura è così negativa, e così diversa da quella proclamata in pubblico, da suggerire di ignorare completamente gli indizi che emergono dalla sua attività? Non ci si rende conto che, specie con una legge elettorale che sottrae ai cittadini-elettori ogni possibilità di scelta dei candidati, mettere in lista persone condannate, prescritte o rinviate a giudizio contraddice i propositi di moralizzazione così copiosamente sbandierati in campagna elettorale? O basta a consolare i dirigenti del Pd il pensiero che le file della destra sono ancora più inquinate delle loro?
Per non parlare del caso Bassolino, e più in generale del disastro della Campania, a partire dallo scandalo dei rifiuti. Veltroni e i suoi hanno una vaga idea di quel che passa per la mente di un elettore di sinistra quando, a più riprese e senza smentita, deve leggere sui giornali che il Pd pensa di far dimettere Bassolino in cambio di un seggio di parlamentare europeo, dove potrà riposarsi percependo qualcosa come 200 mila euro l’anno? Da quanto tempo ormai sappiamo in che condizioni il sistema di potere di Bassolino ha ridotto la Campania?
Non sono tra coloro che rimpiangono lo stalinismo, e non vorrei mai sentire la parola espulsione. Ma sento una sproporzione, uno stridore insopportabile, fra il trattamento di Bassolino e quello di Villari, reo di non essersi dimesso dalla presidenza della commissione di Vigilanza della Rai. Il partito di Veltroni è così debole che dopo anni di malgoverno della Campania non riesce nemmeno a sospendere Bassolino dal Pd, mentre impiega pochi giorni a espellere il «cattivo» Villari, senza dargli nemmeno il tempo di malgovernare la Rai?
Così, alla fine, non posso non sottoscrivere le meste parole con cui ieri, sul Corriere della Sera, Arturo Parisi descriveva la situazione del Partito democratico: «Son le parole che con troppa leggerezza abbiamo lanciato verso il cielo, a ricadere come macigni pesanti sulle nostre teste». Già, certe parole - onestà, democrazia, trasparenza, etica, bella politica - non si possono dire spensieratamente, pensando di non essere presi in parola. L’elettorato di sinistra, specie quello militante, è spesso ingenuo e idealista, ma proprio per questo non è preparato alle sorprese più amare.
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