da aprile
Ciò che occorre è un progetto di sinistra
Gianfranco Pagliarulo, 11 dicembre 2008, 17:45
L'approfondimento La nazionalizzazione "mascherata" dell'industria dell'auto Usa fa suonare a morto le campane del neoliberismo dell'ultimo trentennio. La risposta ad una crisi traumatica e senza precedenti non potrà essere che strutturale. Le uniche forze di ispirazione sociale e politica progressista che sembra si stiano sintonizzando con i problemi aperti dalla crisi sono in Italia la Cgil e in Europa il Pse
Sui quotidiani del 10 dicembre c'è una notizia di straordinaria importanza: lo Stato entrerà pesantemente nel capitale di General Motors e Chrysler. In cambio dei finanziamenti (prestiti) gli States avrebbero dai due colossi (dai piedi d'argilla) titoli convertibili in azioni pari al 20% del prestito erogato. In parole povere, gli Stati Uniti d'America diventerebbero comproprietari dell'industria Usa dell'auto.
Un intervento pubblico di questa portata, si è letto sul New York Times, non avveniva dal 1952 quando Truman, nazionalizzò le acciaierie per evitare scioperi durante la guerra di Corea.
La nazionalizzazione "mascherata" dell'industria dell'auto fa suonare a morto le campane del neoliberismo che ha caratterizzato l'ultimo trentennio. Tutto ciò era prevedibile dalle dinamiche economiche di questa estate caratterizzate dalle vicende del petrolio, dall'alta inflazione e dai primi allarmi legati ai mutui subprime, ma oggi sta diventando una realtà.
La signora Thatcher divenne Primo ministro nel 1979, Ronald Reagan divenne presidente nel 1980. La società non esiste - sosteneva Margareth Thatcher - esiste solo l'individuo. Quella cultura politica si sintetizzava in una visione assoluta del mercato (tutto per il mercato, tutto nel mercato, nulla al di fuori del mercato) e della sua presunta capacità di autoregolarsi. Da ciò una visione dello Stato che doveva guardarsi dall'intervento nelle politiche industriali, salvo ciò che riguardava un suo ruolo nell'agevolare qualsiasi forma di privatizzazione. I tardi epigoni di quel pensiero giunsero in Italia con i vari governi Berlusconi. In particolare nei primi anni del nuovo secolo il ministro per le attività produttive Marzano teorizzava (e praticava) l'assoluta necessità dell'assenza dello Stato negli assetti proprietari e nelle ristrutturazioni d'impresa.
Le prime mosse di politica economica del Presidente Obama ripartono dal civile e dalla riconversione ambientale dell'economia (automobili comprese). Tutto il contrario, quindi, della mossa di Truman ricordata dal New York Times. La guerra non sarebbe più il volano dell'economia, come invece avviene dai tempi delle "guerre stellari". Ma il grande evento è certamente quello del ritorno dello Stato in economia. Certo, non è una novità assoluta. Precedenti esperienze dimostrano che, quando il saggio di profitto è troppo basso, lo Stato interviene, incrementando così il debito pubblico. Quando, negli scorsi decenni, il debito ha raggiunto livelli di guardia, si è imboccata la strada del neoliberismo, scaricando ideologicamente sullo Stato le responsabilità del debito e assolutizzando i principi del libero mercato. Questo ciclo, che ha coinciso col fenomeno chiamato globalizzazione e col connesso e progressivo dominio mondiale delle corporations, si è drammaticamente esaurito nella forma della bancarotta mondiale.
Si pongono di conseguenza interrogativi colossali: è possibile un intervento dello Stato nell'economia che non si riduca a forme di mero protezionismo, di neonazionalismo o, peggio, alla antica socializzazione delle perdite? E' possibile cioè che tale intervento abbia un carattere progressivo, riduca l'arbitrio nichilista del mercato, attacchi la potenza delle corporations e perciò degli amministratori delegati, dei managers e dei consumatori, restituisca potere alle strutture politiche e sociali democratiche e ai cittadini?
Tutto ciò, naturalmente, non è affatto detto. Dopo la grande crisi del 1929 ci fu un pesante intervento dello Stato nell'economia, ma mentre negli States prevalse una curvatura democratica e per qualche aspetto "sociale", in Europa si affermarono progressivamente le idee del nazifascismo, maggioritarie in Italia e in Germania, ma ben presenti e organizzate anche negli altri Paesi.
Come far sì, allora, che la crisi e le reazioni-risposte non determinino profondi cambiamenti nei blocchi sociali che possono portare alla vittoria di vecchie e nuove destre estreme? E' evidente che questa vittoria delle destre in Italia, questo governo Berlusconi, è già il frutto di quei cambiamenti. Insicurezza, paura, declassamento, crollo delle prospettive sociali hanno quasi sempre portato alla vittoria politica le destre, nell'ambito di rapidissime scomposizioni e ricomposizioni di blocchi sociali. Una destra - va detto - che davanti alle straordinarie innovazioni che sta apportando Obama nell'economia, sembra un pugile suonato.
Sono evidenti i segni del gravissimo disagio esistente. E' fin troppo facile citare la vicenda italiana dell'Onda o quello che sta succedendo in questi giorni in Grecia. Ma sono fuochi che si possono spegnere se non trovano sponde politiche, sbocchi di contenuto, alleanze. Occorrerebbe perciò mettere in campo immediatamente idee, programmi politici e mobilitazione. Cioè un progetto.
Occorre togliere dalla parola "progetto" quell'aura un po' magica, un po' demiurgica, con cui sovente la sinistra si è contrapposta alla sua parte più moderata per contrastare, giustamente, la deriva del solo governo dell'esistente. Oggi il progetto non è più una possibilità, ma una necessità, per l'ovvia ragione che, essendo messo in discussione alla radice l'esistente, destinarsi alla sua mera amministrazione vuol dire perdere con certezza.
Ciò che occorre è un progetto di sinistra su cui costruire una nuova alleanza sociale e politica, che sappia incidere sulla crisi del pensiero liberale, diviso fra tentazioni autoritarie, stanche ripetizioni della necessità che la politica non turbi le dinamiche di mercato, riconoscimento pieno del dramma sociale aperto dalla stagione del neoliberismo. Quando Zagrebelsky, e con lui la parte più avanzata della cultura liberaldemocratica italiana, pone al centro la questione dell'eguaglianza e del suo rapporto con la democrazia ("senza eguaglianza la democrazia è oligarchia, un regime castale"), vuol dire che c'è un ampio terreno di alleanze e di convergenze.
Le più importanti (o le uniche?) forze di ispirazione sociale e politica progressista che sembra si stiano concretamente sintonizzando con i problemi aperti dalla crisi senza precedenti davanti a cui siamo, sono in Italia la Cgil e in Europa il Pse.
Lo sciopero generale, con tutti i problemi che pure permangono e che non vanno nascosti (divisione sindacale, mancanza di una forte sponda politica, difficoltà nel blocco sociale, difficoltà di collegamento fra occupati garantiti, occupati non garantiti e disoccupati), è il segno di tale profonda sintonia. L'intera politica della Cgil rivela la piena comprensione che la politica economica del governo è insignificante rispetto alla potenza della crisi in corso e che è urgente la definizione di risposte nuove e strutturali.
Il "Manifesto del Pse" sostiene l'idea di un'Europa attraversata da due schieramenti, uno conservatore e uno progressista, ciascuno dei quali ha un programma e un sistema dei valori opposto; da ciò la ovvia necessità di schierarsi con quello progressista. Sottolinea che uno (o il ) dei temi centrali sia oggi quello della diseguaglianza. Si sofferma sui temi legati alla condizione e ai diritti dei lavoratori e dei sindacati e al dramma della disoccupazione. Assume come centrale la questione del clima e il possibile ruolo dell'Europa su questo tema come "forza globale di punta". Critica il mercato come arbitro dell'economia. Affronta i temi dei diritti in generale e dei diritti delle donne in particolare. Assume come centrali le questioni dell'emigrazione. Si propone il sostegno allo sviluppo dell'economia sociale (cooperative, ecc). Insomma, pur con limiti importanti (è lacunoso e ambiguo sulla questione del nucleare), costituisce una base ragionevole ed avanzata per la costruzione di un progetto di tipo continentale.
Presumibilmente questi sono alcuni dei temi essenziali su cui costruire una proposta di rinnovamento: 1) programmazione, partecipazione e razionalità della produzione, legata alla critica all'attuale modello di sviluppo; 2) eventuale ruolo dello Stato nell'economia e connesse forme di controllo sociale, ponendosi fin d'ora il problema del rapporto fra singolo Stato e Unione Europea per evitare derive nazionalistiche o protezionistiche; 3) riconversione verde dell'economia stessa e connessi problemi di incentivi e rapporti e con quella parte dell'imprenditoria in grado di misurarsi su questo terreno; 4) dimensione europea della risposta di politica economica.
La risposta ad una crisi traumatica e senza precedenti non potrà essere che strutturale. Forse conviene che su questo, e con la massima urgenza, si misurino le disperse forze della sinistra italiana, ovunque siano esse presenti.
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