Il Riformista, 13/12/2008
cinque nodi
Il mio Pd corre un grave pericolo
di Michele Salvati
Anche la fase che fece seguito alla sconfitta del 2001 vide
incertezze e tensioni nel centrosinistra. Ma i riformisti avevano
ancora una carta da giocare e la giocarono, sia pure confusamente e
in extremis: la trasformazione dell'Ulivo nel Partito Democratico. La
fase che si è aperta dopo la sconfitta dell'aprile scorso vede
incertezze e tensioni forse minori di allora, e sicuramente meno
aperte, ma la carta da giocare non c'è più. Oggi non c'è una via
d'uscita: o il Partito democratico regge e si consolida, oppure
crolla l'intero disegno strategico che il centrosinistra ha
perseguito da dodici anni a questa parte.
Poco male, diranno alcuni: la sinistra riformista non muore se muore
il Partito Democratico. Se così avverrà, vuol dire che il progetto
era mal congegnato, astratto, antistorico. Oppure - diranno altri -
vuol dire che sono stati commessi errori irreparabili da parte
dell'attuale segretario. Io la penso in modo diverso. Continuo a
credere che il progetto del Pd sia un buon progetto, storicamente
maturo nel nostro Paese, potenzialmente capace di unificare i
riformismi che stanno tra il centro e la sinistra. E che, se il
segretario ha commesso errori - quasi sempre condivisi dai massimi
dirigenti del partito - questi non sono irreparabili. Penso anche,
però, che il Pd sia in serio pericolo. Penso infine che, se fallisse,
di certo la sinistra riformista non morirebbe, ma resterebbe
tramortita per un periodo imprevedibilmente lungo.
Tranne queste ultime, si tratta di opinioni che qui non posso
difendere: l'ho fatto tante volte in passato e le mie idee in
proposito non sono cambiate. Posso però motivare il mio allarme per
lo stato attuale del partito. Prima di entrare nel merito, due
premesse. (a) La prima è imposta dal momento in cui scrivo,
dall'esplosione della "questione morale" in riferimento alle
amministrazioni locali di centrosinistra. Non ne tratto perché, pur
essendo dannosa per l'immagine del Pd, non costituisce una di quelle
minacce alla sua identità/sopravvivenza di cui intendo occuparmi ora.
Anzi, esaurite le polemiche, essa potrebbe persino lasciare due
conseguenze positive. Una maggiore attenzione del partito
sull'attività delle persone che esso candida a cariche istituzionali,
come è prevista con lungimiranza e dettaglio sia dallo statuto, sia
dal programma. E una maggiore cautela nel fondare su questioni di
moralità/legalità la distinzione tra il centrodestra e il
centrosinistra. (b) La seconda premessa è che mi riferisco alle
condizioni minime di funzionalità del Pd, come di fatto è uscito
dalla fusione di due partiti e due ceti politici. Detto altrimenti,
non mi riferisco ad una radicale riapertura del cantiere dell'Ulivo,
come alcuni sognano e anche a me piacerebbe, ma che trovo al momento
poco realistica.
Le difficoltà del Pd, quelle che ne appannano l'identità e ne
minacciano la sopravvivenza, non stanno né nelle sue proposte di
politiche europee e internazionali, né in quelle relative a questioni
economico-sociali, né in quelle miranti ad una maggiore efficienza
del settore pubblico. E neppure in quelle, delicatissime, riguardanti
immigrazione e ordine pubblico. Insomma, per gran parte delle materie
che maggiormente interessano ai cittadini, non vedo ostacoli che
impediscano la costruzione di un programma buono e largamente
condiviso. E infatti era buono e condiviso il programma presentato
nelle ultime elezioni. Omettendo in questo articolo una dimostrazione
di quanto ho appena affermato, tento un breve catalogo delle ragioni
che, a mio parere, minano la credibilità del Partito democratico e
l'efficacia della sua azione. Si tratta di interna corporis, di
problemi che normalmente ai comuni cittadini non interessano, ma poi
si riflettono in una confusione dell'immagine del partito e in
incertezze della sua leadership.
1 Un residuo problema ideologico-culturale. Quante volte si è detto
che il successo dell'operazione Pd lo si sarebbe misurato
sull'effettiva integrazione tra le grandi tradizioni riformistiche
che in esso confluivano, e soprattutto tra la tradizione cattolica e
le altre: socialista, comunista, liberale! Che si sarebbe misurato
sulla formazione di un nuovo patriottismo "democratico", che
superasse e avvolgesse i precedenti patriottismi. Se questo è il
metro di misura, si deve concludere che si è trattato di un
insuccesso. Sinora. Le vecchie appartenenze continuano a dividere il
partito e un nuovo patriottismo "democratico" non si è ancora
formato. Perché?
I motivi ideologici di dissenso sono seri, anche se non insuperabili:
sui temi della famiglia e delle convivenze, sui temi eticamente più
delicati, sulla laicità, sui rapporti colla Chiesa cattolica e le
altre confessioni, ci sono differenze reali, e su di esse si formano
patriottismi tenaci. Patriottismi che la nuova identità democratica
fa fatica a inglobare per la debolezza della distinzione tra destra e
sinistra oggi, per la fragilità del "patriottismo di sinistra". Il
centrodestra non è più reazionario e codino e il centrosinistra è
venuto a patti con il mercato e l'individualismo liberale: passare
dall'uno all'altro schieramento, per molti, non è più sentito come un
tradimento identitario. Mentre può essere sentito come tale, da non
pochi cattolici, il venir meno alle indicazioni delle gerarchie
ecclesiastiche. Su gran parte dei problemi che interessano il
cittadino comune c'è una notevole omogeneità tra le grandi tradizioni
riformistiche. Ma anche il divorzio, l'aborto, la procreazione
assistita, la differenza tra matrimonio e convivenze, l'accanimento
terapeutico, l'eutanasia, il finanziamento statale delle scuole
confessionali..., e via seguendo, sono temi che interessano i
cittadini, e forti differenze nelle esternazioni di autorevoli
esponenti del partito non avvantaggiano certo la sua immagine. In
sintesi: il programma dell'Unione era molto incoerente; quello del Pd
lo è assai di meno, ma residua un'area di incoerenza significativa.
Dunque, motivi di dissenso ideologico ci sono. A mio avviso essi
sarebbero facilmente componibili se non si sovrapponessero a vecchie
appartenenze organizzative e ai modi in cui queste si sono trasferite
nel nuovo partito: non è sempre facile capire se il dissenso
ideologico è causa di separatezza organizzativa, o se è un puro
pretesto per giustificarla. Per come si sono svolte, le primarie non
sono state un'occasione di rimescolamento delle vecchie forze o di
ingresso di nuove, ma un semplice veicolo mediante il quale si sono
trasferiti nel nuovo partito i due ceti politici di Ds e Dl, più o
meno - poche le sorprese - nelle proporzioni fotografate al momento
della fusione. Dopo d'allora queste proporzioni si sono mantenute,
sia a livello locale che a livello nazionale. Su questo tornerò
subito, perché riguarda uno dei temi che dobbiamo trattare,
l'organizzazione del partito. Ricordavo qui il problema perché la
somma di differenze ideologico-culturali e di diverse origini
organizzative ha creato un partito a "canne d'organo", a pilastri
paralleli, attentissimi alla propria indipendenza e alle proporzioni
relative, pronti alla polemica tutte le volte che le proprie
bandierine sono minacciate: un esempio canonico (e noioso) è quello
del gruppo parlamentare europeo, ma non passa giorno che non ce ne
offra uno nuovo. Un partito a pilastri o a canne d'organo, oltre ad
essere poco attraente per l'elettore, è un partito già predisposto
per la rottura. Il Pd nasce sulla scommessa di fondere i riformismi
storici, di creare una emulsione fine tra riformismi laici e
riformismo cattolico. Se si perde la scommessa, si perde il partito.
2 Il modello di partito. Sale ovunque la richiesta di un partito
solido, radicato nel territorio, con organi dirigenti ben definiti e
ragionevolmente stabili: insomma, il vecchio modello del Pci e dei
grandi partiti socialdemocratici europei. In modo diverso, della
stessa Democrazia cristiana. E nello stesso tempo è forte
l'attrazione per un modello di partito aperto ai potenziali elettori,
continuamente rimescolato da elezioni primarie: l'Ulivo è nato su
questo disegno, soprattutto perché è attraverso le primarie, primarie
vere e competitive, che si pensava di sparigliare le vecchie
appartenenze. Ora si tocca con mano che tra i due modelli c'è una
forte tensione, se non una contraddizione di principio. E che
l'attuale statuto è un compromesso precario e instabile tra i due.
Non c'era bisogno di aspettare il pasticcio di Firenze per rendersi
conto dell'effetto dirompente che primarie vere, fortemente
competitive, esercitano sul vecchio modello: non è certo per ignavia
che Bersani non volle affrontare la competizione con Veltroni. Per
dirla con D'Alimonte «in gioco ci sono due diverse concezioni della
democrazia e del ruolo dei partiti. Non si può avere tutto e il
contrario di tutto - partiti forti e primarie vere, democrazia dei
partiti e democrazia diretta - senza aver approfondito come questi
diversi elementi possano coesistere in una sintesi coerente». Ma una
qualche sintesi provvisoria, più spostata verso il partito
tradizionale o verso il partito all'americana, bisognerà pur
raggiungerla. Come bisognerà pur raggiungere una qualche sintesi tra
il modello federale o nazionale: i due problemi sono parzialmente
collegati, perché un modello di primarie regionali ben si adatta a un
modello federale, a… un modello di "cacicchi", qualcuno direbbe. Ma
il collegamento non è necessario: si possono avere primarie vere su
un impianto nazionale e si può avere un modello federale anche con
primarie finte e organizzazione di partito tradizionale. Comunque,
per entrambi i problemi, è difficile presentare agli elettori un
profilo convincente nel contesto delle continue polemiche suscitate
dalla loro mancata soluzione. Da una soluzione tradizionale, o da una
innovativa. O da un qualche compromesso tra le due, ma chiaro e
lealmente accettato dalle parti in contesa. Il problema è serio,
anche se, per fortuna, non si sovrappone al problema precedente,
giacché "tradizionalisti" e "primaristi", con una netta prevalenza
dei primi, sono ben distribuiti nel ceto politico che proviene dai
due vecchi partiti.
3 La forma di stato e di governo. Anche la problematica istituzionale
e costituzionale poco interessa gli elettori, ma è fonte di tensioni
e polemiche interne e dunque raggiunge i comuni cittadini attraverso
la cattiva immagine che da di sé un partito diviso e litigioso. Un
pezzo importante di questa problematica è all'ordine del giorno, il
federalismo fiscale, ma altri sono in lista d'attesa: in tema di
giustizia, di forma di governo, di sistema elettorale. Sul
federalismo fiscale, e ancor di più sugli altri temi di riforma
costituzionale, i dissensi sono molto forti (lo sono anche nel
centrodestra, ma è magra consolazione). C'è chi pensa (anche se non
lo dice) che la riforma del titolo V sia stata una grande
sciocchezza, un cedimento nei confronti della Lega, e che la
Costituzione non dev'essere rimessa in alcun modo in discussione, né
per quanto attiene alla forma di Stato, né per la forma di governo. E
ci sono federalisti convinti e innovatori forti sulla forma di
governo, disposti a significative modificazioni dell'intero
ordinamento della repubblica, parlamento, presidenza, governo, ordine
giudiziario. Per fortuna, anche in questo caso, i contrasti cui
abbiamo accennato non si sovrappongono alla frattura tra i due ceti
politici di provenienza, e dunque non l'aggravano, essendo largamente
trasversali a entrambi. Ma creano tensioni e incertezze, ostacolano
la libertà di movimento e l'iniziativa politica, specialmente quando
il governo è impegnato in un programma di riforma costituzionale che
esigerebbe una risposta chiara da parte dell'opposizione.
4 Il futuro del sistema partitico, le alleanze e la legge elettorale.
Questo è un tema che divide il partito in profondità, anche se vale
la stessa osservazione già fatta per i due precedenti: la linea di
divisione non passa tra ex-Ds ed ex-Dl, essendo trasversale a
entrambi. Insieme con la mancata integrazione dei due ceti politici,
si tratta del (potenziale) conflitto più minaccioso per la
sopravvivenza del Pd. Finora è rimasto latente perché lo strumento
che potrebbe trasformarlo in conflitto aperto - una riforma della
legge elettorale - non è disponibile: al centrodestra va benissimo la
legge attuale, o comunque qualsiasi legge proporzionale con premio di
maggioranza per la coalizione, e finché le cose stanno così ci si
deve rassegnare al bipolarismo in cui ci troviamo. Si tratta di una
condizione molto sfavorevole per il centrosinistra, perché non ha
funzionato né la strategia di chiamare a raccolta l'intero fronte
antiberlusconiano (2006, esito pari, e poi governo affannato e
litigioso), né quella dell'"andare da soli" (2008, pesante
sconfitta). Come reagire? Anche se l'attuale governo scontentasse
profondamente gli elettori, montare una coalizione antiberlusconiana
tipo 2006 difficilmente garantirebbe una vittoria: l'Udc e altri
gruppi centristi mai parteciperebbero all'alleanza e, nel caso
improbabile di una vittoria, sarebbe invece probabile un governo
incoerente. Quanto all'alternativa dell'"andare da soli", essa può
essere stata utile per affermare l'identità del neonato Pd nel 2006,
ma si è visto quali esiti elettorali produce. È per questo che molti
nel Pd, sia di provenienza Ds che Dl, guardano con interesse ad una
possibile alleanza con l'Udc e - se e quando sarà possibile - ad una
legge elettorale di tipo tedesco, proporzionale con sbarramento, ma
senza premio di maggioranza per la coalizione. È evidente che, in
questo caso, l'alternanza come si è praticata negli ultimi
quattordici anni sarebbe finita, i governi non sarebbero scelti dagli
elettori ma formati in parlamento, e sarebbero fortemente
avvantaggiati i partiti che si collocano al centro dello schieramento
politico e possono allearsi sia a destra che a sinistra. La strategia
dell'Ulivo, strettamente legata ad una legge elettorale
maggioritaria, alla possibilità di alternanza, alla formazione di due
coalizioni contrapposte e tra le quali gli elettori devono scegliere,
non sarebbe più praticabile e la stessa sopravvivenza del Pd com'è
adesso, come tentativo di fusione delle tradizioni riformiste laiche
e cattoliche, sarebbe probabilmente minacciata. Si creerebbe infatti
lo spazio per un partito centrista moderato, a prevalente ispirazione
cattolica, un partito che parteciperebbe a tutti i possibili governi,
e il suo potere di attrazione sui cattolici moderati, ora costretti a
schierarsi a destra o a sinistra, sarebbe molto forte. Il Pd, in
questo caso resterebbe un partito a prevalente ispirazione
socialdemocratica, che al governo potrebbe partecipare solo
alleandosi con il partito (o i partiti) di centro, probabilmente
destinato/i a rafforzarsi.
5 Come fare opposizione. Le incertezze che il Pd ha manifestato in
questi otto mesi di opposizione non possono essere imputate solo al
mutato atteggiamento di Berlusconi o al pressing incessante di Di
Pietro, ma ad oscillazioni nel gruppo dirigente circa l'immagine che
il Pd vuole dare di sé. Quale immagine? L'immagine di un partito
responsabile, con idee proprie su ogni problema di governo, pronto a
contrastare i provvedimenti della maggioranza se da quelle idee si
discostano, ma anche a collaborare se è possibile trovare una
mediazione benefica per il Paese? Insomma, l'immagine che si è data
al Lingotto e in campagna elettorale, e che si voleva dare col
governo ombra? Oppure l'immagine di un partito ostile in via
pregiudiziale, che approfitta di ogni passo falso del governo per
segnalarne l'inettitudine o lo spirito partigiano, senza curarsi più
di tanto di proporre alternative realistiche ai provvedimenti che
critica? Affermare la prima immagine non è facile e nel breve periodo
può essere costoso: significa abbandonare il principale privilegio
dell'opposizione, che è quello di criticare senza fare contro-
proposte realistiche e di sostenere le ragioni di tutti gli interessi
colpiti dai provvedimenti dei governo. Significa avere idee
sufficientemente chiare e condivise su una vasta gamma di problemi, e
abbiamo appena visto che su alcuni questa condivisione manca.
L'immagine alternativa è più facile ed è quella cui buona parte del
popolo di sinistra è stato assuefatto nei lunghi anni di
demonizzazione reciproca tra centrodestra e centrosinistra. E siccome
la concorrenza di Di Pietro su questo bacino elettorale è forte, e
Berlusconi poco affidabile come interlocutore e anche lui pronto alla
demonizzazione (Il Pd "marxista-leninista"? Suvvia!), lo spostamento
in direzione di questa seconda immagine è stato quasi imposto dalle
circostanze. Ma è proprio questa l'immagine che il Pd vuol dare?
Dov'è andato a finire lo spirito del Lingotto e del governo ombra?
M adamina, il catalogo è questo. Questo è il catalogo delle
difficoltà che incontra il progetto del Partito democratico: messe
una di seguito all'altra, fanno una certa impressione e segnalano una
situazione di pericolo. Il progetto può fallire. I due pilastri dei
partiti costituenti sono ancora sufficientemente distinti da potersi
staccare o frammentare, qualora un diverso sistema di incentivi
istituzionali ed elettorali ne fornisse l'occasione. La grande
innovazione delle primarie fa fatica ad attecchire in un partito che
di fatto si è riorganizzato in modo tradizionale. Sulle riforme
istituzionali e costituzionali le idee sono contrastanti. Si sta
facendo sempre più forte la sensazione che il il Pd non sia in grado
di vincere costruendo una grande coalizione, e men che meno correndo
da solo. "L'Italia è fatta così", "è un Paese naturaliter di destra",
e la via d'uscita che non pochi auspicano è quella lasciare liberi
tutti in un gioco proporzionale: il governo, come prevede la
Costituzione, lo si farà in parlamento e, se va bene, la sinistra
riformista governerà insieme al centro. Forward to the Past, avanti
verso il passato! Questa sarebbe la fine del bipolarismo, dell'Ulivo
e probabilmente dello stesso partito democratico, come fusione delle
grandi tradizioni riformiste.
Non credo affatto alle affermazioni che ho messo tra virgolette, ma
la risposta di chi ci crede ha una sua forte e conservatrice
coerenza: perché imbarcarsi in una faticosa convivenza - nel partito
democratico - con chi proviene da diverse tradizioni? Perché mettere
in piedi le primarie, macchine complicate e che rischiano di spaccare
quel poco che rimane del partito? Perché rimaneggiare, nuovi
apprendisti stregoni, la forma di stato e la forma di governo
disegnate dalla Costituzione repubblicana? Perché non tornare al
centro-sinistra, con un robusto trattino in mezzo? Come si vede, per
tutti o quasi i problemi che ho menzionato, le possibili risposte si
lasciano facilmente collocare su un asse dove, ad un estremo, c'è una
posizione conservatrice ("ci siamo sbagliati, torniamo indietro"),
all'altro estremo una posizione di rilancio del progetto ("non siamo
stati abbastanza coraggiosi"). Sono entrambe posizioni comprensibili
e legittime, come lo sono altre possibili, intermedie. Il guaio è che
non vengono fuori con chiarezza. La mancanza di chiarezza, di
discussione esplicita, induce sospetti e conflitto, un'atmosfera di
crispacion, direbbero gli spagnoli - di irritazione, di
esasperazione - che avvelena il partito. Non sarà certo la conferenza
programmatica a metter fine a questa atmosfera. Forse potrà farlo un
congresso ben preparato. Molto ben preparato, da dirigenti che si
rendono conto del pericolo.
__._,_.___
1 commento:
Ai cinque nodi che imbrigliano il PD così ben analizzati da Salvati ne aggiungerei un sesto: l'immobilismo gerarchico interno bloccato su quattro nomi , Marini, Rutelli, D'Alema e Veltroni e due eterne staffette: Veltroni e D'Alema, Rutelli e Veltroni.
Chi è al di fuori di questo giro può contare solo su posizioni di pensionato illustre, oppure viene emarginato del tutto. E' successo due volte a Prodi (che peraltro avrebbe avuto la possibilià di girare il tavolo tra le primarie e le elezioni, ma gli mancò il coraggio), è successo a Fassino, è successo alla Bindi di cui è stato subito rimosso il notevole risultato delle primarie, sarebbe successo a Bersani se si fosse candidato.
Con un blocco di ferro di questo genere, che non vacilla neanche di fronte al rifiuto degli elettori democratici romani di votare per la staffetta, è evidente che non si può aggregare nessuno, e tanto meno hanno possibilità i vari tentativi di rinnovamento del ceto politico: i sindaci, il Nord, i teodem, tutti sostanzialmente ignorati e esclusi dalle ccoptazioni che contano.
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