La Stampa
31/12/2008
Non è Tonino il "tallone" del Pd
STEFANO PASSIGLI
Anche se la recente direzione del Pd ha respinto l’invito di Follini a rompere con l’IdV è innegabile che la secca sconfitta in Abruzzo abbia dato nuovo vigore a quanti giudicano una scelta sbagliata l’alleanza con Di Pietro. Ora, che l’IdV ne stia erodendo il consenso elettorale è indubbio, ma che il rimedio per il Pd stia nella rottura con Di Pietro piuttosto che in un serio esame delle ragioni per cui l’IdV cresce e il Pd cala è altamente opinabile.
Il Pd cala non per la presenza dell’IdV, che anzi consente di mantenere nell’ambito di un’opposizione riformista voti destinati all’astensione (Abruzzo docet), o che tornerebbero ad indirizzarsi (almeno nelle elezioni europee, grazie all’assenza di sbarramenti) verso quei partiti della sinistra radicale esclusi dal Parlamento dalla legge Calderoli. Il Pd cala per quattro ragioni: in primo luogo, perché il partito non ha saputo ancora darsi una precisa identità, come ben mostrano le divisioni al suo interno sulle questioni bioetiche (numerosi sono i parlamentari e aspiranti sindaci che non hanno votato al referendum abrogativo della legge sulla fecondazione assistita promosso dal partito), sulle politiche istituzionali e in particolare sulla legge elettorale, e i sempre più frequenti casi di dissenso in materia di riforma della giustizia, e persino di politiche scolastiche o di welfare. A ciò si aggiunga il progressivo venir meno - a tratti quasi un’epurazione - d’una delle grandi componenti storiche del riformismo europeo: quella del riformismo laico e liberal-democratico che tanta presenza ha ancora nell’università, nell’informazione, nelle professioni, nell’imprenditoria, con il conseguente indebolirsi del Pd proprio nella società civile e il suo tornare a chiudersi in un’autoreferenzialità di ceto politico ex Ds ed ex Margherita.
Una seconda ragione sta nel carattere della vita interna del partito: a gruppi parlamentari che il Porcellum elettorale ha voluto nominati e non eletti dai cittadini, né scelti da iscritti ancora non esistenti, si uniscono in un mix devastante organi nazionali largamente cooptati, e organi locali espressione di ponderate alchimie tra i partiti d’origine. Il risultato è una vita democratica asfittica e l’accentuarsi di quel carattere di leaderismo personalistico che si avvia a essere comune a tutti i partiti italiani, con la conseguenza, laddove le leadership non siano consolidate, di forti tensioni tra i gruppi al vertice del partito e una diffusa conflittualità a tutti i livelli, ragione non ultima della crescente disaffezione del suo elettorato.
La terza e maggior ragione della caduta di consenso nei confronti del Pd sta nell’emergere di una questione morale che anche se limitata a poche ben specifiche situazioni ha un forte impatto proprio per le aspettative di intransigente moralità che i partiti eredi del vecchio Pci hanno sempre ispirato al proprio elettorato.
Infine, e non ultima causa, alcuni irrisolti nodi politici, dalla collocazione europea del partito alla strategia delle alleanze: posto che i risultati elettorali hanno reso evidente che la «vocazione maggioritaria» non poteva intendersi come aspirazione all’autosufficienza, il nodo della politica delle alleanze diviene prioritario.
In questo contesto affermare che l’alleanza con l’IdV permette a Berlusconi di delegittimare tutta l’opposizione indebolendo il Pd, o che essa fa pagare al Pd un prezzo elettorale, rischia non solo di non cogliere le vere cause delle difficoltà del partito, ma di accrescerle. Il successo di Di Pietro è la conseguenza e non l’origine delle difficoltà del Pd: i dati di sondaggio suggeriscono che una rottura con Di Pietro, specie se unita a posizioni che autorizzassero rinnovati dubbi sulle capacità di opposizione del Pd, ne accelererebbe fortemente il declino elettorale. È solo all'interno di un cartello di opposizioni, e solo recuperando la sua iniziale e pluralistica vocazione a rappresentare tutte le tradizioni del riformismo italiano (e non solo quelle della sinistra post-maxista e del cattolicesimo democratico) che il Pd potrà ritrovare la funzione di innovazione politica che si era prioritariamente assegnata.
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