lunedì 29 dicembre 2008

Francesco Maria Mariotti: Gaza, la guerra impossibile

Dal Mondi e politica

Come sempre più spesso accade in Medio Oriente - ma è cosa che riguarda altre guerre più o meno "asimmetriche" che gli stati democratici (e non) tentano di combattere contro il terrorismo (anche se dicendo così metto insieme situazioni molto diverse fra loro) - l'attacco di Israele contro Hamas si configura come una guerra al tempo stesso inevitabile, ma impossibile a vincersi.

Probabilmente si ripresenterà uno scenario "simile" a quello della guerra in Libano: l'obiettivo più ambizioso non verrà raggiunto e "in corso d'opera" la politica riprenderà i suoi spazi, costretta dalla violenta impotenza delle armi, impotenza aiutata dalla non chiarezza di fondo sulla strategia di medio-lungo periodo e dal "periodo di transizione" che molti attori - in primis gli USA - stanno vivendo.

Ma è troppo facile parlare in queste ore, e preferisco lasciare spazio ad analisi più ampie e dettagliate che trovate anche sul blog (oltre a link a cartine dettagliate e all'intervista al TG1 di Tzipi Livni, ministro degli esteri di Israele).

Fra gli articoli comparsi oggi, Mondi e Politiche segnala e riporta in questa mail la riflessione sempre lucida di Boris Biancheri, dalla Stampa.

Spero che aiuti a comprendere, prima ancora che a giudicare.
Grazie

Francesco Maria Mariotti
http://mondiepolitiche.ilcannocchiale.it/

29/12/2008 - La Stampa - La novità può venire dal Cairo, di BORIS BIANCHERI
(http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=5415&ID_sezione=&sezione=)

Siamo talmente abituati all'insorgenza inaspettata di una crisi nella precaria convivenza tra israeliani e palestinesi, di un gesto che spazza via le laboriose speranze di dialogo e di pace o di un evento che fa temere di essere giunti ormai alle soglie di una guerra guerreggiata, che gli sviluppi drammatici di questi giorni, la ripresa dei lanci dei razzi Qassam contro Israele e la durissima reazione militare che ne è seguita, sembrano in fondo una ripetizione di quanto è già avvenuto in passato. Viene da pensare che a questa ennesima crisi farà seguito un ennesimo ritorno indietro. Tutte le diplomazie dei Paesi non direttamente coinvolti (e anche quelle di alcuni Paesi che si considerano coinvolti) invocano come prima cosa l'arresto della spirale di azioni e reazioni e il ritorno allo statu quo, per fragile che fosse. E forse sarà così.

Ma può darsi invece che questa crisi sia diversa e che allo statu quo, per un verso o per l'altro, non si torni. Intanto, è da dire che tre protagonisti di questo gioco sanguinoso sono alle soglie di una prova elettorale che dovrà confermare o rigettare la loro posizione al potere. Così è per Israele, dove la successione di Olmert apre prospettive incerte nel complicato schieramento delle forze politiche israeliane.

Il governo attuale non è responsabile della rottura della tregua, ma si è assunto la responsabilità di una reazione durissima. Le parole del bellicoso ministro Barak - «Siamo solo agli inizi» - sembrano destinate a mobilitare l'opinione pubblica interna, non certo a piacere a quella internazionale. I razzi Qassam, ancor più degli attacchi suicidi, sono la sola arma che eluda l'efficienza del sistema difensivo di Gerusalemme: Gaza in mano a Hamas è un rischio permanente, tregua o non tregua, per Israele meridionale; i conservatori, oggi ancor più di ieri, appoggiano chi fa di tutto per prevenirlo.

Anche Abu Mazen è alle soglie di una prova elettorale. Abbiamo visto negli ultimi tempi come, nella Cisgiordania sotto il suo controllo, le condizioni generali di vita della popolazione siano migliorate, grazie anche a un clima più costruttivo e ad aiuti internazionali. Il contrasto con la miseria di Gaza sovraffollata, retta da Hamas senza ordine e senza risorse, salta agli occhi di ogni palestinese. Che Hamas cerchi di contrastare i relativi successi di Abu Mazen in Cisgiordania e che, per farlo, sia disposto a rischiare perfino un ritorno degli israeliani nella Striscia di Gaza, non può sorprendere. Il terrorismo sa bene come sopravvivere anche alle occupazioni militari.

Infine, anche Ahmadinejad ha, a scadenza più lontana, un test elettorale che non può darsi per scontato. Per lui, profeta non della sconfitta ma della distruzione di Israele, ogni soluzione pacifica è inaccettabile. Una situazione di conflitto permanente, quale si è avuta per decenni, congiunta agli errori americani in Iraq, ha permesso all'Iran di essere sinora il solo vincente in questa eterna crisi mediorientale. Che la Palestina vada a ferro e fuoco non lo danneggerebbe e certo non smentirebbe le sue apocalittiche previsioni. Abbiamo così tre parti, ognuna delle quali, oltre a cercare di vincere la posta con gli avversari, deve difendersi alle spalle. Non certo le condizioni ideali per qualsiasi forma di compromesso.

C'è però un elemento di relativa novità, che sembra trapelare dalle dichiarazioni di taluni leader arabi, che suonano meno violente nei confronti di Israele di quanto i duecento morti e i quasi mille feriti dei raid delle forze israeliane potrebbero giustificare. Le riserve di alcuni governi islamici, soprattutto dell'Egitto, nei confronti di Hamas non sono beninteso cosa nuova. In più di una occasione Il Cairo aveva mostrato, anche recentemente, una tendenza a cercare soluzioni realistiche, di allargare, per esempio, i termini della tregua, di risollevare l'argomento del dialogo di pace, di comporre i dissidi interni tra palestinesi convocandone tutte le componenti politiche, senza peraltro ottenere la partecipazione di Hamas. Anche la conferenza stampa congiunta di ieri di Abu Mazen con il ministro degli Esteri egiziano è parsa meno dura nei confronti di Israele di quanto ci si sarebbe potuti attendere.

È presto per dire se i vertici dei Paesi arabi moderati intendono realmente fare un passo avanti verso una soluzione duratura del problema israelo-palestinese. La prossima riunione della Lega Araba darà forse indicazioni a questo riguardo. Intanto ce ne vengono da Gheddafi, il solo che minaccia fin da ora, senza sorprendere nessuno, il ferro e il fuoco delle sue parole. Certo, in questi giorni in cui le piazze islamiche si riempiono di manifestanti contro Israele, alcuni portaparola ufficiali del Cairo e del Golfo sono apparsi molto cauti. E non è un caso che un sondaggio popolare, fatto da Al Jazeera tra i suoi ascoltatori islamici, riveli una diffusa convinzione che la dura reazione israeliana sia stata incoraggiata sotto banco proprio da quei governi che avrebbero dovuto osteggiarla.

Nessun commento: