Commento alla “Predica di Natale” di Camillo Prampolini
Reggio Emilia 22-12-08
E’ bello essere riuniti qui in ricordo di un uomo con cui vorremmo aver diviso il pane. Come potrà confermarvi Gianni Bernini, ho accolto la sua proposta di essere qui stasera senza esitazione e considero questo invito un onore, fuor di retorica. Per me, riformista da sempre, Prampolini rappresenta l'esempio del socialista, gradualista nella prassi politica e, al contempo, intransigente nei principi e nei valori. Camillo Prampolini ci parla ancora; rimane dopo tanti anni il ricordo della sua vita bene spesa, perché ancora c’è fame e sete di giustizia. Le sue parole e il suo ricordo ci richiamano al senso vero e profondo, originario, del nostro essere cittadini e cittadine impegnati in politica, gente di sinistra, socialisti.
Prampolini aveva fede ferma nel socialismo perché per lui il socialismo non era una teoria economica, un’ideologia, un programma in sette o dieci o cento punti; per Prampolini il socialismo era una scelta di principio, un valore morale. Tra noi troppo spesso le pratiche del culto (culto di partito, elettorale..) hanno preso il sopravvento sulla fede nella nostra religione laica di giustizia e libertà.
Laicità, intelligenza e senso pratico, per servire a qualcosa, hanno bisogno di una bella fede, sincera e anche ingenua, di cui siano al servizio. E di opere, tante opere, perché, “Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: "Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi", ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa”. Queste le parole dell’apostolo Giacomo, in una bella pagina degli Atti degli Apostoli, bella e per me, mi si scusi, la più socialista.
Nelle chiese romaniche che furono costruite a Reggio e in tutta la pianura padana dopo l’anno Mille, erano visibili l’espressione della fede e quella del lavoro di una comunità. Basse e robuste come granai, quelle chiese raramente avevano firma di architetti o scultori: quasi sempre anonime, erano la raccolta dei saperi e del lavoro di tutti, scalpellini e muratori, falegnami e carpentieri. Erano la casa di tutti, e anche chi non crede in un Dio trascendente ne dovrebbe venerare le mura, perché tirate su con la fatica di tanti, per la speranza e il rifugio di tutti. In quelle chiese, forse solo per l’ora di una messa, si era tutti uguali, e gli sbirri non potevano arrestarti, e per molti erano l’unico luogo dove trovare qualche frescura d’estate, e un po’ di caldo d’inverno.
Ma veniamo alla “Predica di Natale”, che Prampolini scrisse sul periodico “La Giustizia”, dove immagina che un predicatore socialista tenga un discorso innanzi a una chiesa il giorno di Natale. Chissà quante volte l'avete sentita, questa predica, ma mi piace riprenderne dei pezzi:
“Lavoratori ! Ancora una volta voi avete festeggiata nelle vostre case e nella vostra chiesa la nascita di Gesù Cristo. Ma interrogate la vostra coscienza: siete ben sicuri di meritare il nome di cristiani? Siete ben sicuri di seguire i principi santi predicati da Cristo e pei quali egli morì?Badate! Voi vi dite cristiani, perché recitate le preghiere che v'insegnarono i vostri parenti; perché andate alla messa e alla benedizione; perché infine vi confessate, vi comunicate e osservate tutte le altre pratiche del culto cattolicoMa credete voi che questo basti per chiamarsi cristiani? voi non potete crederlo, o amici lavoratori.
Non potete crederlo, perché diversamente ......... si dovrebbe arrivare alla strana, assurda, ridicola conclusione che i primi e più devoti seguaci di Cristo e lo stesso Cristo in persona... non furono cristiani!
Voi sapete, infatti, che mille e tanti anni fa, quando Cristo cominciò a predicare la sua fede, non c'erano né curati né parroci né vescovi né cardinali né papi e neppure «chiese» ...... Voi sapete che egli era quasi solo contro tutti; che lo seguivano soltanto gli umili popolani; dei pescatori, degli artigiani, delle povere donne e dei ragazzi; che i ricchi e i sacerdoti del suo paese, i farisei e gli scribi lo derisero dapprima come un matto: e poi........ lo fecero arrestare e.......... lo trassero a morte, condannandolo al crudele e infame supplizio della croce.”
Sin da questa prima parte il testo appare fortemente anticlericale, ma per comprenderne il senso non possiamo non contestualizzare: siamo alla fine dell'Ottocento, dove l'analfabetismo era diffusissimo, buona parte della popolazione era affetta da pellagra, viveva di lavori saltuari o di accattonaggio, in luoghi malsani. Di qui la forte sottolineatura del messaggio di Cristo, portatore di un progetto di riscatto degli umili e degli emarginati.
Certo l'obiettivo di Prampolini era quello di piegare il messaggio cristiano al credo socialista, ne avvertiva l'esigenza e la necessità soprattutto perché se il messaggio di Cristo era appunto di
“...un odio profondo per tutte le ingiustizie, per tutte le iniquità; un desidero ardente di uguaglianza, di fratellanza, di pace e di benessere fra gli uomini, un bisogno irresistibile di lottare, di combattere, per realizzare questo desiderio: ecco l’anima, l’essenza, la parte vera, santa ed immortale del cristianesimo…”
ial contrario la Chiesa dell'epoca non era attenta a questi valori e postulava soprattutto l'etica della rassegnazione, che altro non significava che il mantenimento di quelle condizioni di povertà e di sfruttamento.
Dopo la pubblicazione della “Predica di Natale” puntuale arriverà la scomunica al periodico “La Giustizia” e lo stesso Prampolini verrà bollato come istigatore di costumi immorali e anti-cristiani.
Prampolini fu oggetto di una forte campagna di denigrazione da parte del clero, più di molti altri suoi compagni dell'epoca, proprio perché usava il messaggio cristiano e il suo linguaggio utilizzava spesso parabole e citazioni di Cristo. Non casualmente proprio la “Predica di Natale” fu l'oggetto vero della scomunica al periodico “La Giustizia”.
Il messaggio cristiano e quello socialista, nella lettura che ne dà Prampolini, si confondono, diventano una cosa sola. E questo non poteva che spaventare il clero.
Al di là del desiderio o della intenzione di Prampolini di piegare il pensiero cristiano al credo socialista, penso che siamo davvero tutti figlie e figli di questo bisogno di condivisione e di giustizia, bisogno che non è solo cristiano ma anche di altre fedi: nelle diverse parti del mondo, sotto diversi cieli, tanti uomini e tante donne, non tutti, per la verità, ma tanti, hanno espresso le medesime necessità spirituali, i medesimi bisogni, le stesse paure e speranze.
Da laica, e poco versata in questioni teologiche, ho letto senza gioia le congratulazioni di papa Benedetto XVI all’ultima fatica del filosofo Marcello Pera, che ha scritto un libro su liberalismo e cristianesimo per sostenere che senza cristianesimo non si dà liberalismo, e quindi, se capisco bene, che l’Europa liberale deve continuare a proclamarsi cristiana. Non solo, l'Europa deve inserire nelle proprie leggi di governo laico della cosa pubblica il richiamo alle proprie radici cristiane, solo così sarebbe compiutamente liberale: questione politica, a me pare, più che di fede ! Il Papa, elogiandone l’argomentazione, ha precisato che “un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile”, perché altrimenti si metterebbe “fra parentesi la propria fede”, mentre è necessario al limite “un dialogo interculturale” che permetta in sostanza una qualche centralità delle diverse religioni. Quindi, se capisco bene, un’Europa che si dà una costituzione che la definisce “cristiana”, e che magari “dialoga” con nazioni di legge ebraica e islamica.
Sempre da laica, mi turba l’idea che il capo della Chiesa cattolica non trovi possibile il dialogo interreligioso: davvero, dietro ai diversi dogmi, non c’è un’unica umanità, e quindi un unico Dio ? Un’antica favola racconta di tre anelli, uno autentico e due copie, e il cristiano, l’ebreo e il musulmano li portano con l’identica fede di avere al dito l’anello originale: nessuno sa chi ha ragione, tranne Iddio…che non lo dice ! L’ultimo senatore pagano, Quinto Aurelio Simmaco, scrisse a un imperatore: “Dobbiamo riconoscere che tutti i culti hanno un unico fondamento. Tutti contemplano le stesse stelle, un solo cielo ci è comune, un solo universo ci circonda. Che importa se ognuno cerca la verità a suo modo?”.
Ho paura di una religione che è ideologia e che divide tra fedeli e infedeli. Non mi convince un’ideologia liberale che prima separa fortunati e sfortunati, e addirittura trova nella religione fondamenti troppo comodi a leggi umane, troppo umane. Non prevediamo un’Europa che si dà leggi “cristiane”, anche perché così tra l'altro lasceremmo soli i tanti arabi che non vogliono essere governati da leggi “islamiche” e i tanti amici d’Israele che ogni giorno faticano ad arginare la pressione dei fondamentalisti e dei bigotti. Vogliamo leggi umane, fatte da esseri umani per esseri umani, che riconoscano che il patrimonio dell’Europa è fatto di tante fedi, tante culture, tante meravigliose diversità. Così affermiamo nel nostro Manifesto dei socialisti europei, e questo proporremo agli elettori di 27 Stati europei: un’Europa libera, aperta alle fedi, aperta ai migranti, in nome della propria storia plurale e ricca di tante diverse radici.
Non solo i Socialisti vogliono un'Europa libera ed aperta perché “UNITI NELLA DIVERSITA'” era il motto contenuto nel Trattato costituzionale europeo che ha preceduto il Trattato di Lisbona, che ancora aspetta la ratifica referendaria dell'Irlanda.
Noi, anche in nome di Prampolini, non marceremo al tamburo della “Guerra di Civiltà”. Il socialismo riformista è legalitario e perciò stesso pacifico: le armi del diritto e quelle del dialogo sono le più forti e le più sicure.
Chi è riformista in casa non può essere per la guerra fuori dei confini: se è scontato il diritto alla legittima difesa, non è con le armi che l’Europa avrà forza e sicurezza. Questo ci ha ricordato Josè Luis Zapatero a Madrid qualche giorno fa, e questa è l’Europa che vogliamo: un’Europa che persegua la sicurezza attraverso la pace, l’Alleanza tra Civiltà, il dialogo e il consenso. Quando hanno perso la battaglia per la pace, i socialisti hanno perso l’anima: penso ai crediti di guerra del 1914 e alle poco “radiose” giornate del 1915, alla guerra coloniale in Algeria difesa dai socialisti francesi per malinteso patriottismo, al processo di pace in Medio Oriente che non si conclude anche per carenza di fiducia, da una parte e dall’altra, nella forza della pace, e sì che abbiamo tanti laici, e tanti laburisti sia in Israele che in Palestina! Penso alla guerra in Iraq, che è stata una guerra sbagliata, non per la caduta di un dittatore, ma per il prezzo di vite umane che ha comportato, e il dolore e il lutto che ha lasciato. L’orrore del sangue è dei socialisti e dei cristiani, è orrore per le guerre e le rivoluzioni, è amore per il lavoro e il dialogo. Pare che nel 1943 o '44 (credo che Mauro Del Bue lo abbia ricordato in un suo scritto) i socialisti reggiani dovettero essere rimproverati, dai comandi della Resistenza, perché prevedevano una lotta solo nonviolenta all’occupante nazista. Forse allora sarà parsa debolezza, oggi ammiriamo la forza di quella proposta.
Ma torniamo a Prampolini: oppositori e detrattori del suo pensiero provenivano da mondi diversi, da mondi anche in lotta fra di loro.
Ma c'era anche chi capiva e già da allora vi erano settori del mondo cattolico che non condividevano questa opposizione clericale a Prampolini. Tra questi Romolo Murri che proprio qui a Reggio Emilia riunì al “Politeama Ariosto” gli esponenti cattolici reggiani per convincerli che non aveva senso battersi contro Prampolini senza occuparsi degli operai “che con tanto affetto si volgevano a lui”.
In realtà il rapporto di Prampolini con l'etica cristiana era profondo, il suo messaggio era molto più intrinsecamente legato al messaggio evangelico rispetto anche ai socialisti dell'epoca, tanto che il suo venne definito “la lotta senza odio”, poiché proponeva una lotta non contro la classe dei ricchi e dei padroni ma una lotta per una riforma sociale che ponesse le basi di una ricchezza collettiva, una lotta senza odio per una società di liberi e uguali.
Consentitemi una digressione: potremmo dire, attualizzando e citando una polemica di poco tempo fa, non “anche i ricchi piangono”, ma “anche i poveri ridono, perché non sono più tali”.
Tra i detrattori di Pratolini non ci fu solo la Chiesa ma anche Lenin e esponenti comunisti che, avendo individuato nel biennio rosso la possibilità di sviluppo rivoluzionario in Italia, condannò l'azione di Turati, D'Aragona e Prampolini come manovra tendente a “ostacolare la rivoluzione”. “La Giustizia” aveva qualificato “praticamente utopistico e moralmente ripugnante” il metodo bolscevico, suscitando aspre critiche di Gramsci che attribuì a Prampolini e Zibordi l'etichetta di “guardie bianche”.
Ma furono soprattutto le realizzazioni concrete del socialismo riformista reggiano, di cui Prampolini era il massimo esponente: la prima farmacia municipale per la vendita dei farmaci ai poveri, la municipalizzazione della luce e del gas, l'apertura di un mulino, un forno e un pastificio comunali per il pane, la costruzione di scuole comunali, gli asili in tutte le frazioni del Comune di Reggio, le prime cooperative di consumo con prezzi di vendita più bassi per i soci, le prime cooperative di lavoro per offrire un'attività a chi non l'aveva – che costruiranno la ferrovia Reggio-Ciano – fu tutto questo ad attirare il giudizio da parte dei detrattori che questo non era socialismo ma sola una sorta di solidarismo cristiano, e fra questi lo stesso Gramsci che ebbe l'ardire di definire i riformisti reggiani “utili idioti”. Oggi tutti, compresi gli eredi di Gramsci, sottolineano il valore di queste realizzazioni, dimenticando però troppo spesso di riconoscerne la paternità.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, vi sono state un'evoluzione e un'emancipazione oggettive del mondo dei lavoratori – e io aggiungo delle donne – sul piano economico, sociale, culturale, e le opposizioni al suo pensiero si sono di molto ridimensionate. Ampi settori cattolici hanno trovato una convergenza con la cultura riformista, uno per tutti: il “cattolico adulto” Romano Prodi, che aveva concepito l'Ulivo come contenitore, con possibilità di sintesi, di tutte le tradizioni riformiste. La preoccupazione che vivo è che capiti a lui un'analoga, seppur diversa, emarginazione.
Prampolini concludeva così la sua Predica di Natale:
“Lo disse Gesù stesso nel famoso «discorso sul monte»: 'Beati coloro che sono affamati e assetati di giustizia, perciò che saranno saziati! Beati coloro che son vituperati e perseguitati per cagion di giustizia!'
Prendete a guida della vostra vita queste parole, o amici lavoratori, e... sarete socialisti. Voi sarete con noi, lotterete al nostro fianco, perché noi socialisti siamo oggi i soli e veri continuatori della grande rivoluzione sociale iniziata da Cristo; siamo noi 'gli assetati di giustizia'; siamo noi che in nome dell'uguaglianza umana leviamo alta un'altra volta la bandiera dei poveri, dei diseredati, dei piccoli, degli umili, degli oppressi, degli avviliti, dei calpestati; siamo noi che - innalzando un inno al lavoro produttore d'ogni ricchezza - annunciamo ai ricchi padroni del mondo il trionfo immancabile e il regno dei lavoratori; noi che ci sforziamo di affrettare questo regno; noi i derisi, i 'vituperati e perseguitati per cagion di giustizia'.”
Sembrano parole d'altri tempi, ma se noi volgiamo lo sguardo al di là dei nostri confini, vediamo in molti Paesi del mondo quelle stesse condizioni di sfruttamento, di povertà e di schiavitù del bisogno. E proprio per questo le parole di Prampolini non possono che tornare di attualità.
Viviamo in tempi di grave crisi economica, determinata dalle contraddizioni e dalla mancanza di regole del mercato finanziario. Udiamo voci, quasi soddisfatte, di ecclesiastici che prevedono un Natale più santo e meno consumistico. Occorrerebbe però considerare che la crisi non toglierà solo settimane bianche e panettoni mandorlati, ma colpirà posti di lavoro, la sicurezza della casa, getterà nell’angoscia tante famiglie. Non c’è santità nella povertà, quand’è imposta e non scelta. C’è ingiustizia, invece, negli esiti di una crisi che non tocca i responsabili, i ricchi executives che hanno ricevuto in questi vent’anni stipendi centinaia di volte più ricchi di quelli dei loro dipendenti, e che spesso vengono oggi sontuosamente liquidati purché lascino i loro uffici e almeno cessino di far danni alle aziende e alle banche. C’è di nuovo bisogno di politiche di redistribuzione del reddito (ma erano mai state inutili ?), di sicurezza sociale, di regole e valori che contengano l’avidità, l’egoismo, l’isolamento dei deboli e la prepotenza dei forti.
C’è bisogno dei socialisti. E anche noi abbiamo bisogno di fiducia in noi stessi, di fede sincera e genuina, di essere tutti un po’ meno furbi e inutilmente smaliziati, per essere meglio in grado di portare avanti la nostra fede e i nostri ideali. Senza vergognarci se non saremo brillanti, salottieri e cinici, ma anzi noiosi e idealisti, e dediti alla fatica delle opere.
Buon Natale.
Pia Locatelli
Nessun commento:
Posta un commento