Da Nuvole, aprile 2008
Felicità, decrescita, sviluppo sostenibile
di Alessandro Vercelli*
Scrivo queste note nel week-end delle elezioni prima di conoscerne i risultati. Le osservazioni seguenti sono esclusivamente di tipo strategico e quindi la loro validità è indipendente dai risultati di questa tornata elettorale. Una attenta analisi dei risultati elettorali influirà sulle modalità tattiche di realizzazione della visione programmatica ma non sulla sua fondatezza.
La campagna elettorale ha reso evidente quanto già si sapeva: l’obiettivo politico fondamentale dei partiti (di destra, centro e la maggior parte di quelli di sinistra) e delle parti sociali (sindacati dei datori di lavoro e gli stessi sindacati dei lavoratori con poche eccezioni) è la crescita del Pil, che non a caso viene chiamata semplicemente “ la crescita”, come si dice “il Signore”. Dietro questo feticcio sta la convinzione che il Pil sia tutto sommato un indice affidabile del benessere dei cittadini per cui se cresce il reddito anche il benessere dei cittadini è destinato a crescere.
Nessuno negherebbe che il benessere dei cittadini dipende anche da come il Pil viene distribuito (povertà e disuguaglianza) e dagli altri aspetti qualitativi della crescita: occupazione, salute, protezione dell’ambiente, qualità della vita, diritti civili e così via. Vi è però la convinzione, diffusa, ma infondata, che la crescita del reddito sia una condizione necessaria per il raggiungimento degli altri obiettivi. Troviamo ancora qualche eccezione a sinistra (sorprendentemente rara tra i politici che si dichiarano di sinistra). Ma una logica alternativa che rifiuti il feticcio della crescita non è riuscita ad affermarsi nel dibattito elettorale, per colpa dei mass media, certo, ma anche della debolezza propositiva ed organizzativa dei dissenzienti. Eppure gli argomenti contrari al feticcio della crescita sono molto numerosi, talvolta tutt’altro che nuovi e spesso molto robusti.
Sappiamo da tempo che i metodi di calcolo del Pil sono fortemente distorsivi perché valutano come valore aggiunto attività che, come le “spese difensive”, non aumentano il benessere ma sono tutt’al più destinate a difenderlo da minacce sociali (antifurto, costruzioni di nuovi carceri) e ambientali (condizionatori, doppi vetri), mentre – viceversa – non valutano fattori fondamentali quali le variazioni nella quantità e qualità del capitale umano, sociale e ambientale. Queste critiche sono note da tempo e sono state recentemente confermate dalla letteratura empirica sulla felicità che ha attratto un’attenzione crescente negli ultimi anni.
Dopo la seconda guerra mondiale, nei paesi industrializzati il Pil è aumentato di parecchie volte mentre la felicità dichiarata dai cittadini non è aumentata affatto, anzi in alcuni paesi (tra i quali gli Stati Uniti) è addirittura diminuita. Il “paradosso della felicità” si spiega perché la correlazione positiva tra crescita del reddito pro capite e felicità, che è molto elevata per i redditi più bassi, oltre una soglia di reddito sorprendentemente bassa (di circa 10.000 dollari all’anno) tende a svanire. Estese ricerche empiriche condotte negli ultimi anni in molti paesi dimostrano che, da quel punto in poi, la felicità dipende essenzialmente da fattori sociali (minore povertà e disuguaglianza, migliori relazioni interpersonali) e ambientali (esaurimento delle risorse naturali e inquinamento) indipendentemente dalla crescita o meno del reddito.
Per quanto riguarda le caratteristiche qualitative del processo di crescita del Pil, il tipo di crescita che si è affermato negli ultimi decenni non è riuscito ad avviare a soluzione neppure i problemi sociali ed ambientali più urgenti. Si è sostenuto, e si continua a ripetere, che la crescita del Pil sarebbe l’unico metodo possibile per superare la povertà. L’argomento si basa sull’assunzione che ci siano pochi margini per modificare la distribuzione dei redditi che, non a caso, sarebbe molto simile nella maggior parte dei paesi. Se non si può modificare sensibilmente le dimensioni delle fette di torta, neppure di quelle più piccole destinate ai più poveri, l’unico modo per accrescere queste ultime starebbe nel progressivo incremento delle dimensioni della torta. Tuttavia questa diffusa convinzione è priva di fondamento.
Gli storici economici hanno calcolato che se la disuguaglianza nella distribuzione del reddito non fosse progressivamente peggiorata dall’inizio dell’800 ad oggi il numero dei poveri nel mondo sarebbe pari ad un ottavo di quelli che vengono stimati dalla Banca Mondiale. Inoltre, ciò che è ancora peggio, il numero dei poveri ha accelerato il suo ritmo di crescita negli ultimi decenni in concomitanza all’affermarsi degli indirizzi neoliberisti. La verità è che non riusciremo mai ad ottenere vittorie significative sulla povertà se non adotteremo coraggiose politiche redistributive.
La disuguaglianza nella distribuzione del reddito è aumentata in modo significativo in tutti i paesi industrializzati a partire dalla fine degli anni ‘70, da quando cioè Margaret Thatcher nel Regno Unito (nominata Primo Ministro nel 1979) e Ronald Reagan negli Stati Uniti (eletto Presidente nel 1980) hanno iniziato a perseguire sistematicamente le idee neoliberiste propugnate dai monetaristi e da alcuni politologi negli anni ’70 come unica risposta possibile alla stagflazione di quegli anni. La nuova strategia politica basata su privatizzazioni, deregolamentazione dei mercati e progressivo smantellamento del welfare state, si è riflessa rapidamente in un progressivo incremento della disuguaglianza.
Gli economisti ortodossi sostenevano allora che un incremento della disuguaglianza indotto dalle politiche neoliberiste avrebbe rafforzato gli incentivi a lavorare di più e meglio ad avrebbero quindi contribuito alla crescita; i più cauti ritenevano che l’incremento della disuguaglianza dovesse essere considerato un effetto collaterale negativo di una medicina necessaria per rilanciare la crescita evitando l’inflazione. Le ricerche successive hanno smentito queste convinzioni. La correlazione statistica tra disuguaglianza e crescita risulta essere negativa; inoltre gli effetti negativi della disuguaglianza sulla felicità e sulla salute psico-fisica dei cittadini risultano essere molto più intensi e profondi di quanto si ritenesse prima. L’incremento della disuguaglianza si è accompagnato, come era ovvio anche se la teoria monetarista negava allora questo nesso, con un progressivo aumento della povertà anche nei paesi più ricchi. Il numero dei poveri, cioè delle persone che vivono con meno di due dollari al giorno secondo la definizione della Banca Mondiale, ha accelerato la sua crescita avvicinando il traguardo dei tre miliardi (circa metà della popolazione mondiale).
Quanto ai vincoli ambientali alla crescita, il deterioramento ambientale negli ultimi decenni si è globalizzato ed intensificato mettendo a repentaglio la continuazione non solo della crescita ma anche dello sviluppo. In particolare l’attuale sistema energetico basato sui combustibili fossili si sta scontrando con cogenti vincoli di scarsità dei combustibili fossili convenzionali (petrolio e gas naturale) e allo stesso tempo con conseguenze di inquinamento della biosfera che hanno effetti preoccupanti sul cambiamento climatico e sugli equilibri biologici dell’atmosfera, delle foreste, degli oceani e dei corsi di acqua dolce.
Il recente incremento senza precedenti del prezzo del petrolio in una situazione di recessione degli Stati Uniti (che consumano da soli un quarto del petrolio mondiale) e di forte rallentamento della crescita dell’economia mondiale sembra confermare che il picco di produzione del petrolio è gia stato superato (come ha sostenuto il prestigioso Energy Watch Group nel 2007) o sta per essere raggiunto (come ha previsto il Rapporto Hirsch nel 2005). Dopo il picco si creerà un divario crescente tra domanda di petrolio, che secondo le proiezioni delle agenzie internazionali tende a crescere ad un ritmo di circa il due per cento all’anno e l’offerta di petrolio convenzionale che non potrà più crescere per vincoli geologici e tecnologici. La carenza strutturale di combustibile liquido che ne consegue potrà essere colmata nel breve periodo soltanto da un crescente ricorso al carbone ed ai combustibili fossili non convenzionali (sabbie bituminose, petroli pesanti, idrocarburi intrappolati nei ghiacci polari), che sono molto più costosi ed incrementano le emissioni di gas serra, nonostante i tentativi di controllo ben intenzionati, ma poco efficaci, previsti dal Protocollo di Kyoto. Queste tendenze sono già in corso e stanno accelerando, ad una velocità imprevista fino a pochi anni fa, il trend di incremento della temperatura media del globo. Continuando così la temperatura media supererà entro pochi decenni la soglia dei due gradi centigradi oltre la quale i climatologi prevedono effetti disastrosi difficilmente controllabili e reversibili.
Per evitare le gravi conseguenze economiche e sociali di queste tendenze bisognerebbe accelerare quanto più possibile, con una politica sistematica di incentivi e disincentivi, la transizione verso un sistema energetico alternativo basato sulle fonte rinnovabili che, per definizione, non sono soggette a vincoli di scarsità (se non temporanei dovuti alla carenza di impianti ed infrastrutture) e non emettono gas serra. Questo processo di transizione richiede tempo. Nel frattempo, l’unico modo alternativo per colmare rapidamente la carenza di combustibile liquido compatibile con i vincoli dell’attuale sistema energetico sembra essere l’incremento della produzione di biocarburanti. Anche questa tendenza è in atto e sta producendo ripercussioni pesanti sul prezzo del cibo riducendo l’estensione dei terreni coltivati a scopo alimentare. Urge pertanto il varo di una strategia di interventi massicci, coordinati sul piano internazionale, per accelerare la transizione ad un diverso sistema energetico basato sulle fonti rinnovabili.
La via d’uscita dai gravi problemi sociali ed ambientali ai quali abbiamo qui accennato esiste, ma è molto difficile produrre il necessario consenso politico a favore di misure che hanno dei costi nel breve periodo, dell’ordine di grandezza dell’uno per cento del Pil mondiale annuo, anche se ci permetterebbero di evitare costi ben maggiori (che potrebbero raggiungere il 20 per cento del Pil mondiale annuo secondo la Stern Review pubblicata un anno fa).
Purtroppo i politici e l’opinione pubblica hanno un orizzonte temporale sempre più breve. Sarebbe compito della sinistra spostare l’attenzione su questi grandi temi da cui dipende la sopravvivenza e il benessere delle generazioni future ma anche la nostra felicità immediata. La sinistra ricupererebbe il suo ruolo di agente fondamentale del progresso umano se riuscisse a far coagulare il consenso su ambiziosi programmi di intervento nel campo sociale, ambientale ed energetico in grado di avviare a soluzione i gravi problemi che ci stanno di fronte. Assecondando il mito della crescita come necessaria condizione del progresso umano e limitandosi a proporre correttivi che possono essere utili ma non all’altezza dei problemi, la sinistra rinuncia al suo ruolo fondamentale di coscienza critica e di progettualità lungimirante.
Concludo mettendo il dito su di un’ulteriore piaga della sinistra che si è manifestata di recente senza validi motivi e con conseguenze preoccupanti. Le sparute forze intellettuali e politiche che si confrontano in modo attivo e costruttivo sui grandi temi qui citati sono oggi divise da un conflitto inutile che è sostanzialmente basato su un equivoco. C’è chi organizza le proprie analisi critiche e proposte strategiche sulla base del concetto di sviluppo sostenibile e chi contrappone una diversa visione basata sulla “decrescita”. Questo conflitto sta diventando parte del problema che ambedue le correnti intenderebbero risolvere. Infatti le forze portatrici di un cambiamento radicale hanno bisogno di idee-forza e di slogan che permettano una convergenza di analisi e di volontà sufficientemente ampia ed efficace, ma questa divisione rischia di comprometterne l’influenza.
Quanto detto sopra si può facilmente riformulare nel linguaggio dello sviluppo sostenibile. In questa ottica (che ha tratto origine dal Rapporto Brundtland pubblicato nel 1987) lo sviluppo è molto di più della crescita del Pil ed è in parte indipendente da esso in quanto è condizionato non solo dalle sue caratteristiche quantitative ma anche, e soprattutto (oltre una certa soglia di reddito), dalle sue caratteristiche qualitative umane, sociali e ambientali. Lo sviluppo è nella sua essenza un processo di espansione della libertà umana e della capacità delle persone di autorealizzarsi. Lo sviluppo così inteso è sostenibile solo se, per tutti i sottoinsiemi rilevanti della popolazione mondiale, vengono soddisfatti i bisogni fondamentali senza mettere a repentaglio la capacità di altri sottoinsiemi presenti e futuri di soddisfare i loro bisogni. Ciò è possibile soltanto rispettando una serie di condizioni non solo economiche ma anche sociali ed ambientali che garantiscono appunto la sostenibilità dello sviluppo.
La prospettiva della decrescita (suggerita per primo da Serge Latouche a partire dagli anni ‘90) polemizza non solo con il feticcio della crescita ma anche con la prospettiva dello sviluppo sostenibile. Ciò dipende a mio parere da un equivoco. La diffusa confusione tra sviluppo e crescita che si trova nei mass media e nei discorsi dei politici per indorare la pillola della crescita con correttivi più o meno significativi ma comunque insufficienti, induce erroneamente i fautori della decrescita ad interpretare la prospettiva dello sviluppo sostenibile come mero restyling del mito della crescita. Questa interpretazione non può essere considerata corretta non solo per quanto riguarda la concezione della sostenibilità dello sviluppo qui proposta ma anche per tutti i numerosi contributi seri nell’ambito di questa prospettiva.
Un ulteriore elemento di equivoco è introdotto dalla scelta dello slogan della decrescita come provocazione contro il mito della crescita. L’oggetto della polemica è pienamente fondato, come abbiamo visto, ma è del tutto condiviso dai fautori seri dello sviluppo sostenibile. Lo slogan rischia tuttavia di spostare l’attenzione sugli aspetti quantitativi della crescita in analogia, seppure in contrapposizione, al feticcio della crescita. La decrescita non è condizione né necessaria né sufficiente per lo sviluppo sostenibile come qui definito. Se si va al contenuto, le indicazioni di analisi e di strategia che emergono dalla teoria della crescita sono del tutto compatibili con quelle dei teorici dello sviluppo sostenibile. E’ pertanto auspicabile che il conflitto tra fautori dello sviluppo sostenibile e fautori della decrescita si ricomponga al fine di ricompattare un fronte comune che riesca a dare più vigore alla visione strategica della sinistra.
* Alessandro Vercelli insegna Politica economica all’Università di Siena.
Sui temi qui affrontati ha pubblicato con Simone Borghesi “Global Sustainability. Social and Environmental Conditions, Palgrave Macmillan”, 2008 (versione aggiornata di“La sostenibilità dello sviluppo globale”, Carocci, Roma 2005).
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