domenica 29 gennaio 2012

Franco Astengo: La lettura dei giornali

LA LETTURA DEI GIORNALI
La lettura dei giornali rimane la preghiera dell’uomo moderno, il momento più significativa del confronto con le idee degli altri al di fuori dal frastuono ridondante della canea televisiva e dall’ansia comunicativa del web, strumenti che pure siamo costretti a usare per relazionarci con il mondo.
Con questo spirito mi sono accinto anche oggi a sfogliare le pagine dei principali quotidiani italiani che ancora, ostinatamente, compro all’edicola rifiutandomi di consultarli on-line: una fredda mattinata di gennaio che conciliava la concentrazione sulle parole scritte.
Ho trovato, inavvertitamente, risaltare l’idea di questa nuova Italia messa in piedi dopo l’ubriacatura populista degli anni scorsi: un’Italia dominata davvero da un’élite, fredda, determinata, che ha in mente soprattutto ed essenzialmente la conservazione del potere per la propria casta di lontani e d’intoccabili, non più la “casta” arraffona e sconclusionata dei presunti “nominati” dal popolo, ma una sorta di “governo dei filosofi”, di nuovi mandarini, algidi chirurghi della dinamica sociale.
L’impressione più netta, in questo senso, si ricava dall’intervista di un professore, che si cimenta talvolta anche a scrivere editoriali scendendo provvisoriamente dal suo empireo, sul tema del riconoscimento legale del titolo di studio anzi della laurea, unico titolo di studio degno di essere riconosciuto come tale (le fatiche del maestro Manzi per insegnare a tutta l’Italia a leggere e a scrivere, il lavoro di formidabile acculturazione collettiva compiuto dai grandi partiti di massa nell’Italia del dopoguerra, la scuola media unica e l’accesso libero alle facoltà universitarie appaiono ormai spettri lontani della ricerca di un dannoso egualitarismo culturale).
Ebbene due passaggi di quell’intervista sono significativi.
Laddove si sostiene che la prima domanda da rivolgere a un laureato è: dove ti sei laureato? Presupponendo la risposta in Serie A, o B o C? Come se la scelta dipendesse dal merito o non dalle opportunità di partenza, dalle disponibilità logistiche, dalle condizioni economiche della famiglia, dalla posizione sociale di papà, insomma da tutte quelle che cose che sappiamo, che compongono materialmente le scelte dei nostri giovani, ben al di là della bravura soggettiva.
Si torna, quindi, alla distinzione di classe fin dentro l’Università, figuriamoci fuori nella concezione della idea del feroce darwinismo sociale che anima queste persone.
Senza contare il disprezzo che si esprime, sempre nelle parole di questo professore, per i vigili urbani che si iscrivono a scienze politiche e magari, aggiungo, anche per le bidelle che si laureano in psicologia.
Il secondo passaggio può essere così virgolettato “Il governo decida, non stia a sentire la gente”. E’ inutile commentare la concezione della democrazia che emerge da questa affermazione.
Dalla crisi emerge così questo nuovo notabilitato che ha preso in mano le redini del Paese guardando all’Europa dei tecnocrati, non tenendo in alcun conto la fatica del popolo, di chi suda il proprio lavoro, di chi cerca di ritrovare una propria dignità sociale nello studio: l’idea appare proprio quella di un’Italia divisa tra un ceto assiso, per meriti imperscrutabili, sulla loggia del potere e un’Italia situata in basso, china all’opra tacendo, senza possibilità di risalire, far sentire la propria voce, esprimere l’aspirazione alla solidarietà e all’eguaglianza.
Un’Italia senza voce e volto, dominata da una corte di professori in toga che decidono senza interrogare.
Su questo stato di cose, molto concreto, la sinistra italiana non ha nulla da opporre se non un chiassoso movimentismo o un pallido appoggio per tentare di mantenere comunque una fetta di apparente potere da spartire al tavolo dei nuovi dominatori?
Forse sarebbe il caso di ragionare nuovamente in termini di “classe”, perché da qualunque parte la si rigiri di questo trattasi, almeno fino a prova contraria.
Grazie per l’attenzione
Savona, li 28 gennaio 2012 Franco Astengo

7 commenti:

giovanni ha detto...

Bisogna vedere cosa si intende per classe... è chiaro che non si possono più intendere in senso ottocentesco, per la loro pluralità di composizione e struttura. Ed è altrettanto chiaro che le azioni umane non sono motivate solo da fattori strutturali, ma anche (e talvolta soprattutto) sovrastrutturali. Detto questo, un' "analisi di classe" non fa mai male, purché non ci illudiamo che serva a spiegare il mondo e la storia, ma solo, se va bene, determinate fasi e momenti

claudio ha detto...

Non tutte le università sono eguali, ma un voto alto in una università scassata è probabilmente meglio di uno basso alla Bocconi. Poi ci sono i discorsi sul valore legale. L'università di Torino, che non è di quelle scassate, ma ha bisogno di soldi, ha fatto una serie di convenzioni con i sindacati di polizia, carabinieri, enti locali e in particolare vigili urbani per fornire lauree con percorso agevolato, perché sono condizione per un avanzamento di grado.
Morale, grazie a una gestione clientelare del sindacato e della politica il comune di Torino ha 5 volte i dirigenti di quello di Milano...

franco ha detto...

Condivido nella sostanza, si tratta di non smarrire le coordinate di fondo e saperle adattare al contingente con coerenza. Franco Astengo

felice ha detto...

Quasi quasi mi convinco di una provocazione di un compagno, che diceva perché non facciamo il Partito dei Poveri: ha un grande futuro

Che ne pensate di un PPPL Partito dei Poveri dei Precari e dei Lavoratori o Partito Democratico dei Poveri Precari Lavoratori PDPPL

giampaolo ha detto...

Non è proprio male. ma poi.......chi lo finanzia?

elio ha detto...

Caro Besostri, non sarebbe più produttivo raccogliere le firme e presentare una proposta di legge di iniziativa popolare che con un pò di fatica abbiamo scritto e depositeremo in tempi brevi in Cassazione? Elio Veltri

giovanni ha detto...

Caro Felice, apprezzo la battuta di spirito, ma in Italia i poveri sono molti, ma comunque in forte minoranza. A mio giudizio la questione delle alleanze sociali prima ancora che politiche che possono portare le forze autenticamente progressiste (ve ne sono anche nel PD e nel PSI, ma in forte minoranza), non si pone ne sollecitando l’alleanza dei poveri, ne la lotta di classe. Esiste nel nostro Paese e, credo in tutta Europa, un vasto settore di persone che vivono del loro lavoro, prevalentemente intellettuale o prevalentemente manuale che sia e che pur vivendo in condizioni di benessere o di relativo benessere, vede ridursi i suoi redditi ed il suo benessere a favore di una minoranza, tutt’altro che esigua, che gode di posizioni di rendita personale, immobiliare, finanziaria, ecc. La parte più attiva e produttiva della popolazione spende parte del suo tempo e delle sue fatiche per mantenere la parte parassitaria e questo comincia ad essere percepito da parte dei ceti medi e provoca un senso di fastidio ed un desiderio di reazione. Io mi spiego, ad esempio, così, in buona parte, il successo di Pisapia. Io reputo che occorra rendere sempre più chiaro ai settori penalizzati dei ceti medi che le cose stanno così e convincere i lavoratori dipendenti, i precari, i disoccupati che occorre una proposta programmatica che sia di interesse per la vasta e maggioritaria parte della società che vede regredire il suo ruolo ed il suo benessere. Ciò presuppone, a mio giudizio, una economia mista, con presenza equilibratrice del settore pubblico (ad esempio banche che non facciano gli speculatori finanziari, ma raccolgano depositi remunerandoli e li impieghino a favore di investimenti per la produzione e le infrastrutture), con i servizi pubblici costituenti i cosiddetti monopoli naturali gestiti dal settore pubblico, con la regolazione riequilibratrice della globalizzazione. Se quest’ultimo tema è affrontabile solo su scala europea, i primi due lo sono su scala nazionale. La rivalorizzazione dei ceti professionali ed una loro alleanza stabile con il mondo del lavoro dipendente ed autonomo costituiscono l’unica via per arrestare il declino della nostra civiltà, condannata a decadere dalle politiche liberiste, sia che le interpretino i Berlusconi, i Monti o i Bersani. A me pare che questa sia la situazione si stiano rendendo conto i più avvertiti partiti laburisti, socialdemocratici e socialisti europei, ma che ve ne siano scarse tracce nel dibattito politico in Italia. Cari saluti. Giovanni Baccalini