Un produttore d’aceto
A Parigi, al ristorante L’Assiette, 181, rue Du Chateau, si entra se lo si conosce perchè il suo aspetto esteriore, difficilmente attrae l’attenzione di un passante, turista o altro che sia.
Con la compagna che mi è anche moglie, la prima volta, ci siamo arrivati sulla scorta di una dritta di Slow Food N. 3, rivista in quel caso monografica, del Marzo 1992, dal titolo accattivante, “Una lumachina a Parigi”, in prima pagina una bella caricatura di Andrea Pedrazzini.
Per tutta la mattina eravamo andati gironzolando senza meta, per il quartiere latino, a sera, alle 20.09 partiva dalla gare de Lyon, il treno che ci avrebbe riportato a casa, avevamo il tempo per un ultimo pranzo. La Lumachina, non ci aveva ancora tradito, ma molti dei bistrot indicati, risultavano chiusi il sabato e la domenica, la scelta perciò si restrinse ed anche se era un po’ fuori mano, rispetto al luogo dove ci trovavamo, verso le tredici e trenta, provammo a telefonare a quel bistrot sconosciuto.
Un tavolo per due era disponibile, e verso le quattordici entrammo appunto a L’Assiette, il giorno era sabato 28 Marzo 1992. (Non è la memoria a sorreggermi ma il conto del ristorante che ho conservato.)
Il locale presenta, subito al di là dell’ingresso, la porta che si affaccia sulla cucina e si sviluppa tutto a sinistra, disegnando una elle.
Erano occupati solo due tavoli, uno proprio accanto all’ingresso, e l’altro accanto a quello in cui ci fecero accomodare. Questo, occupato da due uomini, seduti uno di fronte all’altro, attrasse la mia attenzione, perché entrando, fui sicuro di riconoscere uno dei commensali, ma lì per lì non sapevo dove andarlo a “pescare”. Una volta seduti, io e Laura ci concentrammo sul menù, e poi per qualche minuto sul tentativo di riconoscere quell’uomo, che lei entrando non aveva notato, e che a me dava, a quel punto, le spalle. Laura però, grazie ad uno specchio, aveva agio di osservarlo senza apparire indiscreta. Nel mio campo visivo entrava con facilità, l’altro tavolo, vicino all’ingresso, occupato anch’esso da due uomini, molto più giovani di quelli al centro della nostra attenzione. La sosta fu piacevole; l’atmosfera era tranquilla, la “môme” si affacciava in sala per intrattenere simpaticamente (noi compresi) i pochi clienti, la qualità dei piatti gustati davvero ottima, tutto concorse, come sempre in questi casi, a far scorrere velocemente il tempo, e quando verso le sedici ci alzammo per tornare in albergo, anche gli altri commensali avevano finito, ma erano ancora tutti ai loro tavoli, anche se tutti avevano già pagato il conto, e messo via diligentemente la ricevuta. I due più anziani avevano continuato a chiacchierare fra loro e quello da noi riconosciuto, per due volte si era alzato da tavola, scusandosi con il suo compagno, perché un cameriere lo aveva avvisato che era desiderato al telefono (nessun “telefonino” era alle viste), fu durante la seconda assenza, a pranzo ormai concluso, che “l’altro” pagò il conto. I due più giovani, che invece con il conto avevano fatto alla “romana”, quando uscimmo, ci rivolsero un sorriso, quasi volessero ringraziarci della nostra discrezione, che aveva facilitato il loro compito.
Io e Laura ci avviammo verso il metrò, da dove eravamo venuti un paio d’ore prima, eravamo sicuri che saremmo tornati a l’Assiette, a far visita a la “môme”, (e così è stato), ma quella fu l’unica volta che pranzammo “insieme” a Francois Mitterand.
Nel film di Robert Guediguian “Le promeneur du champ de Mars” (2004) che mi sono rivisto nel pomeriggio di Natale, “monsieur le president” si definisce con malcelata, e in questo caso innocente, vanità senile, un “borghese di provincia produttore d’aceto”, ché tali erano i suoi genitori che nella natia Charente si distinguevano dagli aristocratici che producevano cognac. (“E che non li invitavano mai”)
Il mio racconto può anche essere inteso come quello di un insignificante episodio da turista per caso, non fosse che l’Italia, è attanagliata da una proterva arroganza delle classi dirigenti (tutte), che è una arroganza esposta con sempre maggiore insofferenza a qualsiasi rilievo, critico, satirico, ironico o solo appena accennato che sia.
Il ricordo di un sondaggio che ha visto i francesi indicare in Mitterand il loro Presidente preferito, dagli stessi francesi che quando era in vita lo consideravano un “faraone”, mi ha ulteriormente immalinconito al ricordo di un “faraone” che a quanto pare pagava il conto del ristorante, senza che il gesto fosse riservato a nessun “borghese da stupire”, ma per costume consolidato, e in tutta evidenza, senza fare troppa fatica.
Chissà quando anche da noi, si affermerà una classe dirigente capace di accontentarsi del “privilegio” di essere tale, capace di non confondere sobrietà con ipocrisia e/o pauperismo, capace di affrontare i propri errori qualche volta riconoscendoli (magari in tempo reale, come si usa dire con sfoggio di moderno linguaggio) e non solo affidandoli alle proprie memorie.
Una classe dirigente che si rivelasse capace, non solo a parole, di “servire” e non solo di farsi servire, senza per altro essere mai serva di nessuno.
Vittorio Melandri
3 commenti:
Scusate se mi intrometto e se sono pessimista: in Italia questa
speranza è quanto mai vana.
Cordialità
Alice
Grazie a Vittorio per questo bellissimo racconto. Pure riallacciandomi a quanto ha scritto Giovanni, spesso è anche lo stile che fa l'uomo (e la donna ...).
Paola
Caspita, anche oggi 26.12 i pessimisti si lamentano.."Dei pessimisti non se
ne puo' piu'" (Marcuse)
Coraggio: un buon esercizio per analizzare chiaramente e SEMPLICEMENTE
BASTA CON GLI INTELLETTUALI REDUCI...
VIVE LE SITUAZIONISME? Ma dai si rilegga RIZZI ed SUgarco...oppure in
biblioteca
"Antica"...il ciabattino che capi da "quasi trozkista" come si sarebbe
evoluto "il collettivismo burocratico"...
Oltre ai pessimisti , chi c'è ?
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