sabato 6 dicembre 2008

Nencini: i socialisti del futuro presente

da le Nuove ragioni del socialismo

Il caro amico Emanuele Macaluso mi ha chiesto una riflessione attorno a quattro questioni vive e vegete. Rispondo volentieri: da libero pensatore a pensatore libero.

Tratto dalla rivista 'Le nuove ragioni del socialismo'

A partire dalla crisi dei primi anni ’90, la domanda sull’esistenza autonoma di un Partito Socialista in Italia è stata ripetuta più volte. Dal PDS nei mesi della ‘Cosa 2’ fino ai nostri giorni. Rispondo così: esistenza giustificata se rappresenta un’idea diversa della sinistra; soggetto piccolo ma autorevole non per testimonianza del passato ma in quanto garante della innovazione necessaria a governare una comunità.
A un’Italia profondamente cambiata deve corrispondere una sinistra in sintonia con il cambiamento, né prona verso la società appagata né accondiscendente verso consuetudini e tradizioni sconfitte dalla contemporaneità. Se Veltroni, dopo Di Pietro, sposa il radicalismo e si confonde con la piazza elevandola a madre di ogni iniziativa pubblica, diventa doppiamente prigioniero e fa la fortuna del Capo del Governo. Una equazione elementare, una opposizione gradita. I socialisti la scelta riformista la fecero mezzo secolo fa: Nenni, congresso di Venezia. Prima di lui Turati, i suoi seguaci ed una moltitudine di scissioni. Hic Rhodus, hic salta, Walter.
La società italiana è bloccata da una contrapposizione feroce tra conservazione e innovazione. Entrambe tagliano destra e sinistra, allignano nel sindacato e nelle associazioni di categoria, si riproducono nei centri di potere disseminati nel Paese. Molti continuano ad attribuire il valore dell’innovazione alla sinistra in quanto forza di progresso dimenticando che era così quando si trattava di riconoscere a fasce sempre più ampie di lavoratori nuovi diritti di cittadinanza. Era il tempo della società industriale, dell’appartenenza al mondo della produzione, di una società incentrata su fabbrica e casa. Una società dalle categorie certe ed immutabili. Da anni non è più così ma questa visione non è morta ed anzi si insinua in azioni e programmi.
Il pensiero neoconservatore italiano ruota attorno al motto tremontiano ‘Dio, Patria, Famiglia’. Un motto vandeano rispolverato nei primi anni Quaranta del secolo scorso in un opuscolo destinato agli ufficiali dell’esercito regio.
I principi cui dovrebbe ispirarsi la sinistra riformista sono altri. Ne indico tre, attorno ai quali non dovrebbe essere impossibile riconoscersi: ‘Merito, Inclusione, Responsabilità’. Aggiungo il termine ‘Libertà’, da strappare quanto prima alle mani della destra. Diversi e divergenti, dunque, da quelli propri del neotremontismo. Nella realtà, raramente vengono assunti. Esempi. La leader in pectore della CGIL Susanna Camusso ha dichiarato di recente che il sindacato è in ritardo nel dare una risposta alle migliaia di giovani precari. Una ammissione sincera e al contempo preoccupante. Chi, se non il sindacato (ed i partiti di sinistra aggiungo io), dovrebbe assumere la difesa di 4.500.000 di persone che operano in assenza delle più elementari tutele previste nel mondo del lavoro?
La piazza dell’antipolitica è diventata un luogo praticato da Di Pietro e da larghi settori del P.D. oltre che dalla sinistra radicale. La decisione di delegittimare la ‘repubblica parlamentare’ fondata dai Costituenti è stata condivisa de facto da PDL e PD: deputati e senatori nominati dai vertici dei partiti, presidenzialismo strisciante, corrosione degli equilibri costituzionali. Anche la vicenda della Commissione di Vigilanza Rai ha lasciato uno strascico di dubbi: vengono prima gli accordi tra i partiti o l’autonomia e il corretto funzionamento delle istituzioni, nel caso di una istituzione di controllo? In ultimo i tentennamenti sulla adesione alla famiglia del socialismo europeo oppure ad altri gruppi parlamentari, incertezza figlia di nodi mai sciolti con la fondazione del PD. L’imperfetta composizione dei fattori costitutivi di quel partito ha infine originato un altro vizio, quello legato alla difesa dei diritti che i giuristi definiscono di ‘terza generazione’ e che la sinistra difende ovunque: unioni civili, fecondazione artificiale, divorzio breve, piena libertà di ricerca. Non è un caso se nemmeno i due Governi Prodi hanno battuto un colpo ‘laico’ su una frontiera decisiva che rende l’Italia diversa – ma non migliore – rispetto ai Paesi dell’occidente europeo.
Il riformismo, in Italia, ha vinto raramente e per periodi brevi. Con i primi governi di centro-sinistra (anni ’60), nel quinquennio 1980/85 – da Spadolini al primo esecutivo Craxi -, con il primo governo Prodi, quello dell’Euro. Ha vinto quando si è distinto nettamente da una sinistra massimalista e agitatoria dando una lettura innovativa della società italiana. Diversamente è destinato a soccombere. Quello che è successo in aprile, quello che sta succedendo oggi.
Il Partito Socialista, seppur piccolo, ha questa funzione: essere deviante nelle idee rispetto alla sinistra tradizionale, essere corsaro nelle iniziative. Perlomeno fino a quando nessun altro partito della sinistra soddisferà queste esigenze, ci sarà più di una ragione per tenerlo in vita.
Elezioni amministrative alle porte e comune appartenenza al centro sinistra obbligano PD e PS al confronto. ‘ La politica non si fa con i rancori ‘ – ammonì Nenni ed aveva ragione. Le relazioni tra i due partiti possono svilupparsi su tre piani: elezioni locali, collocazione europea, progetti per cambiare la sinistra italiana. E dopochè Veltroni ha fatto, come ha fatto, esame di coscienza sugli errori commessi nella preparazione della campagna elettorale 2008.
Un asse riformista nelle province e nei comuni che vanno al voto in primavera è la strada maestra. Ciascuno con la propria identità, ciascuno con i propri simboli, in una autonomia riconosciuta e valorizzata come tale. Programmi brevi, comprensibili, sui quali ci si impegna di fronte ai cittadini, ed una lettura non consuetudinaria della evoluzione delle città, dei bisogni di chi vi abita.
Temo, invece, che non avranno facile soluzione le altre due questioni. Fassino e D’Alema siedono rispettivamente nel PSE e nell’Internazionale Socialista come rappresentanti di un partito che non c’è più, i DS. Un paradosso! Può durare? L’appartenenza ad una famiglia politica europea è oggi più di ieri necessaria. Anche AN ne ha compresa l’importanza e si appresta ad entrare nel PPE. Gli Stati hanno conferito da tempo pezzi della loro sovranità alle istituzioni comunitarie, una delega piena dai contorni ancor più massicci con la crisi finanziaria ed economica in corso. Misure che verranno assunte in quella sede, o addirittura in sedi superiori, e che obbligano ciascuno di noi a scelte precise, definite. I socialisti italiani hanno firmato il ‘Manifesto Europeo’ del PSE e la lista socialista alle Europee avrà eletti che entreranno in quel gruppo. Le oscillazioni del PD sono destinate a non essere sciolte con fermezza e il tentativo di Veltroni di accreditare un partito con due teste non troverà facilmente diritto di cittadinanza alle orecchie di Schultz e di Rasmussen. Se dunque esiste il tema dell’allargamento degli organismi internazionali socialisti a partiti riformatori e democratici, il tema va sviluppato stando all’interno di quegli organismi.
Resta l’ultimo problema, il più rilevante: quale cornice riformista e innovatrice dare alla sinistra italiana. Problema spinosissimo, riassumibile ancora oggi con la parabola dell’asino di Buridano. Noi prediligiamo invece la ferrea razionalità di Tommaso d’Aquino. O la sinistra italiana si immerge nella società di questo tempo, si bagna nelle sue contraddizioni abbandonando schemi arcaici per interpretarla, oppure, affidandosi alla sola logica delle alleanze, non riuscirà a prevalere. La prima cosa da fare, il primo impegno condiviso da assumere è dunque una ‘nuova Rimini’: forze riformiste che si incontrano per tracciare un profilo di questa Italia, che si impegnano sul fronte dell’individualismo solidale, che coinvolgano eletti e non eletti in un manifesto che segni la rottura con gli equivoci ed i condizionamenti che hanno portato la sinistra ad una sconfitta senza precedenti.
La Via Crucis della sinistra radicale non si è ancora conclusa. Con Dante potremmo dire: ‘Non era camminata di palagio ma natural burella…’. Non conosco, mentre scrivo, quale sarà l’evoluzione dei rapporti tra Vendola e Ferrero e cosa deciderà Sinistra Democratica. Escludo liste comuni e apparentamenti con chi pensa di richiamare in vita la storia comunista per infiggerla nel futuro. Se una parte dell’Arcobaleno bussa alla porta del PSE, ci troverà attenti. L’isolamento non è mai stato una politica.
L’eredità del socialismo riformista non è quella rappresentata da Cicchitto e da alti dirigenti di Forza Italia. Giudico grottesco e temerario il recente tentativo di inserire Filippo Turati nell’albero genealogico del centro-destra. Salvo Tremonti pensi di convertirsi al marxismo. L’opposizione convinta al massimalismo parolaio ed al rivoluzionarismo comunista non bastano a fare di Turati e dei riformisti italiani del tempo i padri spirituali di La Russa e di Ciarrapico, di Rotondi oppure del Presidente del Senato Schifani. Né loro vorrebbero Turati come padre. Forse prediligerebbero Bombacci. La cultura della destra italiana è agli antipodi della storia socialista. Il socialismo riformista si batte per i diritti civili e non bacia l’anello del pontefice, non è liberista ma per un’economia di mercato vigilata da regole certe, modifica lo stato sociale per proteggere i nuovi bisognosi ma non privatizza i servizi primari, esige sicurezza per i cittadini ma condanna razzismo e xenofobia. Su un punto concordo con taluni vecchi socialisti – vecchi nel significato di compagni di una antica stagione che poi hanno fatto scelte diverse. La destra ha colto prima di certa sinistra i cambiamenti sociali che hanno scosso l’Italia ed ha provato ad interpretarli affidandosi all’antipolitica, ad un decisionismo forte, a massicce dosi di populismo rese possibili dalla paura e dalle ansie serpeggianti e ad alcuni provvedimenti condivisibili. E qui arriviamo al punto: ad alcuni ministri di questo Governo che si definiscono ‘socialisti’.
Non appartiene alla cultura socialista, di nessun tempo e di nessun luogo, nascondersi dietro il qualunquismo, ferire la Carta Costituzionale ripetutamente, respingere dialogo e confronto, usare un linguaggio sbrigativo. Anche sul piano delle alleanze si potrebbero esternare fondate obiezioni. Al ministro Brunetta, imperterrito nel chiamarsi ‘un socialista’, ho chiesto due volte un confronto pubblico sulle misure assunte dal governo in carica, non un duello alla Felice Cavallotti ma un civilissimo scambio di battute su chi dei due potesse fregiarsi di quel titolo. Respinto al mittente. Non trovare in certa sinistra conservatrice motivi di affinità non significa infatti sposare tout court le ragioni dello schieramento contrapposto. Cosa avrebbero dovuto fare Mitterand e Delors dopo la crisi della SFIO? Affidarsi alle cure di Pompidou e della destra francese? Identità inconciliabili. Neppure Berlusconi si avventura nell’impossibile cammino – e lui ne avrebbe la fantasia! – di costruire un Pantheon allargato. Ha fatto ministri ex socialisti, ex democristiani, ex liberali, ex repubblicani, perfino ex comunisti. Tutti, però, inseriti dentro il suo disegno, nel quale i singoli ex possono trovare spazio ma non trova diritto di cittadinanza un’idea, una storia, una radice culturale che ha trasformato l’Italia e l’Europa nel secolo passato. Presumo che chi ha fatto questa scelta, parlo dei socialisti di un tempo, l’abbia fatta stabilmente e si senta obbligato a giustificarla quasi ogni giorno, come dovesse spogliarsi del peccato originale. Il mastice iniziale, quello di quindici anni fa e per loro stessa ammissione, era l’anticomunismo. E oggi, qual’ è la colla?

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