dall'Opinione del 1 dicembre 2008
Immigrazione, riformare la cittadinanza
di Alessandro Litta Modignani
A proposito di immigrazione, indovinate chi ha detto: “Occorre una politica dell’integrazione ma nel rispetto delle identità, quindi ponendosi anche l’obiettivo di rispettare l’identità altrui”? Oppure: “Sappiamo molto di quello che pensano e temono gli italiani dell’immigrazione, ma sappiamo ancora troppo poco di cosa pensano gli “altri”, cioè gli immigrati, della loro integrazione possibile”? No, non è il “buonista” Veltroni: sarebbe troppo facile. Non è neppure monsignor Fisichella, né monsignor Betori, né alcun altro prelato o esponente del “pietoso” mondo cattolico. Lo ha detto invece uno dei più fidati colonnelli di Gianfranco Fini, Adolfo Urso, attuale responsabile del commercio internazionale, nell’ambito di un convegno organizzato qualche tempo fa dalla Fondazione Farefuturo in collaborazione con l’Istituto Piepoli.
“La cultura politica della Destra punta a una politica sostenibile dell’integrazione possibile”, ha spiegato Urso, indicando alcune ricette altrettanto sorprendenti: favorire i ricongiungimenti familiari di mogli e figli; promuovere l’istruzione, la formazione professionale e la partecipazione; procurare in particolare il lavoro alle donne immigrate, che sono “l’avanguardia del processo di integrazione”; e altro ancora. Così parlò Urso. Questo è il nuovo linguaggio di quella “destra di governo” che costituisce da sempre l’obiettivo strategico di Alleanza nazionale e del suo serafico leader.
Molta acqua dunque è passata sotto i ponti da quel lontano 2002, quando Fini co-firmava con Umberto Bossi la discussa legge sull’immigrazione tuttora in vigore. Del resto già quella legge, a ricordare bene, non aveva risparmiato sorprese: nata con l’intento di cancellare la Turco-Napolitano e di “fare la faccia feroce” con i clandestini, aveva prodotto da subito la più grande sanatoria della storia d’Italia, una delle maggiori mai viste nell’occidente industrializzato. Mica male, come eterogenesi dei... Fini. Perché chi è chiamato a governare, comunque si chiami, si trova innanzitutto a dover fare i conti con la realtà, che è più dura di ogni ideologia, di qualsiasi demagogia e di qualunque proclama.
In quella occasione Giampaolo Landi di Chiavenna (oggi assessore a Milano, all’epoca parlamentare di An) presentò un emendamento che proponeva di mantenere in vita l’istituto dello “sponsor”, uno degli strumenti più intelligenti ed efficaci che Napolitano aveva saputo escogitare, per governare il fenomeno immigratorio. Landi fu indotto a più miti consigli, l’emendamento venne ritirato, ma le parole di Urso di oggi dimostrano come egli avesse visto giusto.
Anche l’attuale meccanismo del rinnovo annuale dei permessi di soggiorno, ha mostrato tutti i suoi limiti: si sono costrette migliaia di persone a estenuanti code e lunghe notti al gelo davanti agli uffici postali, con l’unico risultato di vedersi costretti a “sanare”, di fatto e a posteriori, un numero di richiedenti di gran lunga superiore al previsto. Ne valeva la pena ? Le politiche non si misurano in base alle loro finalità (solitamente descritte con parole altisonanti nel primo articolo di ogni legge) bensì dalla loro efficacia.
Arrivati a questo punto, ciò che si rende davvero improcrastinabile, in materia di immigrazione, è una riforma liberale dell’accesso alla cittadinanza, che imponga diritti e doveri uguali per tutti, compreso il diritto di voto. La cittadinanza italiana non può più rappresentare una concessione avara e arbitraria. Al contrario, solo creando e coltivando una cultura della responsabilità condivisa, si può sperare di rafforzare la consapevolezza di un’autentica identità nazionale. Se anche Fini e i suoi l’hanno capito, significa che siamo sulla buona strada.
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