domenica 11 giugno 2017

Franco Astengo: Populismo, elites, potere

POPULISMO, ELITE, POTERE di Franco Astengo Dall’8 al 10 giugno si è tenuto, presso la Fondazione Cini a Venezia, un convegno organizzato dall’associazione internazionale “ResetDOC” sul tema “The populist upsurge and the decline of diversity capital”: un’occasione, come rendiconta Roberto Toscano sulle colonne di “Repubblica” per “affrontare il tema del populismo nel corso di un serrato dibattito interdisciplinare condotto su di una serie di registri, dalla teoria politica, alla filosofia, dalla sociologia, alla storia”. L’osservazione cruciale formulata nel corso del convegno è stata contenuta, almeno a, mio giudizio, nella: “ messa in evidenza del pericolo che la protesta populista venga strumentalizzata per operazioni politiche in cui il potere non passa dalle deprecate élite al popolo, ma piuttosto a diverse élite e, con effetti letali per la democrazia, ai leader autoritari che sono uno dei caratteri distintivi di tutti i movimenti populisti”. Sono citati: Trump, Orban, Erdogan, Modi. Stranamente è omesso il “caso italiano” nel quale l’attuale lotta per il potere è circoscritta a una contesa all’interno del quale il dato populismo/leadership autoritaria appare come tratto comune dei tre principali contendenti (ci sarebbe da riflettere anche sul caso francese, apparentemente estraneo a questo tipo di casistica, ma soltanto apparentemente). Fin qui sembra tutto, all’occhio di un osservatore attento, molto banale così come appare banale l’individuazione dell’accresciuta debolezza di liberalismo e socialdemocrazia: constatazione di debolezza suffragata da una vera e propria scoperta dell’acqua calda da parte di Giuliano Amato che ha parlato di “fallimento politico di dimensioni storiche” (come se lui soggettivamente in questi anni avesse soggiornato felicemente su Marte). Alla fine si rimanda a una ricerca di “risposte politiche credibili ed efficaci” alle “attuali fortune del populismo”. A questo punto vale la pena sviluppare alcune considerazioni di merito partendo, almeno a mio modesto avviso, da un dato di sorpresa: come mai in un consesso di tale qualità non si è analizzata a fondo la questione del potere nella società moderna e non ci si è posti la domanda di fondo, limitandoci all’affermazione riguardante il trasferimento del potere da un’ élite all’altra. La domanda è di grande attualità: come si determinano i meccanismi di accesso all’effettiva gestione del potere politico in tempi di società complessa, dove appaiono evidenti i limiti dei “corpi intermedi” e delle stesse formazioni di governo? Come può essere possibile non confondere potere e governo, tanto più che il governo appare ormai esprimersi attraverso la formula a “bassa intensità” dell’obbligo alla governabilità quale fine esaustivo dell’agire politico? Per rispondere efficacemente è necessario ricostruire subito il quadro generale dentro cui ci troviamo: da una parte è cresciuto grandemente il fenomeno della “personalizzazione” della politica ormai giunto a sfiorare livelli preoccupanti in un rapporto tra il “capo” e le “masse” veicolato soltanto dal mezzo televisivo o dal web, attraverso cui si realizza un inquietante e per certi versi paradossale “dialogo” diretto tra il “politico” e la folla; contestualmente, e ci verrebbe da aggiungere quasi naturalmente, sono cambiati profondamente i partiti politici, ormai svuotati dalla partecipazione di iscritti e militanti ridotti al rango di “fruitori di eventi” (nel caso le cosiddette “primarie”). Partiti politici trasformatisi in alcuni casi in “partiti personali elettorali” (torna qui in ballo il caso francese ignorato nel convegno, soltanto perché il populismo di Macron porta avanti parole d’ordine “europeiste”) e in altri in una forma particolare del “partito acchiappatutti”: un modello questo che nella realtà del caso italiano appare molto più informe nella sua struttura e molto più caotico nella sua organizzazione di quanto non fosse stato immaginato nel momento della sua teorizzazione, quale punto possibile di superamento del “partito di massa”. Sarà bene intenderci subito su di un’affermazione essenziale: la democrazia non è possibile senza partiti politici, perché il “pluralismo si esprime anche in organizzazioni stabili, durature, diffuse, che si chiamano – appunto – partiti” (Kelsen 1929, trad.it. 1966.) I partiti svolgono funzioni non assolvibili da nessun’altra organizzazione e non soltanto dal punto di vista della promozione elettorale, ma anche nei compiti oggi largamente disattesi se non del tutto ignorati della partecipazione alla vita pubblica, della formulazione di programmi, ai compiti di acculturazione di massa e di vera e propria integrazione sociale (negli ultimi due punti, acculturazione di massa e integrazione sociale risiedono le chiavi di volta per affrontare i grandi nodi della post – modernità: dalle contraddizioni emergenti dalla biopolitica, all’etica della vita, alla diversità di genere fino al tema dirimente delle migrazioni e del conseguente conflitto derivante dall’affermazione dell’estremismo religioso e – di stretta conseguenza – del terrorismo). Partiti che vivono ormai soltanto attorno a due fattori determinanti: il potere di spesa e quello di nomina. Il punto da rimettere in discussione fino in fondo, allora, è quello riguardante il “come” si formano i gruppi dirigenti, come avviene la selezione del personale politico, come si costruiscono quelle élite chiamate al compito di dirigere la vita pubblica. In questo senso è necessario non cadere in un errore: scambiare la capacità di direzione politica da parte dell’élite con il “governo dei filosofi” basato esclusivamente sulla superiorità di una scienza predeterminata considerando così la posizione soggettivamente elitaria attribuita al singolo come insuperabile e inamovibile. L’elemento fondante di un possibile aggiornamento della “teoria delle élite” lo indica già lo stesso Vilfredo Pareto, allorquando individua nell’eterogeneità sociale il costruirsi di una dicotomia ”stabile” tra una classe superiore e una classe inferiore e indica l’unica possibilità per ritrovare i migliori nelle posizioni di vertice nel continuo ricambio delle élite e al passaggio d’individui da una classe all’altra (Sola, 2000). Tocca però ad Antonio Gramsci costruire sul piano teorico la nozione di élite, partendo dall’insoddisfazione per la definizione coniata da Gaetano Mosca di “classe politica”. Al pensatore sardo (“Quaderni del carcere” volume III, edizione Einaudi 1975) la definizione “classe politica” appare “elastica e ondeggiante”, dal momento che “talvolta essa sembra sinonimo di classe media, altre volte è impiegata per indicare l’insieme delle classi possidenti, altre volte ancora fa riferimento alla “parte colta” della società o, più restrittivamente, al “personale politico” inteso come ceto parlamentare dello Stato. Per ovviare a questi inconvenienti e per ancorare la teoria delle élite alla metodologia marxiana e alla teoria delle classi, Gramsci, che pure utilizza in diverse occasioni il termine élite, propone di distinguere tra classe dirigente e classe dominante. Il criterio che egli adotta è direttamente riferito al lessico marxista, ma tiene conto anche delle riflessioni di Pareto in tema di “forza” e di “consenso”. Premesso quindi che la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come “dominio” e come “direzione intellettuale e morale” Gramsci propone di chiamare classe dirigente quel gruppo che s’impone attraverso il consenso, ovvero esercita l’egemonia sugli altri gruppi sociali. Viceversa è classe dominante quel gruppo che s’impone esclusivamente con la forza, con cui tende a liquidare o a sottomettere i propri avversari. Una classe può essere dominante e non dirigente oppure dirigente e non dominante. Per Gramsci una classe politica può essere veramente tale se riesce a stabilire un corretto equilibrio nell’esercizio dell’egemonia. Il tema della costruzione delle élite è quindi strettamente connesso al tema dell’egemonia come conferma anche lo stesso teorico del “governo” Robert Dahl (1958) allorquando indica che: l’élite deve costituire un gruppo ben definito; le opinioni di questa élite debbono essere in contrasto con quelle di ogni altro possibile gruppo analogo; in tali casi, implicanti questioni politiche fondamentali le scelte dell’élite prevalgono regolarmente. E’ proprio l’ultima affermazione che ci riporta all’attualità perché è proprio l’assenza di capacità nell’individuare le questioni politiche fondamentali che impedisce la formazione stessa delle élite (mancando il presupposto indispensabile del “gruppo”) e di conseguenza la possibilità di far prevalere una tesi sull’altra proprio per l’assenza di definizione precisa dei termini di alternatività tra le tesi stesse. Gli assunti di paradigma sui quali può poggiare il rinnovamento di una ricerca attorno alla costruzione di un’élite possono essere così definiti: la politica è lotta per la preminenza e il potere va concepito come “sostanza” e non come “relazione”; è necessario avere ben presente la distinzione tra potere reale e potere apparente; la lotta per il potere e l’attività politica in generale è fatto “minoritario” nella società; la conquista, il mantenimento, la gestione del potere corrispondono alla capacità di coordinazione dei gruppi politici; la società è una realtà irrimediabilmente eterogenea, gerarchica, e conflittuale; ci si deve soffermare sul ruolo che le idee, i miti e le dottrine assumono nel processo di legittimazione dell’autorità (a proposito, per esempio, della mistificante dottrina della “fine delle ideologie” propagandata fin dagli anni’80 dai gruppi conservatori statunitensi e britannici). In definitiva, il tratto essenziale della struttura di ogni società consiste nell’organizzazione dei rapporti che intercorrono tra governanti e governati, tra minoranza organizzata e maggioranza disorganizzata e nelle relazioni che si stabiliscono tra i diversi gruppi che detengono ed esercitano il potere: con buona pace di chi pensa come realistiche proposizioni quali quelle della “democrazia diretta” e della “democrazia del pubblico”. Sono questi gli elementi che debbono essere sottoposti alla riflessione politica nell’attualità del disfacimento del sistema cui stiamo assistendo: una riflessione da portare avanti attraverso un lavoro di studio che punti, proprio per citare nuovamente Gramsci, alla riunificazione tra teoria e prassi con un’ipotesi complessiva di trasformazione sociale collegata a un’élite ricostruita nell’interezza della sua identità di gruppo. Naturalmente molte questioni sono state sottintese nell’elaborare questo intervento: l’analisi delle diverse specie di élite presenti in una stessa società, il tema delle relazioni tra le élite stesse e le masse, l’approfondimento circa i meccanismi di legittimazione che debbono essere attuati nell’acquisizione, nell’esercizio, nella detenzione e nel rovesciamento del potere. Si tratta di punti essenziali da sottoporre, prima di tutto, a un non facile lavoro di vera e propria “ricostruzione intellettuale”, quello al quale pensiamo ci si debba dedicare con grande impegno in questa fase, senza dimenticare però l’attualità drammatica dei fenomeni di vero e proprio arretramento di massa in corso sul terreno delle condizioni di vita, nel venir meno della disponibilità di diritti individuali e collettivi e dei termini di esercizio della democrazia, sia pure nell’ambito limitato della stessa “democrazia costituzionale”.

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