mercoledì 16 gennaio 2013

Renzo Penna: L'incubo del debito pubblico

di Renzo Penna C’è un tema che, nell’attuale fase di crisi economica e sociale, viene - con un consenso che non trova obiezioni - posto al di sopra di tutti gli altri, condiziona ed inibisce le iniziative dei governi e rende afone le proposte dei partiti e della politica. Si tratta, naturalmente, del “debito pubblico”, una sorta di mantra che viene fatto vivere come una colpa collettiva da espiare, un incubo nel quale viviamo tutti immersi e dal quale dobbiamo uscire anche a costo di gravi “sacrifici”. Anche se l’esempio della Grecia non fa presagire nulla di positivo e non pare essere stato neppure risolutivo. Un obbligo, quello di ridurre il debito e “tagliare” le spese, che - ci viene detto - è imposto dall’Europa attraverso il Consiglio, la Commissione e la Bce, e che il nostro Parlamento - su proposta del governo Monti - ha ratificato mesi fa. In particolare l’articolo 4 del “Trattato sulla stabilità” prevede che: “Quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore del 60% ... tale parte opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno”. Siccome il nostro Pil supera i 1650 miliardi e il 60 per cento ne vale circa 1000, se ne deduce che, avendo il nostro debito superato i 2000 miliardi, per farlo scendere si dovrebbe ridurre il medesimo di 50 miliardi l’anno per circa venti anni. Con risorse che, naturalmente, devono essere trovate in aggiunta a quelle necessarie per le normale attività del Paese, le quali dovrebbero essere almeno pari alla rata del debito. Si tratta, con tutta evidenza, dell’argomento più importante nella campagna elettorale che si è aperta e che inevitabilmente condizionerà il futuro governo. Ma che non sembra, al momento, essere vissuto come tale dalle diverse coalizioni che si contendono il primato. Mentre sarebbe utile conoscere, ad esempio, come le forze politiche e i candidati valutano in proposito l’opinione di Luciano Gallino che considera improponibile l’operazione - a meno di ritenere possibile “immiserire tre quarti della popolazione” e decretare la definitiva “discesa della nostra economia in serie D” - per la ragione che il debito deriva sin dagli anni ’60: “non da un eccesso di spesa, bensì dall’accumulazione di interessi troppo alti”. Per effetto del tasso medio del 4 per cento, l’interesse sul debito comporta, infatti, una spesa di 80 miliardi l’anno, la quale si somma al debito pregresso che non smette di crescere. E la riduzione del debito di 50 miliardi - una cifra comunque paurosa e impossibile da reperire - di miliardi ne fa risparmiare solo un paio. Se, come a me pare, le considerazioni del professore di Torino sono tutt’altro che banali, bisognerebbe che almeno le forze progressiste e, in particolare, la coalizione guidata dal Segretario del Pd - oggi il candidato più accreditato nei sondaggi - prendessero finalmente atto che le ricette sin qui prospettate dalle teorie neoliberiste, non solo non sono risolutive della crisi, ma peggiorano le condizioni dell’economia e aggravano quelle di gran parte della popolazione. L’idea che i mercati siano sempre virtuosi e capaci di “autoregolarsi”, mentre lo Stato ha il “vizio” del debito e, come conseguenza, occorra “affamare la bestia” (cioè lo Stato e quasi tutti noi), tagliando le spese per sanità, scuola, cultura, servizi sociali, previdenza e pensioni, è profondamente sbagliata. In una fase di generale recessione, l’inasprimento fiscale su lavoratori e imprese, le politiche di austerity e i tagli operati sulle risorse pubbliche - portate avanti dal governo Monti, in questo in continuità con quello di Berlusconi - hanno ulteriormente aggravato la condizione dell’economia reale, pesantemente accresciuto la disoccupazione e stanno riducendo il potere d’acquisto e le condizioni reddituali della maggioranza dei cittadini. Accentuando le distanze tra il 10% degli italiani che possiede la metà della ricchezza nazionale, mentre il restante 90% si divide quel che resta. Al contrario negli Stati Uniti Barack Obama - nei termini di una crescita del Pil di quasi il 3% e di una disoccupazione calata al 7,8% - raccoglie all’inizio del 2013 i primi frutti delle misure anticicliche e anti recessive varate nel gennaio del 2009, attraverso un poderoso piano di investimenti pubblici di poco inferiore agli 800 miliardi di dollari. Nello stesso periodo i buchi di bilancio di banche, istituti di credito e finanziarie, causati da investimenti speculativi e gravi errori che il mercato non ha saputo auto-correggere, vengono ripianati dallo Stato, cioè da tutti noi, o almeno da quelli che pagano regolarmente e correttamente le tasse. Come ha recentemente rivelato il governatore della Banca d’Italia: “tra il 2008 e il 2010 sono stati erogati aiuti di Stato alle banche europee sotto forma di ricapitalizzazione e copertura di perdite per 409 miliardi di euro.” Mentre secondo la Banca d’Inghilterra: “non meno di 14000 mila miliardi di dollari di fondi pubblici hanno preso la strada di banche e imprese finanziarie in Europa e Usa tra il 2008 e i primi mesi del 2009.” Insomma l’economia neoliberista, così attenta ad accumulare ogni centesimo di profitto quando le cose vanno bene, diventa rapidamente neo-keynesiana e invoca l’intervento dello Stato quando deve ripianare le perdite e lo fa alle spese del benessere dei cittadini. Ma, tornando al debito pubblico, a rendere più difficile il superamento e la fuoriuscita dalla crisi in Europa - almeno rispetto agli USA e al Giappone - sono, insieme ad un cambio troppo forte dell’Euro e alla conferma dell’impegno della Germania per il pareggio strutturale del bilancio pubblico nel 2014 che rischia di limitarne le possibilità di sviluppo, un ruolo della Banca centrale europea sempre più difficile da accettare, in particolare, dalle attività economiche e dalle industrie del continente. Una Bce che, come è successo nel 2012, presta migliaia di miliardi alle banche all’1 per cento, ma non può fare altrettanto con gli stati che sono costretti a pagare interessi tripli o quadrupli alle medesime, rappresenta una evidente contraddizione che non può che essere affrontata dai governi a livello di Unione Europea. Anche per questo è fondamentale che la coalizione guidata da Bersani e sostenuta da Vendola sia messa dagli elettori nelle condizioni di vincere le elezioni con una maggioranza chiara e autosufficiente, tale da non essere costretta ai condizionamenti del cosiddetto “centro montiano” la cui “agenda” è del tutto coerente con le teorie economiche liberiste della destra europea. Le stesse che sono all’origine della crisi. E ponendo il nuovo governo italiano nelle condizioni politiche di rafforzare in Europa le ragioni dei governi progressisti con l’obiettivo di cambiare, ad esempio, quella parte del Trattato Ue che vieta alla Bce di prestare denaro direttamente agli stati, superando le resistenze della Bundesbank e la sua ossessione anti inflazionista. Una misura che potrebbe aiutare il nostro e gli altri governi anche nella graduale riduzione del debito pubblico, senza dover ricorrere a misure, inutilmente dolorose e per giunta inefficaci, di tagli allo stato sociale. Alessandria 16 gennaio 2013

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