sabato 27 ottobre 2012

Franco Astengo: La crisi di un modello: il partito personale

LA CRISI DI UN MODELLO: IL PARTITO PERSONALE L’uscita dalla scena politica, certificata anche dai giudici di Milano, di Silvio Berlusconi porta con sé, rispetto alla complessa realtà del sistema politico italiano, alcune novità del tutto fondamentali: prima fra tutte l’evidente necessità di quello che l’editoriale del “Corriere della Sera” di venerdì 27 Ottobre definiva “rimescolamento delle carte” (in termine tecnico “riallineamento sistemico”) e, inoltre, la crisi del modello del “partito personale” imposto proprio da Berlusconi nel 1994 e risultato dominante fino ad oggi. Il “partito personale” può essere catalogato come frutto di un processo di evoluzione del “partito pigliatutti”, individuato da Kircheimer fin dagli anni'60 quale variante di natura prettamente elettoralistica della categoria dei partiti a “integrazione di massa”: si tratta di una categoria che, all'interno di un sistema politico particolarmente complesso come quello italiano, assume un significato particolare perché si tratta di un modello che nella situazione italiana è stato introdotto in connubio con l'altro modello del “partito-azienda”, per esaltare in maniera esasperata la personalizzazione della politica intesa come funzionale all'uso dei mezzi di comunicazione di massa (in particolare della televisione) in luogo dei meccanismi tradizionali di partecipazione, con gli effetti sul linguaggio, la qualità dell'agire politico, il rapporto tra politica e società, l'uso delle istituzioni che abbiamo tutti davanti agli occhi (altri modelli di “partito personale” all'epoca furono, con diversa fortuna, la Lega Nord che è rimasta ancorata comunque a quello schema fino alla caduta del padre fondatore e adesso molto incerta sulle prospettive da questo punto di vista e il Patto Segni, invece rapidamente esauritosi). L'utilizzo di Internet come mezzo di velocizzazione del messaggio ha poi completato il quadro di una radicale trasformazione del soggetto collettivo e dell'agire individuale in politica (come in tanti altri campi, compresa l'economia). La premessa, quindi, è quella che il modello del “partito personale” è un modello che non appartiene alla tradizione della sinistra. Difatti a onor del vero il filone PDS-DS-PD da un lato e quello PPI-Margherita-PD dall’altro non l’hanno adottato, finendo con l’attrezzarsi (si fa per dire) attraverso una forma di confuso “pigliatutti” e ideando uno schema di “primarie all’italiana” che, fuori dallo specchietto delle allodole della partecipazione democratica (come ha fatto ben rilevare Nadia Urbinati) rende molto complessa la vita interno del partito “ibrido” o della “amalgama mal riuscita” come lo definì a suo tempo Massimo D’Alema. Altri, invece, a sinistra come a destra (o anche all’interno dello stesso PD utilizzando proprio lo schema delle primarie) hanno adottato il modello che, in questo frangente, mi permetto di definire, pur con un termine giornalistico e non politologico, “berlusconiano”. Quel modello che, costatata l’impossibilità di ridurre lo schema di riferimento del sistema politico italiano non tanto al bipartitismo (il sogno della messa nel cassetto della “vocazione maggioritaria”) ma almeno al bipolarismo, sarà superato nei fatti obsolescendo rapidamente, com’è nella logica dell’era della velocità dei messaggi e delle comunicazioni di massa: se ne sta accorgendo anche lo stesso leader del Movimento 5 Stelle (o perlomeno i suoi guru) che potrà ancora sfruttare l’onda della cosiddetta ”antipolitica” almeno fino alle elezioni legislative generali del 2013, ma poi dovrà affrontare anch’esso il difficile tema che sto proponendo in questo caso. Il rischio, vero, è quello di cadere dalla padella nella brace: dal partito personale a un ritorno, in pieno, all’ottocentesco (se non settecentesco) “partito dei notabili”, favorito dalla profondità con la quale la segmentazione individualistica ha inciso sulla struttura delle forze politiche ed anche dalle stesse condizioni sociali ed economiche che paiono ristabilire, in tanti campi, il sistema del “censo” che era appunto quello attraverso il quale, all’epoca si selezionava tra pochi eletti la classe politica: i sistemi di finanziamento, le possibilità di accesso ai “media”, le leggi elettorali (punti che, per evidente economia del discorso non affronto in questa sede) costituiscono tutti elementi sui quale appare già, fin da esso, poggiare un’idea di ulteriore restringimento nel rapporto tra politica e società (il metodo luhmanniano adottato in pieno). Come può la sinistra d’alternativa, tuttora priva in Italia di un’adeguata rappresentanza politica, rispondere a questo stato di cose, assai preoccupante e negativo? Muovendosi controcorrente, decisamente controcorrente, lavorando sull’idea del “partito a integrazione di massa”: il modello sulla base del quale si mossero i grandi partiti del ‘900 e sul quale poggiano, ancora, pur con tutti gli opportuni correttivi dettati dal modificarsi dei meccanismi di relazione sociale in particolare sul piano dei mezzi di comunicazione di massa, il PSF e l’SPD (ma anche la Linke) tedesca: si badi bene, non è un problema di numeri, elettorali e /o di iscritti, ma una questione teorica, di modello che può essere adottato proprio in funzione di far crescere anche sul terreno quantitativo una soggettività di sinistra che, pure, deve rintracciare sul piano qualitativo, di una “diversità” di fondo nella dimostrazione quotidiana del proprio agire politico, la ragione per proporsi rappresentativa di vaste masse popolari. D’altro canto, per identificare la realtà di un partito di massa, basterà muoversi sul piano dell’antica contraddizione capitale/lavoro, quella contrapposizione di classe, per dirla in modo diretto, che mai come in questo momento, ben al di là dell’innegabile complessità sociale, appare evidente in ogni atto dell’insieme delle relazioni sociali in questa parte del mondo. Savona, li 27 ottobre 2012 Franco Astengo

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