martedì 14 agosto 2012

Lorenzo Borla: Riflessioni economiche

Riflessioni sul debito

Vengono prima le idee o i numeri dell’economia? Se lo chiedessimo a qualcuno della sinistra pura e dura, non avrebbe esitazioni a rispondere che prima vengono le idee, i numeri seguiranno. Se poi gli chiedessimo come risolvere i nostri correnti problemi economici, non avrebbe dubbi: deve intervenire lo Stato! Questo è quanto ci siamo sentiti ripetere per almeno un quindicennio da un geometra di Novara, forte di letture marxiste, in un gran numero di salotti televisivi. Non a caso l’arco delle sue apparizioni è coinciso con la gestione berlusconiana dei più importanti canali, sia privati che di Stato. Berlusconi aveva capito che il geometra Bertinotti, più appariva, con le sue apocalittiche proposte, più lui guadagnava consensi. Bertinotti aveva sempre la risposta pronta ad ogni problema economico e occupazionale che si ponesse in Italia: tutto ciò che andava male in economia andava statalizzato.



Il fatto che il debito pubblico fosse già salatissimo era una questione secondaria e marginale. Come il mercato prende cura di se stesso, così, per Fausto Bertinotti la statalizzazione si sarebbe fatta carico di ogni problema economico. Era una posizione, tutto considerato, coerente con le premesse di uno che si diceva rifondatore comunista: la conclusione della sua logica infatti non poteva essere che lo Stato comunista. Che poi questa soluzione non andasse a genio alla maggioranza degli elettori, non veniva preso in considerazione: perché ovviamente questo Stato comunista lo si sarebbe dovuto imporre, con le buone o le meno buone, a tutti, per la semplice ragione che assicurava il bene comune. A queste conclusioni Bertinotti per la verità non era mai arrivato esplicitamente. Ma era lì che inevitabilmente conduceva la sua logica, con buona pace del capitalismo e del libero mercato, ma anche della democrazia.



Di recente un autorevole sociologo, il professor Luciano Gallino, è venuto fuori con una idea che, a tutta prima, sembra un colpo di genio: per alleviare la disoccupazione che ormai è arrivata a tre milioni di individui, lo Stato dovrebbe assumerne un milione. Il costo di una operazione del genere non sarebbe astronomico: considerato un salario minimo netto di mille euro, l’onere per le finanze pubbliche sarebbe di 25 miliardi di euro l’anno; euro che oltretutto, verrebbero destinati in gran parte ai consumi e farebbero aumentare il Pil di una cifra equivalente. Ma allora, di già che ci siamo, perché non assumerli tutti, i tre milioni di disoccupati: in fondo 75 miliardi di euro in più, che cosa sono, su un debito pubblico di 1.966 miliardi? Solo il 3,81% annuo. E allora, perché non si fa? Se poi qualcuno, incidentalmente, ponesse la questione di cosa fargli fare, ai tre milioni di nuovi occupati, interverrebbe l’autorevole indicazione del professor Keynes: li si mette a scavare buche e poi a riempirle. Ancora: la proposta del professor Gallino sembra ardimentosa, ma non lo è affatto: in che cosa altro è consistita la politica della prima repubblica, se non di assorbire milioni di disoccupati come dipendenti pubblici o parapubblici, dal 1946 ad oggi, specie nella scuola, per poi mandarli in pensione a 35/40/45 anni? L’utilità, pur con una apparenza più dignitosa, non era diversa da quella di scavare buche e poi riempirle.



Ma torniamo alla domanda: perché non si fa? Ecco, di fronte a un debito pubblico che per ipotesi aumenti di circa 75 miliardi l’anno, forse più di un economista potrebbe sostenere che sia la goccia che fa traboccare il vaso: quella che ci fa cadere nel baratro finora sfiorato. Perché? La cifra di circa 2.000 miliardi del nostro debito pubblico non è, di per sé, alta o bassa: la Germania per esempio ha un debito pubblico, in cifre assolute, più alto del nostro. Non parliamo poi del Giappone, che ce l’ha quadruplo. Eppure di questi debiti nessuno si preoccupa. Perché questi Paesi, secondo i “mercati” sono affidabili. Allora: non è l’entità del debito che preoccupa i suddetti mercati, ma l’affidabilità del Paese che sta dietro quel debito. La preoccupazione è che quel Paese, il suo debito, non sia in grado di rimborsarlo. Ma cosa sono questi “mercati” che hanno potere di vita e di morte sul debito pubblico? Piaccia o non piaccia, giusto o ingiusto che sia, sono quelli che devono, ad ogni scadenza, ricomprare i nostri titoli di stato. Con quali conseguenze? Se un Paese non è affidabile, ma non si trova ancora in una posizione di default (un Paese si trova in default quando non ha i soldi in cassa per pagare gli interessi sul debito) i mercati, per prestargli i soldi, chiedono interessi più elevati di quanto non chiedano, per esempio, alla Germania. E’ quello che sta succedendo alla Grecia, alla Spagna e finanche all’Italia. Il costo del debito pubblico è sempre più alto e assorbe risorse che andrebbero destinate a scopi ben più importanti per l’economia del Paese. Cerco di essere più preciso. L’Italia ha un debito di circa 2.000 miliardi e nel 2011 ha pagato interessi di 70 miliardi: il che significa che ha pagato mediamente il 3,5% di interessi sul totale. La Germania, che ha un debito di circa 3.000 miliardi, paga mediamente su questo debito meno dell’1%, il che vuol dire che paga meno di 30 miliardi l’anno (oltre tutto con una economia ben più forte della nostra, per cui 30 miliardi sono poco più che un bruscolo).



Arriviamo alla conclusione: se il nostro debito pubblico aumenta ancora, sempre meno affidabile apparirà il nostro Paese, sempre più aumenteranno i costi di servizio del debito, con il rischio appunto di veder prosciugate le casse. Quindi di trovarsi nella condizione non solo di non poter assumere l’ipotetico milione di dipendenti pubblici del professor Gallino, ma di non pagare gli stipendi ai tre milioni e mezzo che oggi già lavorano per lo Stato. Certo, c’è un’altra possibilità, che non pochi politici ed economisti hanno preso in considerazione (chi con favore, chi paventandone gli effetti): quella di una uscita “pilotata” dall’euro. Posto che sia possibile pilotarla. Ma su questa ipotesi si apre un discorso irto di incognite e troppo ampio per essere affrontato qui.



Lorenzo Borla



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