lunedì 25 agosto 2008

se ci fosse un partito socialista

dovrebbe porre questo tema...



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A conti fatti
Torna il tema della redistribuzione
L' Italia del pensiero unico ha ammesso l' esistenza della questione salariale solo quando la Banca centrale ha annunciato che il potere d' acquisto dei salari era rimasto fermo tra il 2000 e il 2006 mentre quello degli autonomi aumentava del 13,6%. Ma a questo riconoscimento è seguita solo la detassazione degli straordinari, limitata e per i lavoratori poveri. Come mai? Gli economisti ortodossi spiegano ogni cosa con il calo della produttività delle imprese, e dunque condizionano gli aumenti retributivi a un recupero di efficienza e di redditività. Chiedere una diversa redistribuzione del reddito dato sarebbe autolesionismo veteromarxista perché farebbe aumentare l' inflazione e deprimerebbe gli investimenti. Sulla carta il discorso non fa una grinza. Ma la nuova realtà dell' industria e del Nord-Centro, dove vivono 40 milioni di italiani, è un' altra. Sarebbe bastato seguire i conti dei primi 20 gruppi italiani, come abbiamo fatto per anni, per accorgersi che da tre lustri sempre più valore aggiunto va al capitale e sempre meno al lavoro. Ora gli economisti di banca allargano il quadro. Mediobanca contesta il declino della produttività e offre una base statistica alle richieste di redistribuzione (Dati cumulativi di 2020 imprese italiane, 2008). Negli ultimi 10 anni la produttività manifatturiera è cresciuta del 19% con le punte maggiori laddove si è ridotto il personale. Tra il 1999 e il 2003, al lavoro andava l' 87% della maggior produttività. Tra il 2003 e il 2007 il 32. E nel 2007 solo il 5%. Che il conflitto di classe non sia finito con il Novecento? L' ufficio studi di Intesa Sanpaolo alimenta il dubbio (Corinna Olearo e Lorenzo Stanca, La questione salariale: problema di produttività o di confronto contrattuale?). Per quanto sia reso flessibile, il lavoro è sempre un po' più rigido del capitale. Se va male, un' impresa può non distribuire dividendi, ma non può licenziare tutti i dipendenti, altrimenti scompare. Nelle crisi gravi, dunque, il lavoro finisce per aggiudicarsi quote maggiori di un valore aggiunto che frena. Con la ripresa, il capitale recupera su un valore crescente. Ma, dopo le riforme di Treu e di Maroni, la regola non funziona più. Nelle vecchie crisi (1981-83 e 1992-93) il lavoro si era aggiudicato il 4-5% in più di valore aggiunto. Nell' ultimo tempo gramo (2001-04) è rimasto al palo. Perché? Dal 1998 il numero degli occupati è aumentato dell' 1,3% medio annuo, quasi sempre a salari marginali più bassi. Di qui, minor disoccupazione e maggior povertà degli occupati. È il costo sociale della globalizzazione in un' Italia dove, in generale, il lavoro dipendente ottiene il 40% del prodotto interno lordo, mentre in Spagna, Francia, Germania e Regno Unito ha tra il 46 e il 55%. In questo pesa l' ampiezza del popolo delle partite Iva che si aggiudica il 26% del Pil contro l' 11 di Francia e Germania e il 17 della Spagna. Ma la schiera dei microimprenditori, non di rado fittizi, è stata ampliata anche dalla destrutturazione del mercato del lavoro. La questione della redistribuzione, insomma, non è superata. Semmai lo sono gli strumenti con cui viene affrontata. mmucchetti@corriere.it
Mucchetti Massimo
Pagina 35(24 agosto 2008) - Corriere della Sera

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