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La seconda occasione di Obama
di Janiki Cingoli
Obama si appresterebbe a presentare, in vista della Assemblea Generale
dell’ONU di fine settembre, una proposta complessiva di pace per il
Medio Oriente. Un primo annuncio è stato dato alcune settimane fa dal
ministro della Difesa israeliano Barak, che ha anticipato la richiesta
di accogliere il piano. Sulla nuova proposta sono ritornati lo stesso
Obama e Mubarak, nella conferenza stampa a conclusione della visita
del presidente egiziano a Washington. L’annuncio sarebbe accompagnato
da un vertice a tre, con il presidente USA, Netanyahu e Abu Mazen.
Non si sa molto delle caratteristiche del piano. Secondo alcuni
potrebbe trattarsi dell’indicazione di un nuovo framework negoziale,
con il ribadito richiamo alla Road Map, l’indicazione del limite di
due anni per la conclusione delle trattative, e la rivendicazione di
un ruolo più attivo degli USA al tavolo negoziale. Secondo altri, si
indicherebbero anche alcune essenziali linee guida sui contenuti,
dando priorità alla definizione dei confini dei due stati, rispetto
alla questione dei rifugiati e quella di Gerusalemme (malgrado la
stretta interconnessione tra questi diversi problemi): ciò
consentirebbe di svelenire la stessa questione degli insediamenti, una
volta deciso quali tra essi sono destinati a restare israeliani. La
proposta includerebbe in una fase successiva anche i contenziosi
siriano e libanese, in modo da dare un assetto stabile a tutta la
regione.
Il presidente USA, sicuramente, non parte da zero, e ha a disposizione
un materiale abbondante e approfondito, dai “parametri” presentati nel
2000 da Clinton, al termine del negoziato di Camp David II, al verbale
redatto da Moratinos a Taba, all’inizio del 2001, alla stessa proposta
informale del Piano di Pace di Ginevra, del dicembre 2003, che fu
appoggiata anche da Rahm Emmanuel, l’attuale Capo di Gabinetto di
Obama.
Può interessare sapere che gli annessi particolareggiati di tale
piano, i cosiddetti “Annex X”, che non erano stati completati, sono
stati perfezionati nel dicembre 2008 a Torino, in un Seminario
organizzato dal CIPMO (insieme ai Comitati di Ginevra israeliano e
palestinese e al Ministero degli Esteri svizzero), e ora sono andati a
integrare la documentazione a disposizione dello Staff presidenziale.
La presentazione del nuovo piano marcherà dunque un salto di qualità
nella iniziativa USA, definendo le linee guida della pace possibile, a
cui sarà difficile per ognuno delle parti in conflitto opporsi. Se ne
sentiva il bisogno.
L’iniziativa mediorientale di Obama, annunciata con grande impatto nel
suo discorso de Il Cairo, pare infatti essersi un po’ arenata.
Malgrado le grandi attese suscitate soprattutto nel mondo arabo, i
risultati sono ancora scarsi: il presidente USA, come sintetizza
efficacemente Aluf Benn sul quotidiano israeliano Ha’aretz, si è
trovato di fronte tre no: quello israeliano di congelare gli
insediamenti, quello palestinese di riprendere il negoziato senza tale
congelamento, quello arabo di intraprendere passi concreti in
direzione del riconoscimento di Israele, per creare un clima propizio
al negoziato.
Lo stesso giornalista ha d’altronde criticato la mancanza di una
iniziativa di Obama in grado di parlare alla popolazione israeliana,
parallela a quella presa verso il mondo arabo: la stessa sua visita al
campo di sterminio di Buchenwald, effettuata il giorno dopo il
discorso de Il Cairo, è sembrata più rivolta alla minoranza ebraica
americana che alla società israeliana, che non ha visto in essa un
gesto di riconoscimento delle ragioni fondative di Israele e dello
stesso movimento nazionale ebraico, il sionismo. Ciò ha consentito uno
spazio di manovra più ampio a Netanyahu, che nel suo braccio di ferro
con gli Usa ha fatto perno su questo diffuso sentimento popolare:
secondo l’ultimo sondaggio, solo il 12% della opinione pubblica del
paese ritiene che il presidente USA sostenga gli interessi di Israele.
L’analisi del giornalista israeliano risulta in realtà un po’
sommaria, perché in questi mesi dei risultati importanti sono stati
raggiunti: Netanyahu, nel suo discorso di risposta alle proposte del
presidente USA, tenuto a Bar Ilan, ha finito per riconoscere il
principio dei due stati per i due popoli, accettando l’idea di uno
Stato palestinese purché esso sia demilitarizzato, Gerusalemme resti
indivisa sotto sovranità israeliana, e palestinesi e arabi riconoscano
Israele in quanto Stato ebraico. Condizioni ardue, certo, ma che non
attenuano l’importanza del passo compiuto, che ha posto il leader
israeliano al centro dello scenario politico e del consenso
dell’opinione pubblica del suo paese. D’altro canto, il governo
israeliano ha adottato significative misure per facilitare la
circolazione dei palestinesi in Cisgiordania, rimuovendo molti dei
blocchi stradali installati in questi anni d opo l’esplodere della
seconda intifada.
Sulla questione del blocco degli insediamenti, l’inviato speciale USA,
Mitchell, si è impegnato in un defatigante negoziato con gli
israeliani, in particolare con il ministro della Difesa Barak, che in
questa fase si è proposto come principale interlocutore degli
americani, sostituendosi di fatto all’impresentabile ministro degli
Esteri Lieberman.
Al centro della trattativa, che dovrebbe essere finalizzato in queste
settimane, la proposta di un congelamento a tempo delle costruzioni
(si parla di 9 mesi), che non dovrebbe però riguardare le circa 2500
unità abitative già appaltate. Anche su Gerusalemme Est, resterebbe
per Israele un margine di ambiguità e di manovra, anche se gli USA si
riserverebbero libertà di critica. Per parte sua, il governo ha fatto
trapelare la notizia del blocco dei nuovi relativi appalti pubblici ,
inclusi quelli riguardanti Gerusalemme Est, che però in realtà coprono
meno della metà delle iniziative edilizie nelle colonie, in larga
misura private. Esso si sarebbe inoltre impegnato a evitare altre
iniziative provocatorie, quale la demolizione di abitazioni abusive o
l’espulsione di famiglie palestinesi. Rispetto agli avamposti non
autorizzati, Barak ancora una vo lta si è impegnato alla loro
rimozione entro pochi mesi, anche se i coloni continuano a crearne dei
nuovi.
Quanto ai palestinesi, Abu Mazen è uscito molto rafforzato dalla
Conferenza di Al Fatah, la prima dopo venti anni, gestendo con
equilibrio il processo di rinnovamento dell’organizzazione, eliminando
la parte più impresentabile e sgangherata della vecchia guardia, e
aprendo qualche spazio alla nuova guardia, capeggiata dal leader della
seconda intifada, Marwan Barghouti, oggi detenuto nelle carceri
israeliane, che si è classificato terzo nell’elezione del nuovo
Comitato Centrale.
Il presidente dell’ANP ha retto la sfida di Hamas, che ha bloccato
l’afflusso dei delegati provenienti da Gaza (a differenza di Israele
che salvo rare eccezioni ha consentito l’ingresso ai delegati
provenienti dall’estero, anche se coinvolti in atti di terrorismo), e
ha fatto approvare un documento politico che rilancia in pieno la
scelta negoziale, pur con qualche concessione verbale ai settori più
militanti. Egli potrà, quindi, presentarsi al prossimo vertice come un
interlocutore più credibile e munito di un ampio mandato politico, se
non elettorale.
Infine, per quanto riguarda il mondo arabo, questo resta in generale
attestato sulla linea del suo Piano di pace approvato a Beirut nel
2002, su iniziativa saudita, che condiziona il riconoscimento di
Israele da parte di tutti gli Stati arabi alla restituzione dei
territori arabi occupati nel ’67 e alla creazione di uno Stato
palestinese con capitale Gerusalemme Est, insieme ad una soluzione
“giusta e concordata” del problema dei rifugiati.
Tuttavia, Oman e Qatar (e probabilmente anche Tunisia e Marocco)
avrebbero fatto sapere di essere disposti a accettare la riapertura
degli uffici commerciali israeliani, chiusi all’esplodere della
seconda intifada, se gli insediamenti vengono bloccati e il negoziato
riparte. Resta invece ancora incerta la accettazione della richiesta
USA di aprire lo spazio aereo e gli aeroporti arabi agli aerei di
Israele, e di erogare visti turistici e di affari ai suoi cittadini.
I più riservati restano proprio gli autori del Piano arabo, i sauditi,
probabilmente preoccupati per le aperture statunitensi all’Iran e che
hanno la sensazione di essere tenuti ai margini dalla iniziativa del
presidente USA, che ha fatto perno su Egitto e Turchia. L’Arabia
Saudita si sarebbe comunque impegnata a erogare alcune centinaia di
milioni di dollari al Governo palestinese di Ramallah.
Queste reciproche “confidence building measures”, per quanto parziali,
sarebbero ugualmente annunciate in occasione del prossimo vertice di
fine settembre.
Resta tuttavia l’impressione che l’iniziativa statunitense si sia
dispersa in mille particolari, tralasciando il perno centrale, che
resta il contenuto della pace possibile: la realtà, è che se non si
conosce, almeno nelle grandi linee, dove si vuole arrivare, ognuno
resta acquattato sulle sue posizioni, senza voler cedere anzitempo le
carte che ritiene di avere in mano. Per questo il carattere della
nuova proposta di Obama appare essenziale per rimettere in movimento
la situazione. Essa deve essere attentamente calibrata e mirata, per
non risultare ancora una volta un semplice annuncio di intenzioni, con
il rischio di cadere nelle sabbie mobili di cui il Medio Oriente è
disseminato.
Sullo sfondo, essenziali restano le grandi manovre sul nucleare
iraniano, dopo il sanguinoso esito delle elezioni presidenziali in
quel paese, con il pesante corollario delle susseguenti repressioni:
si preannuncia un indurimento delle posizioni americane ed europee,
che potrebbe facilitare, sull’altro versante, una maggiore
flessibilità israeliana.
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