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Lavoro e Sapere
di Massimo Mezzetti*
Ven, 04/09/2009 - 06:26
La crisi occupazionale sta per esplodere in tutta la sua portata. Milioni di ore di cassa integrazione saranno in scadenza tra settembre e novembre. Per tantissimi lavoratori sta scadendo l’indennità di disoccupazione, mentre esiste una larga fascia di “invisibili” che stanno perdendo il loro posto di lavoro senza poter usufruire di nessun ammortizzatore sociale (il bonus di 150 euro per i collaboratori precari non è certo un ammortizzatore sociale). La lunga estate della protesta operaia ha visto i casi eclatanti dell’Innse, della Lasme di Melfi, della Cnh di Imola, di Napoli e tante altre ancora. Lavoratori che salgono sui tetti, si chiudono dentro le fabbriche, proclamano lo sciopero della fame. Da lunedì scorso, di ritorno dalle ferie, lavoratori e lavoratrici di tante aziende lungo lo stivale hanno trovato serrati i battenti delle loro aziende. Non ci sono dati aggiornati sulle imprese che rischiano di chiudere, fatta eccezione per le stime di Banca d’Italia, ma è noto che in Italia sono già aperte circa 500 vertenze aziendali legate alla crisi. Non è neppure quantificabile il numero delle piccole e piccolissime imprese che hanno cessato o stanno per cessare la loro attività. Senza parlare della scuola e delle migliaia di docenti precari a cui è stato dato il ben servito.
Pessimismo cosmico? Catastrofismo tipico della sinistra? No, è la drammatica realtà di cui si parla ancora troppo poco. Tra escort, pruderì presidenziali, informative riservate sulla vita privata di questo o quel personaggio a stento si fanno largo le notizie sulle quotidiane morti sul lavoro, sull’esercito di disoccupati che sale al 9,5% della manodopera attiva, sulle forme di lotta della “disperazione” per difendere il posto di lavoro o la propria azienda. Senza accorgersene, anche i giornali non allineati al governo fanno il gioco del Presidente del Consiglio cadendo nella trappola informativa che distoglie l’attenzione dalla crisi reale del Paese. Quella crisi che morde nella carne viva di milioni di italiani.
Nel nostro paese il calo del Pil è stato molto più consistente: una perdita di 6 punti nel 2009, che unita al meno 1 del 2008, significa 7 punti in meno in 15 mesi. Se l’Italia riuscirà ad agganciarsi alla ripresa internazionale, gli effetti li avremo solo nel 2010, mentre l’impatto sull’occupazione è drammatico: da ottocentomila ad un milione di posti di lavoro a rischio.
In generale, da gennaio ad oggi, ci sono stati più di 700 mila lavoratori coinvolti nei processi di cassa integrazione. Solo nei primi tre mesi di quest’anno vi sono state 366 mila persone che hanno chiesto l’indennità di disoccupazione ordinaria, più di quante ne avevano fatto richiesta durante tutto il 2008. Per questo è necessario agire subito, introducendo misure urgenti per rispondere alla gravissima crisi occupazionale e avviare una riforma fiscale che riduca le tasse sui salari, riducendo di due o tre punti le aliquote e aumentando le detrazioni per salari e pensioni, per poter dare un po’ di ossigeno ai consumi. Per una riforma del genere servono almeno 16 miliardi di euro.
Invece, il nostro paese è quello che, nel fronteggiare gli effetti della crisi, ha messo meno soldi di tutti i paesi d’Europa.
Bisogna impedire che i lavoratori (specie quelli del Nord) vengano ingannati con slogan vuoti come quelli sui salari differenziati territorialmente, le “gabbie” (tra l’altro quello che si propone non è l’innalzamento dei salari del nord, ma l’abbassamento dei salari del sud, che già sono più bassi di circa il 16%). La differenziazione salariale vera non passa solo tra il nord e il sud, ma anche da provincia a provincia e tra i salari dei lavoratori delle piccole imprese e di quelli delle imprese medio grandi, differenze che arrivano anche al 22%. Per questo la Lega, è vero fa solo propaganda e inganna, come sempre, i lavoratori con il populismo.
Anche la partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese, proposta dal ministro Tremonti, rischia di essere solo una boutade. Risulta alquanto bizzarro il fatto che si discuta di partecipazione agli utili solo in tempi di crisi e, soprattutto, quando gli imprenditori chiuduno per assenza di utili.
Sono convinto che questa crisi, lungi dal rappresentare il “crollo del capitalismo”, come taluni visionari agognano, rappresenta però un bivio nella storia dello sviluppo economico mondiale. E’ una crisi che per molti versi presenta aspetti inediti e straordinari e come tali andrebbero affrontati. Da questa crisi non si esce con le tradizionali, ordinarie misure. Anche il problema del lavoro va ripensato in uno spazio sociale che può aiutare a ricollocare la questione dell’occupazione nell'ambito dello sviluppo atteso, non solo sul piano economico, ma anche su quello sociale e ambientale, dal momento che, come sappiamo, per affrontare il nodo strutturale della disoccupazione è necessario intervenire su molteplici fattori (e non solo e non tanto sulla flessibilità).
Si deve far leva sull’idea e la pratica di una “economia rinnovabile”; sulla riconversione ecologica di alcuni settori più che maturi; su un sistema di imprese pubbliche e private che possono nascere dalla "chiusura" del ciclo dei rifiuti (nodo emblematico di tutte le società ricche); su un insieme di politiche strutturali che possono avere inizio se si assumono precisi indirizzi di sostenibilità quali l'estensione della innovazione di processo e di prodotto nelle imprese, una tassazione che cominci a spostarsi progressivamente dai redditi da lavoro ai consumi ambientali, "un'industria della natura" collegata alla gestione delle aree protette. Al di là dell’Oceano, Obama insiste sulla green economy, che non significa semplicemente diventare ambientalisti ma far investire tutto il paese su nuove modalità di produzione. Purtroppo dobbiamo osservare che da noi invece, il settore ricerca e sviluppo è del tutto insufficiente nel privato, addirittura devastante nel pubblico. La transizione verso uno sviluppo socialmente ed ambientalmente sostenibile è forse la più grande sfida che sta dinanzi alla sinistra europea ed italiana.
Mai, nella storia dell’umanità il lavoro salariato ed intellettuale è stato così esteso. Ma mai, negli ultimi decenni, il lavoro è stato reso precario, incerto, mal retribuito, i diritti collettivi e la libertà sindacale sono messi sotto attacco. Questo perché è mancata una rappresentanza politica del lavoro. Compito della sinistra è colmare questo vuoto. Oggi sono molti gli operai e i precari che votano per la destra o non votano perché non si sentono difesi né coinvolti. La sinistra, se vuole rappresentare il mondo del lavoro e i suoi cambiamenti, non può essere equidistante tra la Confindustria e i Sindacati. Le donne continuano ad essere particolarmente svantaggiate nell’accesso e nelle condizioni contrattuali. Serve una politica per la piena, stabile e buona occupazione, più democrazia e partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori, garanzia di livelli di reddito dignitosi per ogni lavoratore dipendente e autonomo, per i pensionati, per tutti.
E’ ora di chiamare le cose con il loro nome: serve un’occupazione stabile, perché la lotta alla precarietà non può limitarsi agli ammortizzatori sociali, ma richiede una nuova normativa che rovesci la logica della legge 30. Un'intera generazione sarebbe altrimenti condannata a un futuro di precarietà e di livelli infimi di reddito. Va ripristinato il principio del lavoro a tempo pieno e indeterminato come regola generale. Va favorito l’accesso dei giovani alle professioni, al lavoro autonomo, alla creazione di impresa.
Bisogna sconfiggere la filosofia della destra che mira a fare dell’intervento legislativo, anziché uno strumento di sostegno e garanzia all’esercizio dell’autonomia collettiva, una clava agitata autoritariamente contro di esso. Al contrario va recuperato un circuito virtuoso di combinazione fra leggi e contrattazione che possa esaltare la sinergia tra elementi di flessibilità introdotti nell’ordinamento e ruolo attivo della contrattazione collettiva nel gestirne l’attuazione, richiedendo al sindacato una maggiore attenzione alle figure non tradizionali del mondo del lavoro e alla loro condizione. Va introdotta una nuova normativa sugli “ammortizzatori sociali”, anche per le nuove figure parasubordinate.
Buona occupazione vuol dire tutele e garanzie in ogni posto di lavoro, condizioni di sicurezza che affrontino alla radice le cause strutturali del drammatico ripetersi delle morti sul lavoro. Vuol dire reddito dignitoso per tutti coloro che lavorano. Vuol dire formazione permanente.
Oggi la vera materia prima è il sapere e cresce chi riesce a trasferire nei processi produttivi la maggiore quantità di sapere. Nel lavoro che cambia, il lavoratore, giovane e non, deve avere livelli di sapere di base alti. E’ la condizione per poter reggere una vita lavorativa che sarà sempre meno un posto e sempre più un percorso.
Acquista dunque maggiore importanza il ruolo della scuola e dell'università; innalzare i livelli di sapere diventa una necessità della nuova economia basata sulla conoscenza.
Qui si gioca la prima partita che determinerà i livelli di inclusione e di esclusione sociale.
Il valore del lavoro, la sua dignità sono e restano il baricentro culturale di una forza di sinistra che vuole essere rappresentativa anche nei tumultuosi tempi di cambiamento che stiamo attraversando.
La scelta della sinistra a sostegno dei diritti fondamentali fondati sull’affermazione dei diritti fondamentali dei lavoratori ha valenza strategica, in questa fase di profonda trasformazione, perché è su questi diritti che è possibile ricostruire un rapporto dialettico fra la politica e la società civile.
*Responsabile nazionale Enti Locali SD
Presidente Commissione lavoro Regione Emilia-Romagna
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