mercoledì 16 settembre 2009

Giovanna Zincone: il voto agli immigrati, uno spazio per i laici

Da La Stampa

16/9/2009

Il voto agli immigrati
uno spazio per i laici





GIOVANNA ZINCONE

Gli immigrati in Italia già votano alle elezioni amministrative e possono ottenere la cittadinanza dopo 4 anni di residenza. Purché siano comunitari, ad esempio quei rumeni che costituiscono, come è noto, la prima nazionalità nel nostro paese. Visto che i figli minori seguono la cittadinanza dei genitori, ne consegue che un bambino rumeno potrà sperare di diventare italiano dopo 4, mentre il figlio di filippini o canadesi dovrà aspettare 10 anni, il termine previsto attualmente per i non comunitari.

Nella discussione su una possibile riforma della cittadinanza alla Commissione Affari Costituzionali della Camera pare che la maggioranza voglia tener duro sui 10 anni. C’è però anche una proposta trasversale, condivisa da una parte di maggioranza e opposizione: prevede la conoscenza dell’italiano, ma abbassa gli anni di attesa a 5. Non si tratta di un coniglio uscito dal cappello a cilindro di Fini: era il tempo previsto per tutti gli stranieri dalla legge del 1912, nell’Italia liberale. È il tempo che si ritrova più di frequente nelle legislazioni di altri paesi europei, ad esempio in Francia, Svezia e Regno Unito. Il Portogallo, che condivideva con l'Italia i 10 anni, il termine più alto in Europa, lo ha abbassato a 6. Ma i bambini nati nel paese di immigrazione normalmente hanno l’opportunità di diventare cittadini prima e più facilmente dei genitori. Il principio dello ius soli, della facilitazione a chi nasce sul territorio, è accettato ovunque, con modalità diverse.

I paesi di immigrazione da popolamento, come Usa, Australia, Argentina o Canada avevano interesse, specie in passato, a rendere stabile la presenza di immigrati e quindi cercavano di trasformarli subito in cittadini, a partire dai bambini nati lì, adottando soluzioni radicali, come l’attribuzione automatica e immediata della cittadinanza ai nuovi nati. Ma poi si è capito che bisognava evitare una cittadinanza casuale, attribuita a figli di genitori recalcitranti, così come lo shopping all’estero di cittadinanze utili da parte di genitori affettuosamente opportunisti, e si sono introdotti requisiti supplementari di residenza. Negli stati europei si richiede un certo tempo di residenza dei bambini e/o dei genitori, e nessuno in Italia vuole trasformare in cittadini bambini nati qui per caso, o scodellati da genitori furbescamente interessati ad avere pargoli targati Unione Europea. Ma un tempo irragionevolmente lungo blocca i percorsi di integrazione e crea alienazione politica. Le proposte dei «finiani» non caratterizzerebbero insomma il Pdl come un partito di sinistra, ma come un normale partito di centro europeo.

Il Presidente della Camera peraltro guarda alla Europa non solo per la cittadinanza, ma anche per il voto locale agli immigrati. Tutti i paesi scandinavi, Irlanda e Olanda lo hanno adottato da tempo, il Belgio e altri paesi europei, specie tra i nuovi membri, hanno seguito a ruota. È vero che la Francia per anni ha guidato il fronte anti-voto amministrativo, ma il Governo ci sta ripensando e soprattutto ci ripensano i francesi.

Un sondaggio internazionale sull’immigrazione (Tti) segnala una maggioranza favorevole al voto locale tra gli intervistati francesi (74%) e, sia pure meno ampia, tra gli italiani (57%).

Ancora più interessanti sono i dati dei deliberative polls, i «sondaggi istruiti» che registrano il cambiamento di opinione dopo che gli intervistati sono stati meglio informati sui temi, attraverso dibattiti condotti da esperti favorevoli o contrari ad una specifica proposta, come il passaggio al nucleare o il voto agli immigrati. Ebbene, dopo avere ascoltato varie tesi pro e contro e aver dibattuto tra loro in piccoli gruppi, gli intervistati in tutti i paesi dove è stato fatto l’esperimento, Italia inclusa, sono emersi più favorevoli a concedere diritti agli immigrati, tra cui il voto locale. Insomma, i suggerimenti del Presidente della Camera, se debitamente argomentati presso l’opinione pubblica, potrebbero giovare al Pdl rispetto a un rischio che sta correndo: lasciare scoperto uno spazio politico vitale per le sue sorti future.

È uno spazio che in questo momento nessuno dei partiti italiani copre con coerenza: una posizione rispettosa della religione, ma fermamente laica, attenta alla sicurezza, ma anche al rispetto delle minoranze e dei diritti umani. Per ora il Pdl può sperare di vincere le prossime partite elettorali appiattendosi sulle posizioni xenofobe della Lega, ma se un Pd redivivo o una nuova formazione riuscissero a coprire, in un paese ben più secolarizzato di quanto comunemente si creda, lo spazio laico moderato che un tempo occupavano i repubblicani, i socialdemocratici, i liberali e i socialisti di Craxi, il partito di Berlusconi potrebbe trovarsi spiazzato nel suo stesso elettorato. Già adesso ha dimostrato di trovare ostacoli notevoli nella sua classe dirigente che da quel mondo in gran parte proviene: infatti, i «medici spia» e altri pezzi indigesti della politica dell’immigrazione sono stati affossati in parlamento o hanno avuto bisogno della stampella del voto di fiducia. Forse è questo lo scenario che qualcuno nel Pdl comincia a temere: una competizione da parte di un attore politico laico e moderato, radicato nella cultura democratica europea. Qualcun altro, magari, ci spera.

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