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Crisi del capitalismo e democrazia
di Fabio Ranchetti*
“Chi non conosce il significato delle parole non può conoscere la realtà”
Confucio
Il presente testo riproduce sostanzialmente, seppur in forma riveduta, la conversazione tenuta il 25 aprile 2009 a Torino, nell’ambito della “Biennale Democrazia”. Di qui il tono e lo stile molto discorsivi. In questo intervento vorrei partire da cose e concetti molto semplici, persino banali, e che a tutti potrebbero sembrare più che noti. Ma proprio perché noti, non sempre sono davvero conosciuti a fondo, nel loro più vero e interessante significato. Inizierò pertanto col definire i termini del tema oggetto di questo incontro - “Crisi del capitalismo e democrazia”. I termini da definire sono dunque tre: crisi, capitalismo, e democrazia. Seguo un ordine inverso e inizio quindi con il termine democrazia.
1. Democrazia
Che cosa si debba intendere per democrazia e che cosa essa sia nella realtà, sono, ovviamente, questioni assai complesse e controverse, e che appartengono a diversi discorsi - al discorso politico, a quello storico, a quello economico. Mi limito qui a dire solo alcune cose che ritengo utili in relazione al tema della “crisi del capitalismo”.
Uno dei maggiori economisti del secolo scorso, Friedrich Hayek, della democrazia ha dato la seguente definizione: “Democrazia vuol dire libertà economica”. Questa definizione è molto significativa per la perfetta identità che stabilisce tra il piano economico e quello politico (e sociale). Non solo. Si noti bene un’implicazione: si ha democrazia se, e solo se, i mercati in cui si svolge l’attività economica - dal mercato dei beni a quello del lavoro, dal mercato dei capitali a quello delle materie prime - sono mercati “liberi”. Il che significa, in termini più espliciti, mercati in cui viga la libera concorrenza. Ora, la libera concorrenza o, come si dice nel linguaggio della teoria economica contemporanea, la “concorrenza perfetta” è solo una delle forme possibili di organizzazione dei mercati, e nella realtà neanche quella più diffusa. Oltre che nella forma concorrenziale, spesso, anzi quasi sempre, i mercati sono ‘strutturati’ secondo forme non concorrenziali: la cosiddetta, non a caso, concorrenza imperfetta, la forma oligopolistica e quella del monopolio. La tesi di fondo di Hayek, e con lui di gran parte del pensiero liberale conservatore (e non solo), è quindi che non vi può essere democrazia senza una completa libertà di mercato e conseguente (o precedente) liberalizzazione dei mercati, dove, ripeto, per “libertà economica” si intende una particolare forma di organizzazione dei mercati. Dico subito che, personalmente, pur essendo un economista, sono contrario a una definizione così ‘economicistica’ di democrazia. Infatti, la ragione della mia opposizione sta soprattutto nel fatto che è una tesi concettualmente molto riduttiva e, per di più, contraria ai fatti. Contraria ai fatti perché vi sono paesi non democratici ma con mercati liberi; e contraria ai fatti anche perché vi sono paesi democratici in cui la libertà economica non è sempre e ovunque necessariamente prevalente. Insomma, la libertà economica non può essere identificata con quella forma specifica di libertà che si intende con la concorrenza perfetta, e anche se così fosse, la concorrenza perfetta è una forma di organizzazione economica assai poco diffusa. Personalmente, quando penso alla democrazia io penso ai grandi paesi in cui la democrazia è nata e si è sviluppata per prima, come il Regno Unito, gli Stati Uniti d’America e la Francia. Pensiamo alla Francia, per fare l’esempio del paese a noi più vicino da tanti punti di vista. Ora, entrando in un qualsiasi edificio pubblico francese, come voi sapete, vi appaiono subito tre parole iscritte a chiare lettere: “Liberté, égalité et fraternité”. Ecco, questo esprime in forma sintetica perfettamente il significato più pieno e vero del termine democrazia. Si tratta di una forma di organizzazione sociale in cui accanto alla libertà, e non si tratta solo della libertà intesa in stretto senso economico, vi è l’uguaglianza e la fraternità - aspetti, questi ultimi due, inscindibili e necessari per la definizione e la realizzazione di una democrazia sostanziale. (Noto, tra parentesi, quanto scarsi siano, in generale, l’attenzione e il peso rivolti all’ultimo termine, cioè quello di fraternità ovvero alle forme di solidarietà sociale, che sono costitutive di qualsiasi democrazia e la cui carenza denota, appunto, un difetto di democrazia.) Dunque, per democrazia si deve intendere qualcosa di complesso, sia dal punto di vista economico, come da quello politico, giuridico e sociale: una forma di organizzazione della vita sociale in cui accanto alla libertà economica - al “libero mercato”, ovvero quello organizzato secondo il modello della concorrenza perfetta - esistono altre libertà, formali e sostanziali, nonché forme, anche queste formali e sostanziali, di eguaglianza o giustizia e di fraternità o solidarietà sociale, in un intreccio fondamentale e non separabile.
Ma passo ora a considerare il secondo termine del nostro tema: crisi del capitalismo.
2. Capitalismo
Cercherò di illustrare prima e brevemente il termine “capitalismo”, per poi passare a vedere in che senso si possa dire, oggi, che il capitalismo sia in crisi o, forse meglio, quale sia la forma specifica della crisi attuale. (Infine, vedremo quale rapporto esista, se esiste, tra tale crisi e la democrazia).
Sempre in modo estremamente banale, ma le banalità sono spesso utili a sgombrare preliminarmente il campo da discorsi fuorvianti e non precisamente focalizzati, il capitalismo può essere definito come una forma particolare di organizzazione della vita economica e sociale. Quando si dice forma particolare, si vuol alludere al fatto che vi sono altri modi possibili o immaginabili di organizzare la società (e, almeno storicamente, ve ne sono stati). Ma siccome la società in cui viviamo (almeno in Occidente) è, su questo non vi è dubbio possibile, una società capitalistica, è al capitalismo che dedichiamo adesso la nostra attenzione. Ora, la particolarità del capitalismo quale forma di organizzazione economica e sociale consiste nel suo fine principale, cioè l’accumulazione della ricchezza o meglio del denaro. Si noti bene: qui si tratta di una accumulazione di ricchezza ‘senza fine’, se mi si passa il gioco di parole. Ovvero, l’obiettivo del capitalismo non è il raggiungimento di un obiettivo in qualche modo prestabilito di ricchezza, che sia per un individuo o per un paese o per l’intero nostro mondo, ma bensì l’accumulazione del denaro in quanto tale e pertanto illimitata. La caratteristica del denaro come forma di ricchezza, ed è questa appunto la forma propria del capitalismo, è la sua quantità: a differenza dei beni e delle merci, il denaro si contraddistingue soltanto in base alla sua quantità, e non anche qualità. Per usare un linguaggio ormai desueto ma utile, l’accumulazione di ricchezza che caratterizza il capitalismo è la conseguenza di una “produzione e riproduzione allargata” di merci e di servizi per produrre più denaro. Il fine non è il raggiungimento di un dato obiettivo di benessere o di un determinato livello di consumi, ovvero ciò che in altri termini si intende per “standard di vita”, ma la continua e sempre maggiore produzione di denaro. Il profitto non è altro che la differenza tra il denaro che entra e il denaro che esce dal processo economico (differenza positiva, ovviamente, se e solo se la seconda quantità è maggiore della prima). Pertanto, si ha crisi del capitalismo quando avviene un’interruzione in questo processo di creazione di ricchezza, di riproduzione allargata; quando, in parole più povere, il denaro che fuoriesce dal processo economico è in quantità inferiore a quello che vi è stato immesso, quando i profitti decrescono o, addirittura, si annullano e diventano negativi. La stagnazione, la depressione, la disoccupazione, la caduta del Pil sono tutte conseguenze di questo fatto fondamentale - che sta all’origine di qualsiasi crisi capitalistica, e pertanto anche dell’attuale. Qui vale forse la pena di fare una precisazione. Quando si dice ricchezza, gli economisti più avvertiti - pensate, tanto per fare un solo nome, quello del premio Nobel Amartya Sen, che molto ha studiato e scritto su questa questione - sanno benissimo che essa non può essere perfettamente identificata né col denaro né, soprattutto, con il livello di benessere effettivamente raggiunto o percepito dagli individui che compongono la società. Così come sanno benissimo che il Pil è un indicatore, una misura, assai imperfetta dell’effettivo benessere di un individuo o di una nazione. Chiarito tale punto, riprendo il discorso sulla crisi, il nostro terzo termine.
3. Crisi del capitalismo
Dunque, per crisi economica dobbiamo intendere un’interruzione del ‘normale’ funzionamento del processo economico capitalistico, ovvero quella situazione in cui, per qualche ragione (che tra poco andremo a vedere), si interrompe la riproduzione allargata del sistema e, in particolare, i profitti (produzione di maggiore ricchezza, di maggiore denaro) decrescono o si azzerano. Pertanto e in un certo senso, si tratta di un malfunzionamento, di una patologia del sistema economico. D’altra parte, si può ben affermare, parlando sempre in generale, che la crisi non sia una malattia del sistema economico capitalistico, ma faccia parte della sua fisiologia. Ovvero, il sistema capitalistico sarebbe naturalmente soggetto, così come, se volete, l’umore o la psiche delle persone, ad alti e bassi: è un sistema il cui andamento è, appunto, ciclico. (Tra parentesi, questo è anche un segnale di speranza per chi, persona o economia, fosse, come oggi, nella fase depressiva! Sarebbe, inoltre, opportuno richiamare qui le profonde analisi di Schumpeter sulle crisi, in cui si mostra come non vi sia crisi senza innovazione - la crisi, essendo, appunto una “distruzione creativa” e pertanto qualcosa di positivo.) Di qui consegue anche un’importantissima implicazione. Se il sistema capitalistico e pertanto il sistema economico attuale è soggetto a crisi, non si vede perché, esattamente come nel caso delle malattie umane, non si debba intervenire per curarlo. Ma seppur tutti concordino sulla necessità di intervenire - “stabilire nuove regole”, come spesso si sente dire -, quanto al modo e all’entità degli interventi necessari per curare il paziente non c’è in verità molto consenso, anzi si potrebbe tranquillamente affermare che vi sia molta confusione o, comunque, posizioni molto differenti e contrastanti le une con le altre (come, peraltro, spesso avviene anche nella medicina, dalla quale non a caso è nata l’economia politica). Lasciando il piano più generale del discorso, veniamo ora alla crisi attuale.
4. La crisi odierna
La tesi oggi prevalente tra gli economisti sulle origini e la natura della presente crisi economica, tesi sulla quale c’è davvero un consenso amplissimo e quasi stupefacente (di solito, gli economisti sono piuttosto divisi nelle loro analisi e diagnosi), è che si tratti innanzitutto e soprattutto di una crisi finanziaria, molto grave. Certamente, non vengono trascurate le sue pesanti conseguenze sull’economia reale, ovvero sulla produzione e l’occupazione, ma, quanto alle cause e alle origini, esse sono ricondotte unicamente ai mercati finanziari, monetari e bancari. Faccio un esempio molto calzante e paradigmatico, tratto dalle parole di uno dei nostri maggiori e più acuti economisti, Luigi Spaventa. Ebbene, che cosa ci dice Spaventa? Ecco le sue precise e chiare parole: “Questa crisi l’Occidente se l’è fatta tutta in casa: con la degenerazione del suo modello finanziario, favorita da politiche monetarie permissive negli anni della grande bonanza e consentita da regolatori colpevolmente o dolosamente sonnacchiosi.” Dunque, si tratta di una crisi eminentemente, squisitamente finanziaria; i responsabili sono individuati o in cattivi banchieri che non hanno saputo fare bene il loro mestiere (siano essi banchieri privati che sono stati incapaci di valutare correttamente il “merito di rischio” dei loro creditori, siano essi banchieri centrali, come Alan Greenspan che avrebbe inondato il mercato di moneta a basso prezzo), o in una scarsa vigilanza da parte di quegli organi (come la Sec negli Stati Uniti) che avrebbero, invece, dovuto meglio controllare il sistema bancario e finanziario. Poi, certamente, questa crisi ha avuto, ha e continuerà ad avere conseguenze anche reali: sulla produzione, sull’occupazione, sui consumi e sulla distribuzione della ricchezza e del reddito. Ma si tratta, appunto, di conseguenze. Ecco, qui, su questo punto assolutamente fondamentale, io dissento fortemente. Dico subito che, tra gli economisti, la mia è una posizione minoritaria. Cercherò ora di argomentarla. A tal fine, mi riferisco a un paio di punti di teoria economica che, a mio giudizio, aiutano molto a comprendere l’attuale situazione e a interpretare in modo più approfondito la genesi e la natura della crisi in atto.
4.1 La crisi odierna. Un primo riferimento teorico: l’economia monetaria della produzione
Il primo punto teorico che desidero richiamare è stato formulato e chiarito in maniera esemplare da Maynard Keynes (non a caso, uno dei maggiori studiosi della Grande Crisi degli anni Trenta del secolo scorso).
Keynes, sia nella sua opera economica più famosa, la General Theory of Employment, Money, and Interest, pubblicata nel 1936, sia in altri suoi importanti lavori, precedenti (qui basti ricordare il Treatise on Money del 1930) e successivi, ha molto insistito sulla natura “essenzialmente” (così sottolinea lo stesso Keynes) monetaria o, se preferite, finanziaria dell’economia moderna e contemporanea. Il che significa, a differenza di quanto sostiene il pensiero economico cosiddetto mainstream, che, in economia, la moneta conta, eccome se conta! In particolare, secondo Keynes, il saggio dell’interesse, ovvero il prezzo della moneta, è una grandezza che non necessariamente viene determinata da quello che avviene nella sfera reale dell’economia, ma bensì da fattori “convenzionali”, ovvero psicologici, storici, sociali, e proprio perciò soggetti a una particolarmente forte incertezza; una incertezza che nessun modello matematico potrà mai, proprio per la sua intrinseca natura, né comprendere né controllare. A questo proposito, si verifica un fatto apparentemente curioso (ma significativo). Proprio il pensiero economico moderno e contemporaneo più tradizionale, secondo il quale la moneta e quindi i mercati monetari e finanziari, sono soltanto o “un velo” che ricopre la realtà economica, o “un olio” che serve a far funzionare senza attriti questa stessa realtà economica, ma mai e poi mai possono essere le cause prime, ovvero determinare fenomeni reali quali la produzione e l’occupazione, assegnano tuttavia alla moneta e ai mercati finanziari un ruolo assolutamente preponderante. Ma su questa considerazione mi fermo, e passo a una seconda riflessione.
Abbiamo detto che la tesi tradizionale sulla crisi odierna non tralascia di rilevare e considerare le conseguenze che gli errori dei banchieri (centrali e privati) e il malfunzionamento dei mercati finanziari hanno sull’economia reale e anche, in particolare, sulla distribuzione della ricchezza e del reddito. Uno dei temi più discussi, anche sulla stampa quotidiana e in televisione, è proprio quello dell’”avidità” dei banchieri e degli speculatori più in generale, connesso alla questione delle retribuzioni e dei cosiddetti bonus che avrebbero, si dice, raggiunto livelli inusitatamente elevati (perfettamente vero dal punto di vista storico) e socialmente inaccettabili (su questa seconda cosa ho i miei fondati dubbi: tranne rarissime eccezioni, nonostante le tante parole, nonostante la crisi non sia affatto superata, i banchieri e i finanzieri continuano tranquillamente a percepire remunerazioni straordinariamente alte, come se nulla fosse accaduto). Ma vorrei sollevare qui la questione, assai più rilevante e interessante, del rapporto tra crisi e distribuzione del reddito. La mia posizione (anche qui di minoranza, all’interno della nutrita e agguerrita schiera degli economisti) è che se è vero, come è vero, che la crisi, quanto alla sua fenomenologia, è una crisi monetaria e finanziaria - e come potrebbe non esserlo, in un’economia essenzialmente monetaria e finanziaria? - non possiamo non considerare che una determinata distribuzione della ricchezza e del reddito sia non solo la conseguenza dell’attuale crisi, ma anche una delle sue cause, e non delle minori. In altri termini, io ritengo che, come peraltro quasi sempre in economia, il nesso causale sia complesso e non univoco: la crisi ha senza dubbio alcuno conseguenze sulla distribuzione del reddito (e molto gravi), ma la distribuzione del reddito difficilmente può non essere considerata come una delle principali condizioni e determinanti della crisi stessa. Per spiegare meglio questo punto, mi rifaccio a un secondo, importante riferimento teorico.
4.2 La crisi odierna. Un secondo riferimento teorico: la questione delle dotazioni iniziali
Il pensiero economico classico, anche quello più tradizionale, e mi riferisco, per esempio, a due grandi economisti come Walras e Pareto, ma non mi sarebbe difficile citare economisti contemporanei di grande rilievo (nonostante le loro idee su questa fondamentale questione siano molto poco diffuse, e ancor meno applicate), ha, con estrema chiarezza e coerenza mostrato come la formazione e produzione ex post di ricchezza dipenda da una data distribuzione ex ante della ricchezza stessa tra i partecipanti alla vita economica. In termini tecnici, è questa la questione delle “dotazioni iniziali”. Mi limito a sottolineare due punti, il primo più teorico, il secondo più storico.
Il primo punto, quello più teorico, è che se i soggetti nel mercato ‘partono’, cioè iniziano la loro attività (sia di consumo che di produzione, o anche di speculazione) con dotazioni - cioè quantità di ricchezza, di reddito, di beni, di denaro, ecc. - molto, ‘troppo’ diverse, è evidente che non è possibile realizzare una concorrenza “perfetta”: per usare un’immagine proprio di Walras, è come se, in una corsa, alcuni corridori fossero messi al nastro di partenza con una gamba legata. Il risultato della gara non può, evidentemente, non esserne inficiato. Ora, ecco quanto a noi interessa di più in questa conversazione, un’analisi seria e approfondita della crisi attuale richiede necessariamente un esame accurato di quali siano e siano state le condizioni di partenza, ovvero la distribuzione ex ante della ricchezza. Cosa che, tranne veramente rarissime eccezioni, non viene mai fatta.
Il secondo punto, quello più storico, è che, negli ultimi anni, in particolar modo a partire dagli anni ottanta e novanta del secolo scorso, si è verificato un significativo mutamento nella distribuzione delle dotazioni iniziali, ovvero della ricchezza e del reddito. Si è verificata, infatti, una forte redistribuzione di reddito dai salari ai profitti e alle rendite. Un dato solo: secondo il Fondo monetario internazionale, nel 1980 in Europa i redditi da lavoro rappresentavano il 73% del Pil, nel 2004 il 63%”. Se così stanno le cose, ed è arduo non credere al Fmi, la mia tesi è che è molto difficile sostenere che una redistribuzione del reddito di tale entità non sia, in qualche modo (e non dei meno importanti), alle origini della crisi economica e finanziaria attuale. Salari ‘troppo bassi’, e pertanto consumi bassi e dunque un’insufficienza di domanda complessiva, più (e oltre) che essere una conseguenza dell’attuale crisi finanziaria, ne possono ben essere all’origine: nulla togliendo alla “cattiveria” e all’”avidità” dei banchieri e degli speculatori di oggi (su cui, avrete ormai capito, ho tutte le mie riserve), una “cattiva distribuzione del reddito”, come già sosteneva John Galbraith in riferimento alla Grande Crisi degli anni trenta del Novecento, deve essere considerata come qualcosa di fondamentale ai fini della spiegazione anche della presente crisi finanziaria ed economica.
Arrivo alla conclusione, con una brevissima riflessione sul rapporto tra crisi del capitalismo da un lato, e democrazia dall’altro.
5. Crisi del capitalismo o crisi della democrazia?
A proposito di quanto appena detto (e forse a dimostrazione della moderatezza della mia posizione), mi sembra molto significativo che anche il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, abbia recentemente affermato l’importanza di un aumento dei salari quale mezzo e via (non i soli, certamente) per uscire dalla crisi attuale. Come è noto, tra i compiti istituzionali delle banche centrali, e quindi anche della Banca d’Italia, non vi è quello della giustizia distributiva o dell’equità sociale - l’”égalité” e la “fraternité” da cui eravamo partiti in questa nostra conversazione, ovvero dalla definizione di democrazia. Ciò mi porta a concludere con una, per così dire, ‘provocazione’, che esprimerei così. Posta la fondamentalità della questione della distribuzione della ricchezza ai fini della comprensione dello stato dell’economia, non dovremmo forse rovesciare i termini? Cioè, più che “crisi del capitalismo e democrazia”, non avremmo dovuto intitolare queste riflessioni “capitalismo e crisi della democrazia”?
Per saperne di più
Akerlof, G.A. e R.J.Shiller (2009), Animal Spirits, Princeton University Press, Princeton (trad.it. Spiriti animali, Rizzoli, Milano).
Atkinson, A.B., (2003) Income Inequality in OECD Countries, Oxford University Press, Oxford.
Galbraith, J.K. (1955), The Great Crash, 1929, Hamish Hamilton, London (trad. it. Il grande crollo, Bollati Boringhieri, Torino 2008).
Hayek, F. (1960), The Constitution of Liberty, Routledge & Kegan, London (trad. it. La società libera, Vallecchi, Firenze 1969).
Iannotte F. e I.Tytell (2007), How Has the Globalization of Labor Affected the Labor Share in Advanced Countries?, IMF, dicembre.
Keynes, J.M. (1930), A Treatise on Money, Macmillan, London (trad. it. di E.Redaeli riveduta da F.Cugno e F.Zallio, Trattato della moneta, Feltrinelli, Milano 1979)
Keynes, J.M. (1936), The General Theory of Employment, Interest, and Money, Macmillan, London (ed.it., Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta e altri scritti, a cura di T. Cozzi, Utet, Torino 2006).
Keynes, J.M. (1983), Come uscire dalla crisi, a cura di Pierluigi Sabbatini, Laterza Roma (gli scritti originali vanno dal 1930 al 1937).
Marx, K. (1885), Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie. Zweiter Band. Buch II: Der Zirkulationsprocess des Kapitals, Meissner, Hamburg (trad.it. di R.Panzieri, Il capitale. Critica dell’economia politica. Libro secondo. Il processo di circolazione del capitale, Editori Riuniti, Roma 1989).
Morris, C.R. (2009), Crack. Come siamo arrivati al collasso del mercato e che cosa ci riserva il futuro, nuova edizione aggiornata, Introduzione di Luigi Spaventa, Elliot Edizioni, Roma.
Pareto, V. (1902-03), Les Systèmes socialistes, Giard & Brière, Paris (ed.it. I sistemi socialisti, a cura di G. Busino, Utet, Torino 1974).
Walras, L. (1896 e 1936), Etudes d’économie sociale. Théorie de la répartition de la richesse sociale, Rouge, Lausanne (trad.it. di A. Salzano, Studi di economia sociale. Teoria della distribuzione della ricchezza sociale, Archivio Guido Izzi, Roma 1990-93).
* Fabio Ranchetti insegna Economia politica all’Università di Pisa.
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