giovedì 3 settembre 2009

Maria Grazia Meriggi: Ricordo di Luigi Cortesi

Da Liberazione

Luigi Cortesi, grande storico, tenace militante comunista impegnato – negli ultimi anni –in una battaglia innovativa per un pacifismo ambientalista saldamente radicato nella tradizione del marxismo ci ha lasciati nella notte del 1° settembre vicino Roma. Era nato nel ’29 a Bergamo e nonostante la giovanissima età dopo avere organizzato proteste nel liceo classico dove studiava, il famoso liceo Sarpi, si era avvicinato alla Resistenza.
Faceva parte di quella generazione che insieme a Franco della Peruta, Stefano Merli, Giuliano Procacci attraverso e all’interno di alcune istituzioni e riviste hanno conferito alla storiografia contemporanea italiana il suo profilo caratteristico, strettamente connesso con la storia dei mondi del lavoro, dei suoi conflitti, delle sue esperienze politiche e sociali. Come ha scritto egli stesso la sua generazione non ha avuto veri e propri maestri: la cesura del fascismo aveva screditato quelli che avrebbero potuto essere tali dal punto di vista metodologico; e ciò nonostante il rango di una figura imponente e suggestiva come quella di Delio Cantimori. Ha fatto parte a modo suo, dunque, dei fondatori della disciplina contemporaneistica, strappando lo studio dell’Ottocento, della formazione dello stato nazione in Italia e della sua contradittoria modernizzazione capitalistica al più lungo ciclo della storia moderna.
A Milano ha condiviso con Franco Della Peruta e con Stefano Merli, in fasi diverse, il lavoro all’interno della Fondazione – allora Istituto – Feltrinelli che, sorta dal singolare mecenatismo militante di GianGiacomo, il cui nome per il grande pubblico è legato alla casa editrice è diventata uno dei più straordinari giacimenti di libri, riviste, opuscoli, materiali su associazionismo, organizzazioni trasformazioni economiche, culture politiche dei mondi del lavoro in Europa fra il XVIII e il XXI secolo. Se scrivo “mondi del lavoro” e non “movimento operaio” non è per timoratezza ma per ragioni metodologiche che in parte hanno anche diviso la mia generazione da quella dei padri cui Gigi apparteneva ma che ci hanno insegnato il mestiere.
Gigi ha scritto libri di storia politica attraverso i congressi prima del Psi e poi del PCd’I, con rigore filologico. Attraverso di essi ci ha consegnato una sua specifica interpretazione della storia del proletariato italiano che sottolineava soprattutto la rottura fra i giovani socialisti ai tempi della guerra di Libia, dunque nel 1911-1912, prendeva “sul serio” come segno di maturità imperialistica quella tardiva conquista coloniale e leggeva il partito di Livorno in continuità con la battaglia delle minoranze delle quali Amadeo Bordiga era stato dirigente pionieristico. Ciò non ne faceva – DAVVERO – un “bordighista”, ma certo un comunista di sinistra, critico delle pratiche e soprattutto delle teorie gramsciane. Era politicamente e storiograficamente sensibile alla cesura che si era aperta rapidamente fra coloro che avevano aderito al PCd’I nella spesso confusa ma irriducibile speranza di una rottura radicale nei rapporti di potere e nella vita quotidiana – il “livornismo” – e la generazione, più giovane anche di pochi anni, che aveva incontrato il PCd’I come la più rigorosa forza antifascista che avrebbe progressivamente inserito la spinta classista nel quadro di una riqualificazione della democrazia. Negli ultimi anni aveva studiato con estrema attenzione il riemergere di questa ipotesi classista in momenti ed esperienze della resistenza operaia e proletaria dedicando analisi appassionanti al risorgere della vita politica nel laboratorio del “regno del Sud” dopo l’insurrezione napoletana del settembre ’43.
Ma Gigi si guardava bene dal limitarsi – secondo una pratica assai diffusa nella sua generazione in Italia – dallo studiare solo il movimento comunista perché era orgogliosamente tale. Aveva animato per più di dieci anni, a partire dal 1958, insieme con Stefano Merli, allora militante della sinistra socialista, la Rivista storica del socialismo che ha profondamente innovato i metodi della storia politica e aveva dedicato pagine importanti al giovane Turati: non quello che voleva educare “l’operaio minorenne” ma quello che si era posto in ascolto dell’operaismo milanese degli anni Ottanta e che aveva imparato dall’esperienza europea che gli veniva da Anna Kuliscioff. In modi e attraverso percorsi diversi da quelli di Stefano Merli anche Gigi aveva sperato che nel lungo ’68 italiano si riaprisse un’ipotesi di rottura politica radicale e aveva portato nel movimento e poi nelle successive esperienze politiche tutto il peso e anche le intransigenze – o le elevate esigenze – della sua storia. Aveva poi preso molto sul serio la formula “Rifondazione comunista” e aveva certo guardato con severità alcuni aspetti della vita del partito, soprattutto l’eclettismo, l’abbandono in certe sue fasi e in certe sue componenti del leninismo come lettura rigorosa e moderna del capitalismo, del Lenin dello Sviluppo del capitalismo in Russia.
Gigi apparteneva a una generazione nella quale il rigore dello studioso si alimentava delle passioni militanti. Ma la sua curiosità intellettuale e la sua affettuosità gli hanno sempre evitato rigidezze e settarismi. A mio parere a questo risultato ha contribuito anche l’aver lavorato oltre che nelle università in un’istituzione preposta alla raccolta di fonti e alla pubblica lettura. Storici e storiche diversi e di diverse generazioni devono a questo corpo a corpo con le fonti alcune acquisizioni fondamentali di metodo a partire dal nesso strettissimo fra organizzazione delle fonti stesse e possibilità di ricerca che hanno aperto le loro prospettive anche oltre il pur vasto territorio delle loro ricerche. Cito alla rinfusa percorsi fra loro davvero diversi: Gigi, Stefano Merli, Franco della Peruta, Claudio Pavone che ha lavorato a lungo all’Archivio centrale dello Stato dove ha trascorso tanto tempo lo stesso Renzo De Felice e poi Mariuccia Salvati che ha tanto contribuito alla fisionomia della Fondazione Basso o David Bidussa dalla sua postazione alla Fondazione Feltrinelli.
Negli ultimi anni con straordinaria generosità Cortesi ha dedicato molte delle sue forze a Giano, una rivista su “pace ambiente problemi globali” in cui, come ebbi già modo di scrivere alcuni anni fa, egli cercava di liberare l’ambientalismo e il pacifismo – quindi l’opposizione ai rischi globali – da ogni possibile ambiguità: un malcelato malthusianesimo, l’idea di uno sviluppo sostenibile inteso come risarcimento rispetto alla rinuncia a redistribuire la ricchezza, l’umanitarismo disarmante, individuando nell’ideologia apologetica di tanta storiografia figlia del “crollo dell‘89” la principale ragione della rinuncia a comprendere le potenzialità distruttive della crescita capitalistica illimitata.
In questo lungo e coerente cammino Gigi ha tessuto reti affettive ricche e salde a cominciare da quelle famigliari fino a quelle degli amici e dei compagni di sempre o di una fase. Dopo averlo ricordato con affetto grandissimo, potremmo provare a rileggerlo e a riprendere alcune sue piste di ricerca. Ma per adesso, ricordiamone insieme la tenace passione egualitaria.
Maria Grazia Meriggi

2 commenti:

Fabio Gentile ha detto...

Apprendo solo ora della scomparsa di Gigi Cortesi. Purtroppo mi trovo lontano dall'Italia e non mi resta altro che unirmi al dolore di coloro che hanno studiato e collaborato con lui. Ho conosciuto Gigi all'Università Orientale, prima come docente, poi come correlatore della tesi di laurea e di dottorato. Ricordo il nostro confronto appassionate sul fascismo, sulla resistenza e sui principali temi della storia repubblicana. Ricordo quando mi propose di scrivere alcuni articoli su Giano e di curare l'intervista sul socialismo italiano con Gaetano Arfè per Il Ponte. Gigi ha avuto un ruolo fondamentale nella mia formazione di giovane storico "in erba" e credo in quella di tanti altri nati tra gli anni Sessanta e i primi anni Settanta.
Addio compagno Gigi Cortesi, resta sempre viva in me la lezione della tua esperienza di storico militante comunista al banco di prova della vita
Fabio Gentile

attilio mangano ha detto...

è proprio una generazione di maestri e precursori, un grande patrimonio