Segnalo due articoli sulle pericolose tentazioni di Tremonti; o meglio, sulla consapevole e pericolosa retorica antibancaria con cui il ministro dell'Economia riempie i suoi discorsi... I veri problemi sono altri e le vere soluzioni sono meno retoriche e un po' più complicate...
Francesco Maria
http://mondiepolitiche.ilcannocchiale.it
Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera dell'8 settembre 2009
http://www.corriere.it/editoriali/09_settembre_08/massimo_mucchetti_il_ministro_e_i_banchieri_8572b782-9c33-11de-a226-00144f02aabc.shtml
(...) quando imputa alle banche di tenere più agli azionisti che alla comunità perché, non avendo ancora sottoscritto i Tremonti bond, non concedono abbastanza credito alle imprese, il ministro dell’Economia risulta meno convincente.
La sua accusa presuppone che le banche siano un’infrastruttura del Paese e non società a scopo di lucro. Così non è da quando, nei primi anni Novanta, le aziende di credito sono state privatizzate. Certo, l’aiuto diretto e le garanzie che gli Stati hanno fornito alle banche — in Italia infinitamente meno che altrove — rendono tali imprese passibili di una vigilanza che sarebbe inutile e dannosa per altre, libere di fallire. Ma da qui a fare delle banche strumenti di politica economica del governo il passo è lungo. E nemmeno Tremonti ha mai detto di volerlo compiere.
L’adeguatezza del credito è questione più concreta. I bilanci bancari italiani non sono più floridi. (...)
Il governo, che da mesi incalza, ha avuto un atteggiamento non sempre preveggente. Prima ha trattato le banche come se grondassero quattrini, infliggendo loro, con la Robin Tax, un salasso stimabile in 1,4 miliardi l’anno. Nell’autunno della Lehman, ne ha parlato come di aziende sull’orlo del fallimento. In origine, i Tremonti bond sono stati concepiti come una ciambella di salvataggio. Il loro annuncio ha concorso a ristabilire un clima di fiducia. Che, tornando, ne ha svuotata la funzione. Questi strumenti di capitale rifioriscono ora come volano per aumentare il credito. Ma il loro costo è diventato molto alto con i tassi a breve che sono vicini allo zero e consentono alle banche di finanziarsi altrimenti. E di evitare di doverli convertire in azioni, con la conseguenza di trovarsi lo Stato in casa, se non riuscissero a rimborsarli il 30 giugno 2013.
Probabilmente, sarebbe più efficace consentire alle banche di fare pulizia aumentando l’esenzione fiscale sugli accantonamenti a fondi rischi, ridotta ormai allo 0,30% degli impieghi. Ma i banchieri dovrebbero meritarselo non tanto aumentando la quantità del credito, la cui domanda cala durante le recessioni, ma liberando le imprese dall’incubo del rimborso a scadenza ravvicinata. Con il consolidamento dei debiti ormai diffuso, ma anche con nuovi strumenti — a metà strada tra il capitale di rischio e il credito ordinario — validi anche per quando tornerà il sereno. I risparmiatori, che la politica monetaria penalizza, e le imprese, che restano l’architrave di tutto, hanno ragione a chiedere di più.
http://www.corriere.it/editoriali/09_settembre_08/massimo_mucchetti_il_ministro_e_i_banchieri_8572b782-9c33-11de-a226-00144f02aabc.shtml
Mario Deaglio sulla Stampa del 9 settembre 2009
A sentire le loro dichiarazioni sulle responsabilità delle banche nella crisi, si potrebbe pensare che Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi non appartengano allo stesso governo. Domenica a Cernobbio Tremonti - che ha anche puntato il dito contro i banchieri a livello mondiale, addossando loro la responsabilità principale della crisi - ha accusato, con notevole pesantezza, i banchieri nazionali di non fare gli interessi del Paese, tra l’altro per la loro riluttanza a sottoscrivere i cosiddetti «Tremonti bonds». Una forma di finanziamento pensata per i salvataggi delle imprese che, nelle mutate condizioni di oggi, può risultare relativamente cara e poco maneggevole. Ieri a Milano, Berlusconi ha invece preso una posizione diametralmente opposta, asserendo che non si può dare la croce addosso ai banchieri (...)
Più che una vera e propria spaccatura, contrasti d’opinione così plateali segnalano sicuramente una certa confusione di idee e l’assenza di riferimenti intellettuali forti sui quali impostare la strategia economica. Non si tratta di un problema soltanto italiano: in maniera più discreta, differenze non dissimili stanno venendo a galla, tra i governi e dentro i governi dei Paesi del G20, a due settimane dalla riunione di Pittsburgh. Questa riunione non dovrebbe limitarsi a raggiungere un faticoso accordo su qualche tecnicismo ma dovrebbe definire una linea comune nei rapporti tra mondo politico e finanza, essenziale per evitare il ripetersi di crisi distruttive. Non sembra che nessuno, compresi naturalmente Berlusconi e Tremonti, abbia idee precise su come ciò andrebbe fatto mentre tutti guardano con preoccupazione a un possibile ulteriore indebolimento dei consumi, soprattutto negli Stati Uniti, sotto il peso dell’aumento del numero dei senza lavoro.(...)
Il mondo bancario italiano, che sarebbe arduo accusare di un forte profilo politico, almeno in anni recenti, si trova quindi sottoposto al tiro incrociato di tre diversi soggetti. In primo luogo un pubblico di risparmiatori, tradizionalmente abituati a un interesse reale relativamente elevato, derivante da impieghi considerati piuttosto sicuri: in secondo luogo le imprese con la loro richiesta che le banche siano «buone» nei loro riguardi per compensare un mondo che è diventato «cattivo»; e infine il governo che vorrebbe che le banche diventassero prima di tutto lo strumento di una politica economica di stabilizzazione che evitasse il collasso temuto di centinaia di migliaia di piccole imprese.
Per conseguenza, oggi è facile additare alla pubblica esecrazione i banchieri dal cuore di pietra, che negano o riducono il fido alle imprese in difficoltà ma domani si tratterebbero in maniera molto più dura gli stessi banchieri se, essendo diventati troppo teneri, avessero perduto i soldi loro affidati dalla gente. In una situazione di rischio in aumento, trasferire - per di più a parità di costo - una parte di questo rischio dalle imprese alle banche con finanziamenti «di buon cuore» può compromettere una struttura bancaria complessivamente molto sana che rappresenta uno dei principali punti di forza del Paese per sostenere imprese sovente piuttosto malate. (...)
Un’azione determinata del governo per mettere a posto la propria tesoreria e pagare con maggiore celerità i propri fornitori avrebbe probabilmente effetti più incisivi di un credito che, magari con un’interpretazione «buonista» dei «Tremonti bonds», venisse distribuito a pioggia; e gli imprenditori italiani, dal canto loro, dovrebbero tener presente che la creatività, l’energia e la freschezza innovativa che li caratterizza a livello mondiale devono accompagnarsi a un altro tratto tipico delle imprese in ogni parte del mondo, ossia l’accettazione di una buona dose di rischio finanziario, senza la quale è difficile, al giorno d'oggi, fare molta strada.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=6369&ID_sezione=&sezione=
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