RICCARDO NENCINI: APPELLO ALLA SINISTRA
"Mi rivolgo a quanti – circoli, associazioni, fondazioni, partiti della sinistra non antagonista e non comunista -, condividono il Manifesto del Partito del Socialismo Europeo approvato a Madrid il 1 dicembre scorso perché si metta fine a divisioni nocive per la presenza in Italia di una sinistra riformista fondata sui valori del merito, della inclusione, del rigore, della libertà". Inizia così la lettera- appello del segretario del Partito Socialista, Riccardo Nencini, in vista delle elezioni europee del giugno 2009.
"Mi rivolgo - prosegue l'appello - a quanti ritengono colpevole non agire per definire un progetto della sinistra del futuro i cui eletti al Parlamento Europeo siedano accanto ai rappresentanti laburisti, socialisti e socialdemocratici. Mi rivolgo a quanti pensano che sia necessario rinunciare a parte della propria sovranità per concorrere alla costruzione di liste elettorali condivise nei cinque collegi elettorali italiani. Candidati che condividano un programma minimo per il governo dell'Europa in questo tempo di crisi e che, grazie alla loro scelta, riescano a favorire nuovi processi di aggregazione anche solo finalizzati a quella importante scadenza politica. Mi rivolgo a quanti ritengono possibile unire le forze sotto il simbolo del Socialismo Europeo per presentare un'unica lista alle elezioni europee del giugno 2009. Non singole bandiere, dunque, ma l'accettazione del Manifesto del PSE quale segno di laicità, innovazione, investimento sulle giovani generazioni, valorizzazione dell'ambiente, parità di genere, ruolo dell'Europa per costruire la pace nel mondo. I socialisti sono pronti a lavorare in questa direzione fino dai prossimi giorni.
Per aiutare questo orientamento a compiersi, i socialisti – conclude l'appello di Nencini - avanzeranno richiesta al leader del PSE Rasmussen perché venga consentito l'uso del simbolo del Partito del Socialismo Europeo nelle circoscrizioni italiane nelle elezioni europee del prossimo giugno".
Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
mercoledì 31 dicembre 2008
Jan Palach: un eroe della libertà
(documento redatto da Enzo Biassoni, Mario Martucci, Sergio Vicario ed altri )
Jan Palach:
per non dimenticare un eroe della libertà
Noi, che quarant'anni fa eravamo impegnati a Milano nel Movimento Studentesco, potevamo fare di più quando, il 16 gennaio del 1969, il giovane ventunenne cecoslovacco Jan Palach si trasformò in una torcia umana per protestare contro l'occupazione militare sovietica e contro la repressione nel sangue della Primavera di Praga.
Molti di noi furono colpiti dalla drammaticità di quel gesto estremo, ma il Movimento non ne comprese fino in fondo la portata storica e strategica. Jan Palach denunciava l'oppressione sovietica e interpretava la volontà dei popoli dell'Est europeo di riconquistare quelle stesse libertà fondamentali che, con passione, rivendicavamo nelle piazze per il Vietnam e per altri popoli in lotta per l'indipendenza.
Grazie anche al fuoco che avvolse il giovane Palach, nel decennio successivo ci impegnammo a fianco delle lotte di Charta 77, di Solidarnosc e dei dissidenti dell'Urss fino alla caduta del Muro. Tuttavia, la nostra generazione, con la medesima sincerità con cui rivendica il suo contribuito all'affermazione della partecipazione popolare e della democrazia e al riscatto degli oppressi, deve avere l'onestà intellettuale di fare i conti con il debito di riconoscenza e di verità che è dovuto, oggi come ieri, al sacrificio di Jan Palach.
In occasione dell'anniversario del suo sacrifico, saremo in Piazza San Venceslao a Praga per testimoniargli con convinzione la nostra gratitudine e per ricordare ai giovani, usando le parole di Alexander Dubcek, che "l'uomo e l'umanità sono capaci non soltanto di conoscere il mondo, ma anche di trasformarlo'", alla condizione, però, di saper guardare alla realtà con intelligenza ed onestà.
Jan Palach:
per non dimenticare un eroe della libertà
Noi, che quarant'anni fa eravamo impegnati a Milano nel Movimento Studentesco, potevamo fare di più quando, il 16 gennaio del 1969, il giovane ventunenne cecoslovacco Jan Palach si trasformò in una torcia umana per protestare contro l'occupazione militare sovietica e contro la repressione nel sangue della Primavera di Praga.
Molti di noi furono colpiti dalla drammaticità di quel gesto estremo, ma il Movimento non ne comprese fino in fondo la portata storica e strategica. Jan Palach denunciava l'oppressione sovietica e interpretava la volontà dei popoli dell'Est europeo di riconquistare quelle stesse libertà fondamentali che, con passione, rivendicavamo nelle piazze per il Vietnam e per altri popoli in lotta per l'indipendenza.
Grazie anche al fuoco che avvolse il giovane Palach, nel decennio successivo ci impegnammo a fianco delle lotte di Charta 77, di Solidarnosc e dei dissidenti dell'Urss fino alla caduta del Muro. Tuttavia, la nostra generazione, con la medesima sincerità con cui rivendica il suo contribuito all'affermazione della partecipazione popolare e della democrazia e al riscatto degli oppressi, deve avere l'onestà intellettuale di fare i conti con il debito di riconoscenza e di verità che è dovuto, oggi come ieri, al sacrificio di Jan Palach.
In occasione dell'anniversario del suo sacrifico, saremo in Piazza San Venceslao a Praga per testimoniargli con convinzione la nostra gratitudine e per ricordare ai giovani, usando le parole di Alexander Dubcek, che "l'uomo e l'umanità sono capaci non soltanto di conoscere il mondo, ma anche di trasformarlo'", alla condizione, però, di saper guardare alla realtà con intelligenza ed onestà.
Nicolucci: la guerra di Ehud
LA GUERRA DI EHUD
In Israele l'uomo del giorno è il laburista Ehud Barak, il ministro
della Difesa. Tirato per la giacca da Hamas in una guerra che nella
cosiddetta “cucina” - il ristretto direttorio di governo composto dal
primo ministro e dai ministri di esteri e difesa, così definito dal
tempo di Golda Meir, che lo riuniva nella propria cucina di casa - non
lo ha certo visto tra gli impazienti, Barak è infatti premiato dai
sondaggi . Sondaggi che vedono sia un deciso sostegno dell'opinione
pubblica israeliana all'intervento, sia un guadagno elettorale di ben
due seggi anche per il partito laburista, sin qui dato per spacciato.
Un partito che sembrava non avere più spazio nell'arena politica
israeliana, schiacciato a destra dalla nascita di Kadima – partito
creato da Sharon con laburisti come Shimon Peres - e recentemente
chiuso anche a sinistra dalla nascita di un rinnovato Meretz, a cui ha
partecipato anche Gilad Sher, l'ex capo negoziatore e fraterno amico
dello stesso Barak. Così, con una tipica e repentina movenza
mediorientale, lo scenario politico muta improvvisamente. Prima, il
disfacimento di un governo per la prima volta caduto su temi interni di
corruzione piuttosto che sul nodo esistenziale del conflitto israelo-
palestinese, con una conseguente caotica lotta per la sopravvivenza
politica tra le sue personalità, terrorizzate dalla prospettiva di una
destra arrembante alle elezioni del 10 febbraio. Con un Barak
considerato il vaso di coccio tra quelli di ferro della Livni e di
Netanyahu. Oggi, una competizione interna al centrosinistra sconvolta
nei suoi esiti probabili ed aperta ad ogni possibile esito con la
destra. Nel medioriente però chi oggi sembra avere le carte migliori
potrebbe domani in realtà dover rimanere con il cerino in mano. E nel
caso le cose andassero male potrebbe non bastare a Barak il fatto di
essere il più decorato soldato della storia d'Israele con cinque
medaglie ricevute, tra cui quella “Golan”, così come l'esser stato con
una bionda parrucca da donna a capo dell'audace commando che a Beirut
eliminò nel sonno un terrorista palestinese responsabile del massacro
degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco – episodio raccontato
dal film “Munich” – né esser stato a capo dell'Intelligence Militare, e
poi Capo di Stato Maggiore: sempre una patente di inettitudine gli
verrà affibbiata. Perchè le cose possono andare male: per chi detiene
la supremazia militare l'andamento di un'offensiva asimmetrica come
quella in atto a Gaza è infatti come sbucciare un carciofo, più si va
avanti più le opzioni si restringono. Dopo l'iniziale assalto aereo,
certamente un successo, ora è vitale sapere come proseguire. Già molti
suggeriscono che piuttosto di rischiare il disastro per avere qualche
piccolo successo in più - dato che l'obiettivo di distruggere
militarmente Hamas è impossibile – adesso bisogna fermarsi. E lasciare
il passo alla diplomazia. Cosa oggi ancora più difficile del solito:
per le festività cristiane, ma anche per la difficoltà di parlare con
Hamas a Gaza, data la distruzione delle infrastrutture e la fuga in
clandestinità di tutta la sua dirigenza.
Insomma, se fosse questo il caso e tutto andasse male, Barak la
pagherà cara. Certo è però che nonostante il tentativo di Tzipi Livni
di guidare il fronte bellicista non sarà lei ad avvantaggiarsene. Lo
farà invece Netanyahu. Il suo Likud appare oggi nei sondaggi con sei
seggi in meno: che vanno però non a Kadima ma all'estrema destra. Se
però la guerra si ingarbugliasse, o dovesse inciampare in un incidente
come quello di Qana - che nel 1996 tramutò il candidato primo ministro
Shimon Peres da padre della patria in carnefice di profughi inermi -
allora Barak e Kadima saranno sburgiardati come mentitori, visto che
sono entrati in guerra per indebolire Hamas, e non per farne un
gigante. E dato che l'efficace slogan usato contro Netanyahu al momento
è “Bibi? Io non gli credo!”, esso si ritorcerà loro contro. Con tutte
le conseguenze politiche ed elettorali del caso.
Fabio Nicolucci
( da Il Riformista del 31 dicembre 2008)
In Israele l'uomo del giorno è il laburista Ehud Barak, il ministro
della Difesa. Tirato per la giacca da Hamas in una guerra che nella
cosiddetta “cucina” - il ristretto direttorio di governo composto dal
primo ministro e dai ministri di esteri e difesa, così definito dal
tempo di Golda Meir, che lo riuniva nella propria cucina di casa - non
lo ha certo visto tra gli impazienti, Barak è infatti premiato dai
sondaggi . Sondaggi che vedono sia un deciso sostegno dell'opinione
pubblica israeliana all'intervento, sia un guadagno elettorale di ben
due seggi anche per il partito laburista, sin qui dato per spacciato.
Un partito che sembrava non avere più spazio nell'arena politica
israeliana, schiacciato a destra dalla nascita di Kadima – partito
creato da Sharon con laburisti come Shimon Peres - e recentemente
chiuso anche a sinistra dalla nascita di un rinnovato Meretz, a cui ha
partecipato anche Gilad Sher, l'ex capo negoziatore e fraterno amico
dello stesso Barak. Così, con una tipica e repentina movenza
mediorientale, lo scenario politico muta improvvisamente. Prima, il
disfacimento di un governo per la prima volta caduto su temi interni di
corruzione piuttosto che sul nodo esistenziale del conflitto israelo-
palestinese, con una conseguente caotica lotta per la sopravvivenza
politica tra le sue personalità, terrorizzate dalla prospettiva di una
destra arrembante alle elezioni del 10 febbraio. Con un Barak
considerato il vaso di coccio tra quelli di ferro della Livni e di
Netanyahu. Oggi, una competizione interna al centrosinistra sconvolta
nei suoi esiti probabili ed aperta ad ogni possibile esito con la
destra. Nel medioriente però chi oggi sembra avere le carte migliori
potrebbe domani in realtà dover rimanere con il cerino in mano. E nel
caso le cose andassero male potrebbe non bastare a Barak il fatto di
essere il più decorato soldato della storia d'Israele con cinque
medaglie ricevute, tra cui quella “Golan”, così come l'esser stato con
una bionda parrucca da donna a capo dell'audace commando che a Beirut
eliminò nel sonno un terrorista palestinese responsabile del massacro
degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco – episodio raccontato
dal film “Munich” – né esser stato a capo dell'Intelligence Militare, e
poi Capo di Stato Maggiore: sempre una patente di inettitudine gli
verrà affibbiata. Perchè le cose possono andare male: per chi detiene
la supremazia militare l'andamento di un'offensiva asimmetrica come
quella in atto a Gaza è infatti come sbucciare un carciofo, più si va
avanti più le opzioni si restringono. Dopo l'iniziale assalto aereo,
certamente un successo, ora è vitale sapere come proseguire. Già molti
suggeriscono che piuttosto di rischiare il disastro per avere qualche
piccolo successo in più - dato che l'obiettivo di distruggere
militarmente Hamas è impossibile – adesso bisogna fermarsi. E lasciare
il passo alla diplomazia. Cosa oggi ancora più difficile del solito:
per le festività cristiane, ma anche per la difficoltà di parlare con
Hamas a Gaza, data la distruzione delle infrastrutture e la fuga in
clandestinità di tutta la sua dirigenza.
Insomma, se fosse questo il caso e tutto andasse male, Barak la
pagherà cara. Certo è però che nonostante il tentativo di Tzipi Livni
di guidare il fronte bellicista non sarà lei ad avvantaggiarsene. Lo
farà invece Netanyahu. Il suo Likud appare oggi nei sondaggi con sei
seggi in meno: che vanno però non a Kadima ma all'estrema destra. Se
però la guerra si ingarbugliasse, o dovesse inciampare in un incidente
come quello di Qana - che nel 1996 tramutò il candidato primo ministro
Shimon Peres da padre della patria in carnefice di profughi inermi -
allora Barak e Kadima saranno sburgiardati come mentitori, visto che
sono entrati in guerra per indebolire Hamas, e non per farne un
gigante. E dato che l'efficace slogan usato contro Netanyahu al momento
è “Bibi? Io non gli credo!”, esso si ritorcerà loro contro. Con tutte
le conseguenze politiche ed elettorali del caso.
Fabio Nicolucci
( da Il Riformista del 31 dicembre 2008)
Passigli: non è Tonino il tallone del PD
La Stampa
31/12/2008
Non è Tonino il "tallone" del Pd
STEFANO PASSIGLI
Anche se la recente direzione del Pd ha respinto l’invito di Follini a rompere con l’IdV è innegabile che la secca sconfitta in Abruzzo abbia dato nuovo vigore a quanti giudicano una scelta sbagliata l’alleanza con Di Pietro. Ora, che l’IdV ne stia erodendo il consenso elettorale è indubbio, ma che il rimedio per il Pd stia nella rottura con Di Pietro piuttosto che in un serio esame delle ragioni per cui l’IdV cresce e il Pd cala è altamente opinabile.
Il Pd cala non per la presenza dell’IdV, che anzi consente di mantenere nell’ambito di un’opposizione riformista voti destinati all’astensione (Abruzzo docet), o che tornerebbero ad indirizzarsi (almeno nelle elezioni europee, grazie all’assenza di sbarramenti) verso quei partiti della sinistra radicale esclusi dal Parlamento dalla legge Calderoli. Il Pd cala per quattro ragioni: in primo luogo, perché il partito non ha saputo ancora darsi una precisa identità, come ben mostrano le divisioni al suo interno sulle questioni bioetiche (numerosi sono i parlamentari e aspiranti sindaci che non hanno votato al referendum abrogativo della legge sulla fecondazione assistita promosso dal partito), sulle politiche istituzionali e in particolare sulla legge elettorale, e i sempre più frequenti casi di dissenso in materia di riforma della giustizia, e persino di politiche scolastiche o di welfare. A ciò si aggiunga il progressivo venir meno - a tratti quasi un’epurazione - d’una delle grandi componenti storiche del riformismo europeo: quella del riformismo laico e liberal-democratico che tanta presenza ha ancora nell’università, nell’informazione, nelle professioni, nell’imprenditoria, con il conseguente indebolirsi del Pd proprio nella società civile e il suo tornare a chiudersi in un’autoreferenzialità di ceto politico ex Ds ed ex Margherita.
Una seconda ragione sta nel carattere della vita interna del partito: a gruppi parlamentari che il Porcellum elettorale ha voluto nominati e non eletti dai cittadini, né scelti da iscritti ancora non esistenti, si uniscono in un mix devastante organi nazionali largamente cooptati, e organi locali espressione di ponderate alchimie tra i partiti d’origine. Il risultato è una vita democratica asfittica e l’accentuarsi di quel carattere di leaderismo personalistico che si avvia a essere comune a tutti i partiti italiani, con la conseguenza, laddove le leadership non siano consolidate, di forti tensioni tra i gruppi al vertice del partito e una diffusa conflittualità a tutti i livelli, ragione non ultima della crescente disaffezione del suo elettorato.
La terza e maggior ragione della caduta di consenso nei confronti del Pd sta nell’emergere di una questione morale che anche se limitata a poche ben specifiche situazioni ha un forte impatto proprio per le aspettative di intransigente moralità che i partiti eredi del vecchio Pci hanno sempre ispirato al proprio elettorato.
Infine, e non ultima causa, alcuni irrisolti nodi politici, dalla collocazione europea del partito alla strategia delle alleanze: posto che i risultati elettorali hanno reso evidente che la «vocazione maggioritaria» non poteva intendersi come aspirazione all’autosufficienza, il nodo della politica delle alleanze diviene prioritario.
In questo contesto affermare che l’alleanza con l’IdV permette a Berlusconi di delegittimare tutta l’opposizione indebolendo il Pd, o che essa fa pagare al Pd un prezzo elettorale, rischia non solo di non cogliere le vere cause delle difficoltà del partito, ma di accrescerle. Il successo di Di Pietro è la conseguenza e non l’origine delle difficoltà del Pd: i dati di sondaggio suggeriscono che una rottura con Di Pietro, specie se unita a posizioni che autorizzassero rinnovati dubbi sulle capacità di opposizione del Pd, ne accelererebbe fortemente il declino elettorale. È solo all'interno di un cartello di opposizioni, e solo recuperando la sua iniziale e pluralistica vocazione a rappresentare tutte le tradizioni del riformismo italiano (e non solo quelle della sinistra post-maxista e del cattolicesimo democratico) che il Pd potrà ritrovare la funzione di innovazione politica che si era prioritariamente assegnata.
31/12/2008
Non è Tonino il "tallone" del Pd
STEFANO PASSIGLI
Anche se la recente direzione del Pd ha respinto l’invito di Follini a rompere con l’IdV è innegabile che la secca sconfitta in Abruzzo abbia dato nuovo vigore a quanti giudicano una scelta sbagliata l’alleanza con Di Pietro. Ora, che l’IdV ne stia erodendo il consenso elettorale è indubbio, ma che il rimedio per il Pd stia nella rottura con Di Pietro piuttosto che in un serio esame delle ragioni per cui l’IdV cresce e il Pd cala è altamente opinabile.
Il Pd cala non per la presenza dell’IdV, che anzi consente di mantenere nell’ambito di un’opposizione riformista voti destinati all’astensione (Abruzzo docet), o che tornerebbero ad indirizzarsi (almeno nelle elezioni europee, grazie all’assenza di sbarramenti) verso quei partiti della sinistra radicale esclusi dal Parlamento dalla legge Calderoli. Il Pd cala per quattro ragioni: in primo luogo, perché il partito non ha saputo ancora darsi una precisa identità, come ben mostrano le divisioni al suo interno sulle questioni bioetiche (numerosi sono i parlamentari e aspiranti sindaci che non hanno votato al referendum abrogativo della legge sulla fecondazione assistita promosso dal partito), sulle politiche istituzionali e in particolare sulla legge elettorale, e i sempre più frequenti casi di dissenso in materia di riforma della giustizia, e persino di politiche scolastiche o di welfare. A ciò si aggiunga il progressivo venir meno - a tratti quasi un’epurazione - d’una delle grandi componenti storiche del riformismo europeo: quella del riformismo laico e liberal-democratico che tanta presenza ha ancora nell’università, nell’informazione, nelle professioni, nell’imprenditoria, con il conseguente indebolirsi del Pd proprio nella società civile e il suo tornare a chiudersi in un’autoreferenzialità di ceto politico ex Ds ed ex Margherita.
Una seconda ragione sta nel carattere della vita interna del partito: a gruppi parlamentari che il Porcellum elettorale ha voluto nominati e non eletti dai cittadini, né scelti da iscritti ancora non esistenti, si uniscono in un mix devastante organi nazionali largamente cooptati, e organi locali espressione di ponderate alchimie tra i partiti d’origine. Il risultato è una vita democratica asfittica e l’accentuarsi di quel carattere di leaderismo personalistico che si avvia a essere comune a tutti i partiti italiani, con la conseguenza, laddove le leadership non siano consolidate, di forti tensioni tra i gruppi al vertice del partito e una diffusa conflittualità a tutti i livelli, ragione non ultima della crescente disaffezione del suo elettorato.
La terza e maggior ragione della caduta di consenso nei confronti del Pd sta nell’emergere di una questione morale che anche se limitata a poche ben specifiche situazioni ha un forte impatto proprio per le aspettative di intransigente moralità che i partiti eredi del vecchio Pci hanno sempre ispirato al proprio elettorato.
Infine, e non ultima causa, alcuni irrisolti nodi politici, dalla collocazione europea del partito alla strategia delle alleanze: posto che i risultati elettorali hanno reso evidente che la «vocazione maggioritaria» non poteva intendersi come aspirazione all’autosufficienza, il nodo della politica delle alleanze diviene prioritario.
In questo contesto affermare che l’alleanza con l’IdV permette a Berlusconi di delegittimare tutta l’opposizione indebolendo il Pd, o che essa fa pagare al Pd un prezzo elettorale, rischia non solo di non cogliere le vere cause delle difficoltà del partito, ma di accrescerle. Il successo di Di Pietro è la conseguenza e non l’origine delle difficoltà del Pd: i dati di sondaggio suggeriscono che una rottura con Di Pietro, specie se unita a posizioni che autorizzassero rinnovati dubbi sulle capacità di opposizione del Pd, ne accelererebbe fortemente il declino elettorale. È solo all'interno di un cartello di opposizioni, e solo recuperando la sua iniziale e pluralistica vocazione a rappresentare tutte le tradizioni del riformismo italiano (e non solo quelle della sinistra post-maxista e del cattolicesimo democratico) che il Pd potrà ritrovare la funzione di innovazione politica che si era prioritariamente assegnata.
martedì 30 dicembre 2008
Maltese: l'equivoco del PD
L'equivoco del PD sul significato del riformismo
di Curzio Maltese
L’imminente collasso del PD è inevitabile? Forse no, ma quasi di sicuro nessuno si muoverà per evitarlo. II fatalismo sembra l’ultimo «ismo» rimasto alla sinistra.
La situazione è chiara da tempo. Con questo gruppo dirigente, come diceva Nanni Moretti, non si vincerà mai più. Questa almeno è la convinzione di milioni di elettori del centrosinistra, che non andranno più a votare finché non vedranno all’opera un partito nuovo nei fatti e non a parole.
La profezia di Moretti nel 2002 fu rovesciata dal risultato elettorale del 2006, ma solo in parte. In realtà per la seconda volta un centrosinistra votato alla sconfitta s’imbatté in quel singolare outsider vincente ch’era Romano Prodi. E per la seconda volta lo fece fuori in breve tempo. Lasciata sola a se stessa, la nomenclatura ereditata da PD e DC ha finito per riproporre un vuoto d’idee nel quale avanzano carrierismi spregiudicati.
L’identità riformista del PD è rimasta sulla carta. Gli ex PC e DC ne hanno sempre avuta un’idea vaga. Per loro il riformismo non significa progettare riforme, impresa titanica in Italia, ma assumere un atteggiamento moderato, non entrare in polemica con l’avversario, con la Chiesa e con i poteri forti, irridere alla questione morale e disprezzare ogni forma di radicalismo. E' una visione un tantino macchiettistica. Un po’ come quando gli attori italiani, per recitare i testi anglosassoni, indossano il foulard, si versano un whisky ed esclamano «caspita!». Oppure come quando Bertinotti e Sansonetti interpretano l'antagonismo sociale nei salotti televisivi, con i noti esiti.
II calcolo della nomenclatura di centrosinistra era di trattare con Berlusconi come con la DC di una volta. Con la differenza che il berlusconismo non è la DC, è eversivo e ora apertamente anticostituzionale. Senza contare che nell’ultimo mezzo secolo il mondo è un po’ cambiato.
D’altra parte non si può pretendere che i vecchi funzionari di partito, dopo aver cambiato cento sigle, mutino davvero il proprio codice genetico.
L’unica possibilità è mandarli a casa e costruire un partito nuovo. Era il progetto originario del PD, ma ha resistito pochi mesi. Come si può convincere gli elettori d’esser capaci di riformare la società quando non si è in grado di riformare se stessi?
Oggi il PD può scegliere se scaricare gli oligarchi locali da solo e da subito, o aspettare che lo facciano gli elettori.
Si potrebbe, una volta, fare una cosa di sinistra?
da Il Venerdì di Repubblica, n. 1084, 27 dicembre 2008
di Curzio Maltese
L’imminente collasso del PD è inevitabile? Forse no, ma quasi di sicuro nessuno si muoverà per evitarlo. II fatalismo sembra l’ultimo «ismo» rimasto alla sinistra.
La situazione è chiara da tempo. Con questo gruppo dirigente, come diceva Nanni Moretti, non si vincerà mai più. Questa almeno è la convinzione di milioni di elettori del centrosinistra, che non andranno più a votare finché non vedranno all’opera un partito nuovo nei fatti e non a parole.
La profezia di Moretti nel 2002 fu rovesciata dal risultato elettorale del 2006, ma solo in parte. In realtà per la seconda volta un centrosinistra votato alla sconfitta s’imbatté in quel singolare outsider vincente ch’era Romano Prodi. E per la seconda volta lo fece fuori in breve tempo. Lasciata sola a se stessa, la nomenclatura ereditata da PD e DC ha finito per riproporre un vuoto d’idee nel quale avanzano carrierismi spregiudicati.
L’identità riformista del PD è rimasta sulla carta. Gli ex PC e DC ne hanno sempre avuta un’idea vaga. Per loro il riformismo non significa progettare riforme, impresa titanica in Italia, ma assumere un atteggiamento moderato, non entrare in polemica con l’avversario, con la Chiesa e con i poteri forti, irridere alla questione morale e disprezzare ogni forma di radicalismo. E' una visione un tantino macchiettistica. Un po’ come quando gli attori italiani, per recitare i testi anglosassoni, indossano il foulard, si versano un whisky ed esclamano «caspita!». Oppure come quando Bertinotti e Sansonetti interpretano l'antagonismo sociale nei salotti televisivi, con i noti esiti.
II calcolo della nomenclatura di centrosinistra era di trattare con Berlusconi come con la DC di una volta. Con la differenza che il berlusconismo non è la DC, è eversivo e ora apertamente anticostituzionale. Senza contare che nell’ultimo mezzo secolo il mondo è un po’ cambiato.
D’altra parte non si può pretendere che i vecchi funzionari di partito, dopo aver cambiato cento sigle, mutino davvero il proprio codice genetico.
L’unica possibilità è mandarli a casa e costruire un partito nuovo. Era il progetto originario del PD, ma ha resistito pochi mesi. Come si può convincere gli elettori d’esser capaci di riformare la società quando non si è in grado di riformare se stessi?
Oggi il PD può scegliere se scaricare gli oligarchi locali da solo e da subito, o aspettare che lo facciano gli elettori.
Si potrebbe, una volta, fare una cosa di sinistra?
da Il Venerdì di Repubblica, n. 1084, 27 dicembre 2008
felice besostri: noi di sinistra, israele e la palestina
I fatti recenti in Israele/Palestina dalla rottura della tregua alla massiccia e violenta rappresaglia israeliana scuotono sia le piazze del mondo arabo che la coscienza di ciascuno di noi, che ne siamo spettatori senza la possibilità di essere, non dico protagonisti, ma soggetti attivi, cioè in grado di influire, sia pure in forma limitata, sugli avvenimenti.
C’è una differenza fondamentale tra due campi dell’opinione pubblica, che non è quella tra filo-palestinesi e filo-israeliani, bensì tra tutti i filo da un lato e dall’altro tutti coloro che hanno a cuore i due popoli e le singole persone, che li compongono.
Questa divisione è trasversale, ma particolarmente acuta nella sinistra e nelle coscienze individuali, di chi della sinistra fa parte.
C’è una forma sottile dell’antisemitismo, quella per cui gli ebrei – e per traslazione gli israeliani – non solo sono diversi dagli altri, ma lo devono essere nel bene e nel male, anzi più nel male che nel bene.
Agli ebrei e, particolarmente, agli ebrei israeliani non si perdona nulla o si giustifica tutto in nome della loro storia, dalle persecuzioni che hanno patito alle esigenze di sicurezza.
La sicurezza per gli israeliani non è semplicemente essere al riparo dalle violenze del terrorismo, ma garanzia di potere sopravvivere come popolo e come Stato in quell’area del Medio-Oriente.
I palestinesi, come ogni popolo della terra, hanno diritto alla loro identità ed all’autodeterminazione, allo sviluppo ed alla dignità collettiva ed individuale: in tutta la Palestina, ma soprattutto nella Striscia di Gaza, non ne possono godere.
Il dramma, che allo stato appare insuperabile, è che le reciproche esigenze non possano essere soddisfatte, che con la negazione totale e radicale dell’altro.
Per Hamas la creazione di uno Stato Palestinese richiede l’annientamento dell’”entità sionista” e lo stato futuro dovrebbe essere retto dalla sharia: uno stato dove non ci sarà spazio per gli israeliani ma neppure per gli arabi cristiani.
Per settori israeliani l’unica sicurezza concepibile consiste non solo nell’erezione di muri invalicabili, ma nella deportazione fuori dai confini di Israele della popolazione araba, compresa quella araba di nazionalità israeliana: una sicurezza ossessiva troppo simile ad un’ideologia totalizzante, come la purezza della razza.
Se il dilemma è questo, dobbiamo confessare la nostra impotenza e quindi schierarsi da una parte o dall’altra.
Questa scelta di campo significa anche non poter andare troppo nel sottile nel scegliersi la compagnia. Per tutti quelli che comunque ritengono intollerabile la scomparsa di Israele e l’annientamento del suo popolo, stare in compagnia di ex o post-fascisti di recente convertiti alla causa di Israele.
Per chi è preoccupato delle sorti del popolo di Palestina essere complice del fanatismo integralista, dei terroristi e nel migliore dei casi tacere sul regime iraniano.
Per chi ha coscienza non si può rimanere indifferenti rispetto all’umiliazione quotidiana dei palestinesi ed alle vittime civili delle rappresaglie israeliane, che non si possono liquidare come effetti collaterali, un prezzo comunque da pagare, come delle vittime israeliane dei kamikaze e delle loro bombe sugli autobus, nei mercati e nei luoghi di ritrovo.
L’indifferenza non si può giustificare con il fatto che gli avvenimenti sono visibili in presa diretta e perciò vissuti come manipolazione dell’opinione pubblica.
Al Jazeera ha allestito un secondo canale esclusivamente dedicato alle rappresaglie israeliane e alle vittime palestinesi con l’effetto di moltiplicare la collera delle masse arabe in contrasto con l’inerzia dei loro governi.
Cosa cambia rispetto ai fatti che non abbiamo gli stessi reportage dei massacri nel Sud Sudan o che i genocidi del Ruanda sono stati perpetrati lontano dalle telecamere?
Il fatto grave è la copertura mediatica del conflitto israelo-palestinese o non, piuttosto, che in questo nostro villaggio globale le violenze in altre parti del mondo non abbiano, non possano avere o non interessa avere una copertura mediatica?
Fossimo soltanto degli impassibili analisti potremmo ridurre l’impatto emotivo contestualizzando i sanguinosi avvenimenti: ci saranno le elezioni in Israele e la strategia di Hamas è dettata non dalla dirigenza locale, bensì da quella in esilio e pertanto sotto l’influenza, se non il controllo, degli Hezbollah libanesi e dei loro patron siriani e libanesi. Sono cose ovvie, ma non riducono il dolore delle madri delle vittime o la disperazione dei sopravvissuti alla distruzione delle proprie case o dei familiari di chi è stato colpito da un razzo Qassam.
La protesta degli amici di Israele contro la sproporzione della reazione militare potrebbe essere più forte ed influente, se gli amici dei palestinesi non tacessero sui lanci dei razzi, sulla detenzione del sergente Shalit, diventata uno spettacolo teatrale, sugli atti di terrorismo, sui massacri di prigionieri o sulle esecuzioni sommarie di presunti collaboratori, per non fare che alcuni esempi, o sulla mancanza di libertà civili e sulla corruzione delle autorità politiche ed amministrative palestinesi o sulle manifestazioni di giubilo ogni volta che vi siano vittime israeliane o di ebrei, anche al di fuori della zona di conflitto.
Chi crede nella possibilità,per quanto remota, di una futura possibile convivenza ed uno sviluppo economico e sociale in Israele e Palestina, che soltanto la pace o una tregua duratura possono garantire, deve continuare a testimoniare.
L’alternativa è tacere e, perciò, richiudersi nelle proprie contraddizioni, in altre parole abdicare, cioè rinunciare alle proprie idee di libertà e giustizia.
Questo prezzo non dobbiamo essere disposti a pagarlo, tanto più ora in questi drammatici momenti.
Felice Besostri
C’è una differenza fondamentale tra due campi dell’opinione pubblica, che non è quella tra filo-palestinesi e filo-israeliani, bensì tra tutti i filo da un lato e dall’altro tutti coloro che hanno a cuore i due popoli e le singole persone, che li compongono.
Questa divisione è trasversale, ma particolarmente acuta nella sinistra e nelle coscienze individuali, di chi della sinistra fa parte.
C’è una forma sottile dell’antisemitismo, quella per cui gli ebrei – e per traslazione gli israeliani – non solo sono diversi dagli altri, ma lo devono essere nel bene e nel male, anzi più nel male che nel bene.
Agli ebrei e, particolarmente, agli ebrei israeliani non si perdona nulla o si giustifica tutto in nome della loro storia, dalle persecuzioni che hanno patito alle esigenze di sicurezza.
La sicurezza per gli israeliani non è semplicemente essere al riparo dalle violenze del terrorismo, ma garanzia di potere sopravvivere come popolo e come Stato in quell’area del Medio-Oriente.
I palestinesi, come ogni popolo della terra, hanno diritto alla loro identità ed all’autodeterminazione, allo sviluppo ed alla dignità collettiva ed individuale: in tutta la Palestina, ma soprattutto nella Striscia di Gaza, non ne possono godere.
Il dramma, che allo stato appare insuperabile, è che le reciproche esigenze non possano essere soddisfatte, che con la negazione totale e radicale dell’altro.
Per Hamas la creazione di uno Stato Palestinese richiede l’annientamento dell’”entità sionista” e lo stato futuro dovrebbe essere retto dalla sharia: uno stato dove non ci sarà spazio per gli israeliani ma neppure per gli arabi cristiani.
Per settori israeliani l’unica sicurezza concepibile consiste non solo nell’erezione di muri invalicabili, ma nella deportazione fuori dai confini di Israele della popolazione araba, compresa quella araba di nazionalità israeliana: una sicurezza ossessiva troppo simile ad un’ideologia totalizzante, come la purezza della razza.
Se il dilemma è questo, dobbiamo confessare la nostra impotenza e quindi schierarsi da una parte o dall’altra.
Questa scelta di campo significa anche non poter andare troppo nel sottile nel scegliersi la compagnia. Per tutti quelli che comunque ritengono intollerabile la scomparsa di Israele e l’annientamento del suo popolo, stare in compagnia di ex o post-fascisti di recente convertiti alla causa di Israele.
Per chi è preoccupato delle sorti del popolo di Palestina essere complice del fanatismo integralista, dei terroristi e nel migliore dei casi tacere sul regime iraniano.
Per chi ha coscienza non si può rimanere indifferenti rispetto all’umiliazione quotidiana dei palestinesi ed alle vittime civili delle rappresaglie israeliane, che non si possono liquidare come effetti collaterali, un prezzo comunque da pagare, come delle vittime israeliane dei kamikaze e delle loro bombe sugli autobus, nei mercati e nei luoghi di ritrovo.
L’indifferenza non si può giustificare con il fatto che gli avvenimenti sono visibili in presa diretta e perciò vissuti come manipolazione dell’opinione pubblica.
Al Jazeera ha allestito un secondo canale esclusivamente dedicato alle rappresaglie israeliane e alle vittime palestinesi con l’effetto di moltiplicare la collera delle masse arabe in contrasto con l’inerzia dei loro governi.
Cosa cambia rispetto ai fatti che non abbiamo gli stessi reportage dei massacri nel Sud Sudan o che i genocidi del Ruanda sono stati perpetrati lontano dalle telecamere?
Il fatto grave è la copertura mediatica del conflitto israelo-palestinese o non, piuttosto, che in questo nostro villaggio globale le violenze in altre parti del mondo non abbiano, non possano avere o non interessa avere una copertura mediatica?
Fossimo soltanto degli impassibili analisti potremmo ridurre l’impatto emotivo contestualizzando i sanguinosi avvenimenti: ci saranno le elezioni in Israele e la strategia di Hamas è dettata non dalla dirigenza locale, bensì da quella in esilio e pertanto sotto l’influenza, se non il controllo, degli Hezbollah libanesi e dei loro patron siriani e libanesi. Sono cose ovvie, ma non riducono il dolore delle madri delle vittime o la disperazione dei sopravvissuti alla distruzione delle proprie case o dei familiari di chi è stato colpito da un razzo Qassam.
La protesta degli amici di Israele contro la sproporzione della reazione militare potrebbe essere più forte ed influente, se gli amici dei palestinesi non tacessero sui lanci dei razzi, sulla detenzione del sergente Shalit, diventata uno spettacolo teatrale, sugli atti di terrorismo, sui massacri di prigionieri o sulle esecuzioni sommarie di presunti collaboratori, per non fare che alcuni esempi, o sulla mancanza di libertà civili e sulla corruzione delle autorità politiche ed amministrative palestinesi o sulle manifestazioni di giubilo ogni volta che vi siano vittime israeliane o di ebrei, anche al di fuori della zona di conflitto.
Chi crede nella possibilità,per quanto remota, di una futura possibile convivenza ed uno sviluppo economico e sociale in Israele e Palestina, che soltanto la pace o una tregua duratura possono garantire, deve continuare a testimoniare.
L’alternativa è tacere e, perciò, richiudersi nelle proprie contraddizioni, in altre parole abdicare, cioè rinunciare alle proprie idee di libertà e giustizia.
Questo prezzo non dobbiamo essere disposti a pagarlo, tanto più ora in questi drammatici momenti.
Felice Besostri
lunedì 29 dicembre 2008
felice besostri: due semplici proposte
dal sito dell'avvenire dei lavoratori
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Due proposte semplici
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Occorre colpire le oligarchie dirigenti dei partiti e la casta dei politici che lucrano sull'antipolitica
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di Felice Besostri
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In Abruzzo la partecipazione elettorale è stata di poco superiore alla maggioranza assoluta degli aventi diritto.
Se, però, fosse stata anche inferiore al 50% non sarebbe successo nulla, si sarebbe comunque rinnovato l’intero Consiglio Regionale e sarebbe stato eletto un Presidente della Regione.
In un certo senso per i partiti ed i loro candidati meno elettori partecipano, meno voti servono per essere eletti o vincere le elezioni.
Non è così per le amministrazioni comunali, nelle quali, grazie all’art. 71 c. 10 del D.Lgs. 267/2000, in caso di partecipazione inferiore al 50% degli aventi diritto impone di ripetere le elezioni, nel caso di una sola lista ammessa. Per le liste bloccate vi è la stessa mancanza di libertà di scelta degli elettori.
Bisogna dar peso e voce agli astenuti e alle schede bianche, prevedendo anche per le elezioni provinciali e regionali un quorum minimo di partecipazione, anche nel caso di più liste concorrenti, con l’obbligo di reindire le elezioni, con esclusione dei candidati alla Presidenza e dei capilista.
Non si obietti con l’argomento del costo di nuove elezioni: avere una classe politica che riscuote la fiducia dei cittadini è più importante.
In effetti c’è un’altra soluzione, fissato nel 20% una percentuale fisiologica di astensione, una percentuale maggiore di non votanti comporta una proporzionale riduzione degli eleggibili.
Non c’è altro modo per colpire le oligarchie dirigenti dei partiti e la casta dei politici: ci sarebbe una spinta obiettiva a scegliere i migliori candidati e per questi di suscitare entusiasmo e partecipazione dei cittadini.
Una tale norma è tanto più necessaria quanto più si estenderanno le liste bloccate. Se i cittadini non possono scegliersi i propri rappresentanti, che almeno possano mandare a casa quelli scelti in base a pure logiche di partito o clientelari.
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Due proposte semplici
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Occorre colpire le oligarchie dirigenti dei partiti e la casta dei politici che lucrano sull'antipolitica
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di Felice Besostri
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In Abruzzo la partecipazione elettorale è stata di poco superiore alla maggioranza assoluta degli aventi diritto.
Se, però, fosse stata anche inferiore al 50% non sarebbe successo nulla, si sarebbe comunque rinnovato l’intero Consiglio Regionale e sarebbe stato eletto un Presidente della Regione.
In un certo senso per i partiti ed i loro candidati meno elettori partecipano, meno voti servono per essere eletti o vincere le elezioni.
Non è così per le amministrazioni comunali, nelle quali, grazie all’art. 71 c. 10 del D.Lgs. 267/2000, in caso di partecipazione inferiore al 50% degli aventi diritto impone di ripetere le elezioni, nel caso di una sola lista ammessa. Per le liste bloccate vi è la stessa mancanza di libertà di scelta degli elettori.
Bisogna dar peso e voce agli astenuti e alle schede bianche, prevedendo anche per le elezioni provinciali e regionali un quorum minimo di partecipazione, anche nel caso di più liste concorrenti, con l’obbligo di reindire le elezioni, con esclusione dei candidati alla Presidenza e dei capilista.
Non si obietti con l’argomento del costo di nuove elezioni: avere una classe politica che riscuote la fiducia dei cittadini è più importante.
In effetti c’è un’altra soluzione, fissato nel 20% una percentuale fisiologica di astensione, una percentuale maggiore di non votanti comporta una proporzionale riduzione degli eleggibili.
Non c’è altro modo per colpire le oligarchie dirigenti dei partiti e la casta dei politici: ci sarebbe una spinta obiettiva a scegliere i migliori candidati e per questi di suscitare entusiasmo e partecipazione dei cittadini.
Una tale norma è tanto più necessaria quanto più si estenderanno le liste bloccate. Se i cittadini non possono scegliersi i propri rappresentanti, che almeno possano mandare a casa quelli scelti in base a pure logiche di partito o clientelari.
Francesco Maria Mariotti: Gaza, la guerra impossibile
Dal Mondi e politica
Come sempre più spesso accade in Medio Oriente - ma è cosa che riguarda altre guerre più o meno "asimmetriche" che gli stati democratici (e non) tentano di combattere contro il terrorismo (anche se dicendo così metto insieme situazioni molto diverse fra loro) - l'attacco di Israele contro Hamas si configura come una guerra al tempo stesso inevitabile, ma impossibile a vincersi.
Probabilmente si ripresenterà uno scenario "simile" a quello della guerra in Libano: l'obiettivo più ambizioso non verrà raggiunto e "in corso d'opera" la politica riprenderà i suoi spazi, costretta dalla violenta impotenza delle armi, impotenza aiutata dalla non chiarezza di fondo sulla strategia di medio-lungo periodo e dal "periodo di transizione" che molti attori - in primis gli USA - stanno vivendo.
Ma è troppo facile parlare in queste ore, e preferisco lasciare spazio ad analisi più ampie e dettagliate che trovate anche sul blog (oltre a link a cartine dettagliate e all'intervista al TG1 di Tzipi Livni, ministro degli esteri di Israele).
Fra gli articoli comparsi oggi, Mondi e Politiche segnala e riporta in questa mail la riflessione sempre lucida di Boris Biancheri, dalla Stampa.
Spero che aiuti a comprendere, prima ancora che a giudicare.
Grazie
Francesco Maria Mariotti
http://mondiepolitiche.ilcannocchiale.it/
29/12/2008 - La Stampa - La novità può venire dal Cairo, di BORIS BIANCHERI
(http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=5415&ID_sezione=&sezione=)
Siamo talmente abituati all'insorgenza inaspettata di una crisi nella precaria convivenza tra israeliani e palestinesi, di un gesto che spazza via le laboriose speranze di dialogo e di pace o di un evento che fa temere di essere giunti ormai alle soglie di una guerra guerreggiata, che gli sviluppi drammatici di questi giorni, la ripresa dei lanci dei razzi Qassam contro Israele e la durissima reazione militare che ne è seguita, sembrano in fondo una ripetizione di quanto è già avvenuto in passato. Viene da pensare che a questa ennesima crisi farà seguito un ennesimo ritorno indietro. Tutte le diplomazie dei Paesi non direttamente coinvolti (e anche quelle di alcuni Paesi che si considerano coinvolti) invocano come prima cosa l'arresto della spirale di azioni e reazioni e il ritorno allo statu quo, per fragile che fosse. E forse sarà così.
Ma può darsi invece che questa crisi sia diversa e che allo statu quo, per un verso o per l'altro, non si torni. Intanto, è da dire che tre protagonisti di questo gioco sanguinoso sono alle soglie di una prova elettorale che dovrà confermare o rigettare la loro posizione al potere. Così è per Israele, dove la successione di Olmert apre prospettive incerte nel complicato schieramento delle forze politiche israeliane.
Il governo attuale non è responsabile della rottura della tregua, ma si è assunto la responsabilità di una reazione durissima. Le parole del bellicoso ministro Barak - «Siamo solo agli inizi» - sembrano destinate a mobilitare l'opinione pubblica interna, non certo a piacere a quella internazionale. I razzi Qassam, ancor più degli attacchi suicidi, sono la sola arma che eluda l'efficienza del sistema difensivo di Gerusalemme: Gaza in mano a Hamas è un rischio permanente, tregua o non tregua, per Israele meridionale; i conservatori, oggi ancor più di ieri, appoggiano chi fa di tutto per prevenirlo.
Anche Abu Mazen è alle soglie di una prova elettorale. Abbiamo visto negli ultimi tempi come, nella Cisgiordania sotto il suo controllo, le condizioni generali di vita della popolazione siano migliorate, grazie anche a un clima più costruttivo e ad aiuti internazionali. Il contrasto con la miseria di Gaza sovraffollata, retta da Hamas senza ordine e senza risorse, salta agli occhi di ogni palestinese. Che Hamas cerchi di contrastare i relativi successi di Abu Mazen in Cisgiordania e che, per farlo, sia disposto a rischiare perfino un ritorno degli israeliani nella Striscia di Gaza, non può sorprendere. Il terrorismo sa bene come sopravvivere anche alle occupazioni militari.
Infine, anche Ahmadinejad ha, a scadenza più lontana, un test elettorale che non può darsi per scontato. Per lui, profeta non della sconfitta ma della distruzione di Israele, ogni soluzione pacifica è inaccettabile. Una situazione di conflitto permanente, quale si è avuta per decenni, congiunta agli errori americani in Iraq, ha permesso all'Iran di essere sinora il solo vincente in questa eterna crisi mediorientale. Che la Palestina vada a ferro e fuoco non lo danneggerebbe e certo non smentirebbe le sue apocalittiche previsioni. Abbiamo così tre parti, ognuna delle quali, oltre a cercare di vincere la posta con gli avversari, deve difendersi alle spalle. Non certo le condizioni ideali per qualsiasi forma di compromesso.
C'è però un elemento di relativa novità, che sembra trapelare dalle dichiarazioni di taluni leader arabi, che suonano meno violente nei confronti di Israele di quanto i duecento morti e i quasi mille feriti dei raid delle forze israeliane potrebbero giustificare. Le riserve di alcuni governi islamici, soprattutto dell'Egitto, nei confronti di Hamas non sono beninteso cosa nuova. In più di una occasione Il Cairo aveva mostrato, anche recentemente, una tendenza a cercare soluzioni realistiche, di allargare, per esempio, i termini della tregua, di risollevare l'argomento del dialogo di pace, di comporre i dissidi interni tra palestinesi convocandone tutte le componenti politiche, senza peraltro ottenere la partecipazione di Hamas. Anche la conferenza stampa congiunta di ieri di Abu Mazen con il ministro degli Esteri egiziano è parsa meno dura nei confronti di Israele di quanto ci si sarebbe potuti attendere.
È presto per dire se i vertici dei Paesi arabi moderati intendono realmente fare un passo avanti verso una soluzione duratura del problema israelo-palestinese. La prossima riunione della Lega Araba darà forse indicazioni a questo riguardo. Intanto ce ne vengono da Gheddafi, il solo che minaccia fin da ora, senza sorprendere nessuno, il ferro e il fuoco delle sue parole. Certo, in questi giorni in cui le piazze islamiche si riempiono di manifestanti contro Israele, alcuni portaparola ufficiali del Cairo e del Golfo sono apparsi molto cauti. E non è un caso che un sondaggio popolare, fatto da Al Jazeera tra i suoi ascoltatori islamici, riveli una diffusa convinzione che la dura reazione israeliana sia stata incoraggiata sotto banco proprio da quei governi che avrebbero dovuto osteggiarla.
Come sempre più spesso accade in Medio Oriente - ma è cosa che riguarda altre guerre più o meno "asimmetriche" che gli stati democratici (e non) tentano di combattere contro il terrorismo (anche se dicendo così metto insieme situazioni molto diverse fra loro) - l'attacco di Israele contro Hamas si configura come una guerra al tempo stesso inevitabile, ma impossibile a vincersi.
Probabilmente si ripresenterà uno scenario "simile" a quello della guerra in Libano: l'obiettivo più ambizioso non verrà raggiunto e "in corso d'opera" la politica riprenderà i suoi spazi, costretta dalla violenta impotenza delle armi, impotenza aiutata dalla non chiarezza di fondo sulla strategia di medio-lungo periodo e dal "periodo di transizione" che molti attori - in primis gli USA - stanno vivendo.
Ma è troppo facile parlare in queste ore, e preferisco lasciare spazio ad analisi più ampie e dettagliate che trovate anche sul blog (oltre a link a cartine dettagliate e all'intervista al TG1 di Tzipi Livni, ministro degli esteri di Israele).
Fra gli articoli comparsi oggi, Mondi e Politiche segnala e riporta in questa mail la riflessione sempre lucida di Boris Biancheri, dalla Stampa.
Spero che aiuti a comprendere, prima ancora che a giudicare.
Grazie
Francesco Maria Mariotti
http://mondiepolitiche.ilcannocchiale.it/
29/12/2008 - La Stampa - La novità può venire dal Cairo, di BORIS BIANCHERI
(http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=5415&ID_sezione=&sezione=)
Siamo talmente abituati all'insorgenza inaspettata di una crisi nella precaria convivenza tra israeliani e palestinesi, di un gesto che spazza via le laboriose speranze di dialogo e di pace o di un evento che fa temere di essere giunti ormai alle soglie di una guerra guerreggiata, che gli sviluppi drammatici di questi giorni, la ripresa dei lanci dei razzi Qassam contro Israele e la durissima reazione militare che ne è seguita, sembrano in fondo una ripetizione di quanto è già avvenuto in passato. Viene da pensare che a questa ennesima crisi farà seguito un ennesimo ritorno indietro. Tutte le diplomazie dei Paesi non direttamente coinvolti (e anche quelle di alcuni Paesi che si considerano coinvolti) invocano come prima cosa l'arresto della spirale di azioni e reazioni e il ritorno allo statu quo, per fragile che fosse. E forse sarà così.
Ma può darsi invece che questa crisi sia diversa e che allo statu quo, per un verso o per l'altro, non si torni. Intanto, è da dire che tre protagonisti di questo gioco sanguinoso sono alle soglie di una prova elettorale che dovrà confermare o rigettare la loro posizione al potere. Così è per Israele, dove la successione di Olmert apre prospettive incerte nel complicato schieramento delle forze politiche israeliane.
Il governo attuale non è responsabile della rottura della tregua, ma si è assunto la responsabilità di una reazione durissima. Le parole del bellicoso ministro Barak - «Siamo solo agli inizi» - sembrano destinate a mobilitare l'opinione pubblica interna, non certo a piacere a quella internazionale. I razzi Qassam, ancor più degli attacchi suicidi, sono la sola arma che eluda l'efficienza del sistema difensivo di Gerusalemme: Gaza in mano a Hamas è un rischio permanente, tregua o non tregua, per Israele meridionale; i conservatori, oggi ancor più di ieri, appoggiano chi fa di tutto per prevenirlo.
Anche Abu Mazen è alle soglie di una prova elettorale. Abbiamo visto negli ultimi tempi come, nella Cisgiordania sotto il suo controllo, le condizioni generali di vita della popolazione siano migliorate, grazie anche a un clima più costruttivo e ad aiuti internazionali. Il contrasto con la miseria di Gaza sovraffollata, retta da Hamas senza ordine e senza risorse, salta agli occhi di ogni palestinese. Che Hamas cerchi di contrastare i relativi successi di Abu Mazen in Cisgiordania e che, per farlo, sia disposto a rischiare perfino un ritorno degli israeliani nella Striscia di Gaza, non può sorprendere. Il terrorismo sa bene come sopravvivere anche alle occupazioni militari.
Infine, anche Ahmadinejad ha, a scadenza più lontana, un test elettorale che non può darsi per scontato. Per lui, profeta non della sconfitta ma della distruzione di Israele, ogni soluzione pacifica è inaccettabile. Una situazione di conflitto permanente, quale si è avuta per decenni, congiunta agli errori americani in Iraq, ha permesso all'Iran di essere sinora il solo vincente in questa eterna crisi mediorientale. Che la Palestina vada a ferro e fuoco non lo danneggerebbe e certo non smentirebbe le sue apocalittiche previsioni. Abbiamo così tre parti, ognuna delle quali, oltre a cercare di vincere la posta con gli avversari, deve difendersi alle spalle. Non certo le condizioni ideali per qualsiasi forma di compromesso.
C'è però un elemento di relativa novità, che sembra trapelare dalle dichiarazioni di taluni leader arabi, che suonano meno violente nei confronti di Israele di quanto i duecento morti e i quasi mille feriti dei raid delle forze israeliane potrebbero giustificare. Le riserve di alcuni governi islamici, soprattutto dell'Egitto, nei confronti di Hamas non sono beninteso cosa nuova. In più di una occasione Il Cairo aveva mostrato, anche recentemente, una tendenza a cercare soluzioni realistiche, di allargare, per esempio, i termini della tregua, di risollevare l'argomento del dialogo di pace, di comporre i dissidi interni tra palestinesi convocandone tutte le componenti politiche, senza peraltro ottenere la partecipazione di Hamas. Anche la conferenza stampa congiunta di ieri di Abu Mazen con il ministro degli Esteri egiziano è parsa meno dura nei confronti di Israele di quanto ci si sarebbe potuti attendere.
È presto per dire se i vertici dei Paesi arabi moderati intendono realmente fare un passo avanti verso una soluzione duratura del problema israelo-palestinese. La prossima riunione della Lega Araba darà forse indicazioni a questo riguardo. Intanto ce ne vengono da Gheddafi, il solo che minaccia fin da ora, senza sorprendere nessuno, il ferro e il fuoco delle sue parole. Certo, in questi giorni in cui le piazze islamiche si riempiono di manifestanti contro Israele, alcuni portaparola ufficiali del Cairo e del Golfo sono apparsi molto cauti. E non è un caso che un sondaggio popolare, fatto da Al Jazeera tra i suoi ascoltatori islamici, riveli una diffusa convinzione che la dura reazione israeliana sia stata incoraggiata sotto banco proprio da quei governi che avrebbero dovuto osteggiarla.
Angelo d'Orsi: il cupio dissolvi della sinistra
da micromega
"Cattivi maestri" di Angelo d'Orsi
26.12.08 - Il cupio dissolvi della sinistra uguale alla destra
Quando, non di frequente (ma solo per timore di importunarlo e di rubargli tempo), negli ultimi suoi anni, mi recavo in visita dal mio maestro Norberto Bobbio, e si conversava di tutto, specialmente di politica, sempre, a un certo punto, scuoteva la testa e mormorava sconsolato: “Non c’è niente da fare. L’Italia è un Paese di destra, di destra, di destra…”. Si fermava e poi riprendeva, dando corso e al suo pessimismo cosmico-storico, aggravato da una lucida considerazione sui tempi presenti; e, infine, sempre, concludeva, affranto: “Non c’è speranza, non c’è speranza…”. E si accasciava sulla vecchia poltrona di cuoio, quasi a voler far capire anche col corpo la propria perdita di fiducia negli italiani, e nelle loro capacità di capire e di agire di conseguenza.
Erano incontri sempre più deprimenti con il trascorrere del tempo: la cupezza della vecchiaia – con la scomparsa ad uno ad uno di parenti e amici (e da ultimo l’amatissima moglie) – si incrociava con lo sconforto che egli provava in un Paese nel quale ormai si sentiva estraneo, e spesso, cittadino non gradito. Per fortuna sono vecchio, aggiungeva talora. “Ma per voi, per i vostri figli? Come farete, in un Paese così?”.
Già, come faremo, in un Paese così? come stiamo facendo, in questo Paese? Come possiamo fare finta di niente, davanti a una situazione che sembra essere quella, classica, della “servitù volontaria”? Stiamo andando verso una vera e propria dittatura di un uomo solo, e ne appariamo quasi contenti; una maggioranza probabilmente schiacciante di nostri concittadini (72%, ipse dixit; e anche se non fosse vero, appare verosimile, per quanto agghiacciante), sembra nella pratica quotidiana, un misto di indifferenza alla cosa pubblica (il “che me frega?”, eternamente italiota) e di insofferenza per la politica (“non mi occupo di politica”: lo dicono persino studenti di Scienze Politiche!), fa sì che di politica e di amministrazione e di potere si occupino soltanto “loro”.
A cominciare da LUI, lui, il nuovo salvatore della Patria, il nuovo edificatore delle magnifiche sorti e progressive di un Paese che, forse, davvero, non può che meritarsi i Berlusconi, dopo i Mussolini e i Craxi. C’è sempre un Gelli di turno, peraltro, nell’ombra che manovra, coordina, dirige. Finora ci hanno tenuto a bada con quel formidabile mix di calciatori e veline, che si è rivelato l’arma più potente per tenere il Paese in pugno: siamo stati paghi di ammirare gli uni, di desiderare le altre. Milioni di connazionali vivono una perfetta doppia realtà: il sogno di quel che non sono e che non hanno, la proiezione verso quel che non possono essere né possono avere, da un canto; e, dall’altro, il brontolio su tutta la vita vera, un brontolio discorde e vano, un dir male di tutti, a casaccio, per dare una giustificazione a esistenze scontente. Qualunquismo. Al quale il populismo calcio-mediatico ha fornito una risposta efficace. E la morale è questa: la politica è complicata, è noiosa, è, soprattutto, sporca. Ce ne occuperemo noi, cari italiani, carissime italiane. Voi pensate a consumare. E a produrre. E ancora a consumare. La ricetta è talmente consolidata che l’Unto ha pensato addirittura di proporla come rimedio a una delle crisi economico-finanziarie più gravi della storia del capitalismo. Rivelando la propria miseria morale, prima che mentale. E forse, su questo, sta inciampando. E il suo 72% (auspicio, o previsione?) diverrà presto un bel ricordo.
Ma non possiamo solo centrare su di lui, il discorso critico. Va detto che tutti noi, noi, cittadini del Bel Paese, ci stiamo assuefacendo a un ceto politico di persone mediocrissime, nel migliore dei casi, sul piano della capacità tattica (sul piano strategico siamo a zero, o poco più), e disinvolti nel maneggiare denaro pubblico o nel far transitare denaro, sia pubblico, sia privato, nelle casse dei loro partiti, quando non nelle proprie. Un ceto politico aduso, nella sua larga maggioranza, alle perverse logiche dello scambio, privo di qualsiasi idealità, che non ha onta della propria spaventosa ignoranza della storia, della filosofia, del diritto, dell’economia. Un ceto politico largamente intercambiabile dalla destra alla “sinistra”, o a quel frammentato, e dilaniato, mondo che ne rimane. Il solo interrogativo che rimane, e Bobbio lo porrebbe, ma che cosa li distingue?
Cosa differenzia oggi la destra dalla sinistra? Aveva scritto una volta Giorgio Galli che quando la situazione politica è confusa, è difficile distinguere destra da sinistra. Oggi non è confusa. Oggi è irrimediabile. Oggi capire cos’è destra e cos’è sinistra metterebbe in difficoltà Bobbio che all’analisi della distinzione concettuale tra le due parti dell’azione politica ha dedicato una buona parte della sua riflessione. Tornano alle labbra i versi cantati dal compianto Giorgio Gaber: “Ma cos’è la destra, ma cos’è la sinistra?”…
Come si spiega che oggi vengano considerati di sinistra, un Di Pietro o un Marco Travaglio, dopo che Montanelli fu addirittura “adottato” a sinistra? Come si spiega che la difesa della legalità sia bollata con il marchio che vorrebbe essere infamante di “giustizialismo”, e considerata una manifestazione dell’eterno comunismo? Come si spiega che Walter Veltroni dica che lui, comunista, a dire il vero, non lo è mai stato? E che il suo modello è kennediano…!? E che Gramsci non gli appartiene? (Deo gratias!). Come si spiega che nessuno dei “postcomunisti”, transitati nell’informe PD, mai facciano un riferimento alla storia e alla tradizione del PCI, come se se ne vergognassero? (Il più grande Partito Comunista dell’Occidente, debbo ricordare; il vero protagonista assoluto della Resistenza; l’artefice primo della costruzione e della difesa della democrazia italiana). Come si spiega che la contesa Veltroni/D’Alema riveli una comune pochezza di visioni politiche che li rende sostanzialmente intercambiabili, al di là delle bislacche formule escogitate per differenziarsi? Come si spiega che “compagni” che hanno lavorato gomito a gomito per anni dentro un partito dichiaratemene comunista (il PRC) si scoprano avversari, anzi nemici, e passino il tempo (ormai otto mesi circa), a ingiuriarsi pesantemente, a tessere trame delegittimanti gli uni verso gli altri? Come si spiega che un autorevole dalemiano suggerisca a un avversario politico il modo migliore per fregare i “dipietristi” nella famigerata Commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai? Come si spiega che un esponente governativo sia pappa e ciccia non solo con un imprenditore chiacchierato al punto da essere (finalmente) messo agli arresti, ma con i suoi “colleghi” di Centrosinistra? Tutti dandosi un gran daffare per favorire “l’amico”, in cambio di tangenti, impedendo la libera concorrenza, turbando le aste d’appalto, disegnando scenari predatori. Come si spiega, che una serie di amministratori locali di area ex-DS e Margherita (creatura ectoplasmatica fondata sulla falsificazione delle iscrizioni), si siano lasciati coinvolgere in poco limpide (a dir poco) vicende di affarismo, che spesso vanno ben al di là del semplice illecito?
Ebbene, ammettiamolo, ha ragione la polemica della destra, quando afferma che la “diversità” della sinistra è finita. Rimane una differenza quantitativa, ma non più qualitativa. In percentuale in fatto di malaffare la destra è solidamente al comando. Però la sinistra insegue, e talora dà l’impressione di voler raggiungere la concorrente. I suoi esponenti, in larga parte, si sono adattati e omologati al sistema della corruzione. Mani Pulite è stata una rivoluzione sconfitta. Ma è sul terreno della lotta per la legalità che la sinistra può risorgere dalle sue ceneri? Su quello della correttezza amministrativa? E i grandi valori? L’uguaglianza? La pace? La fraternité?
Non posso confrontarmi con Bobbio, su questi interrogativi, drammatici per chi come il sottoscritto assiste sgomento al disfacimento della sinistra, in una sorta di generale cupio dissolvi che non sembra davvero lasciare spazio alla speranza. Per ora, li lascio, insoluti, ai lettori. A loro chiedo lumi. Umilmente. In fondo, è Natale. Siano buoni. Mi forniscano spunti d’analisi, proposte, critiche. Cercherò di elaborarle. E ritornerò sul tema. Come la sinistra può rinascere? E cosa oggi può distinguerla, fermamente, dalla destra?
"Cattivi maestri" di Angelo d'Orsi
26.12.08 - Il cupio dissolvi della sinistra uguale alla destra
Quando, non di frequente (ma solo per timore di importunarlo e di rubargli tempo), negli ultimi suoi anni, mi recavo in visita dal mio maestro Norberto Bobbio, e si conversava di tutto, specialmente di politica, sempre, a un certo punto, scuoteva la testa e mormorava sconsolato: “Non c’è niente da fare. L’Italia è un Paese di destra, di destra, di destra…”. Si fermava e poi riprendeva, dando corso e al suo pessimismo cosmico-storico, aggravato da una lucida considerazione sui tempi presenti; e, infine, sempre, concludeva, affranto: “Non c’è speranza, non c’è speranza…”. E si accasciava sulla vecchia poltrona di cuoio, quasi a voler far capire anche col corpo la propria perdita di fiducia negli italiani, e nelle loro capacità di capire e di agire di conseguenza.
Erano incontri sempre più deprimenti con il trascorrere del tempo: la cupezza della vecchiaia – con la scomparsa ad uno ad uno di parenti e amici (e da ultimo l’amatissima moglie) – si incrociava con lo sconforto che egli provava in un Paese nel quale ormai si sentiva estraneo, e spesso, cittadino non gradito. Per fortuna sono vecchio, aggiungeva talora. “Ma per voi, per i vostri figli? Come farete, in un Paese così?”.
Già, come faremo, in un Paese così? come stiamo facendo, in questo Paese? Come possiamo fare finta di niente, davanti a una situazione che sembra essere quella, classica, della “servitù volontaria”? Stiamo andando verso una vera e propria dittatura di un uomo solo, e ne appariamo quasi contenti; una maggioranza probabilmente schiacciante di nostri concittadini (72%, ipse dixit; e anche se non fosse vero, appare verosimile, per quanto agghiacciante), sembra nella pratica quotidiana, un misto di indifferenza alla cosa pubblica (il “che me frega?”, eternamente italiota) e di insofferenza per la politica (“non mi occupo di politica”: lo dicono persino studenti di Scienze Politiche!), fa sì che di politica e di amministrazione e di potere si occupino soltanto “loro”.
A cominciare da LUI, lui, il nuovo salvatore della Patria, il nuovo edificatore delle magnifiche sorti e progressive di un Paese che, forse, davvero, non può che meritarsi i Berlusconi, dopo i Mussolini e i Craxi. C’è sempre un Gelli di turno, peraltro, nell’ombra che manovra, coordina, dirige. Finora ci hanno tenuto a bada con quel formidabile mix di calciatori e veline, che si è rivelato l’arma più potente per tenere il Paese in pugno: siamo stati paghi di ammirare gli uni, di desiderare le altre. Milioni di connazionali vivono una perfetta doppia realtà: il sogno di quel che non sono e che non hanno, la proiezione verso quel che non possono essere né possono avere, da un canto; e, dall’altro, il brontolio su tutta la vita vera, un brontolio discorde e vano, un dir male di tutti, a casaccio, per dare una giustificazione a esistenze scontente. Qualunquismo. Al quale il populismo calcio-mediatico ha fornito una risposta efficace. E la morale è questa: la politica è complicata, è noiosa, è, soprattutto, sporca. Ce ne occuperemo noi, cari italiani, carissime italiane. Voi pensate a consumare. E a produrre. E ancora a consumare. La ricetta è talmente consolidata che l’Unto ha pensato addirittura di proporla come rimedio a una delle crisi economico-finanziarie più gravi della storia del capitalismo. Rivelando la propria miseria morale, prima che mentale. E forse, su questo, sta inciampando. E il suo 72% (auspicio, o previsione?) diverrà presto un bel ricordo.
Ma non possiamo solo centrare su di lui, il discorso critico. Va detto che tutti noi, noi, cittadini del Bel Paese, ci stiamo assuefacendo a un ceto politico di persone mediocrissime, nel migliore dei casi, sul piano della capacità tattica (sul piano strategico siamo a zero, o poco più), e disinvolti nel maneggiare denaro pubblico o nel far transitare denaro, sia pubblico, sia privato, nelle casse dei loro partiti, quando non nelle proprie. Un ceto politico aduso, nella sua larga maggioranza, alle perverse logiche dello scambio, privo di qualsiasi idealità, che non ha onta della propria spaventosa ignoranza della storia, della filosofia, del diritto, dell’economia. Un ceto politico largamente intercambiabile dalla destra alla “sinistra”, o a quel frammentato, e dilaniato, mondo che ne rimane. Il solo interrogativo che rimane, e Bobbio lo porrebbe, ma che cosa li distingue?
Cosa differenzia oggi la destra dalla sinistra? Aveva scritto una volta Giorgio Galli che quando la situazione politica è confusa, è difficile distinguere destra da sinistra. Oggi non è confusa. Oggi è irrimediabile. Oggi capire cos’è destra e cos’è sinistra metterebbe in difficoltà Bobbio che all’analisi della distinzione concettuale tra le due parti dell’azione politica ha dedicato una buona parte della sua riflessione. Tornano alle labbra i versi cantati dal compianto Giorgio Gaber: “Ma cos’è la destra, ma cos’è la sinistra?”…
Come si spiega che oggi vengano considerati di sinistra, un Di Pietro o un Marco Travaglio, dopo che Montanelli fu addirittura “adottato” a sinistra? Come si spiega che la difesa della legalità sia bollata con il marchio che vorrebbe essere infamante di “giustizialismo”, e considerata una manifestazione dell’eterno comunismo? Come si spiega che Walter Veltroni dica che lui, comunista, a dire il vero, non lo è mai stato? E che il suo modello è kennediano…!? E che Gramsci non gli appartiene? (Deo gratias!). Come si spiega che nessuno dei “postcomunisti”, transitati nell’informe PD, mai facciano un riferimento alla storia e alla tradizione del PCI, come se se ne vergognassero? (Il più grande Partito Comunista dell’Occidente, debbo ricordare; il vero protagonista assoluto della Resistenza; l’artefice primo della costruzione e della difesa della democrazia italiana). Come si spiega che la contesa Veltroni/D’Alema riveli una comune pochezza di visioni politiche che li rende sostanzialmente intercambiabili, al di là delle bislacche formule escogitate per differenziarsi? Come si spiega che “compagni” che hanno lavorato gomito a gomito per anni dentro un partito dichiaratemene comunista (il PRC) si scoprano avversari, anzi nemici, e passino il tempo (ormai otto mesi circa), a ingiuriarsi pesantemente, a tessere trame delegittimanti gli uni verso gli altri? Come si spiega che un autorevole dalemiano suggerisca a un avversario politico il modo migliore per fregare i “dipietristi” nella famigerata Commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai? Come si spiega che un esponente governativo sia pappa e ciccia non solo con un imprenditore chiacchierato al punto da essere (finalmente) messo agli arresti, ma con i suoi “colleghi” di Centrosinistra? Tutti dandosi un gran daffare per favorire “l’amico”, in cambio di tangenti, impedendo la libera concorrenza, turbando le aste d’appalto, disegnando scenari predatori. Come si spiega, che una serie di amministratori locali di area ex-DS e Margherita (creatura ectoplasmatica fondata sulla falsificazione delle iscrizioni), si siano lasciati coinvolgere in poco limpide (a dir poco) vicende di affarismo, che spesso vanno ben al di là del semplice illecito?
Ebbene, ammettiamolo, ha ragione la polemica della destra, quando afferma che la “diversità” della sinistra è finita. Rimane una differenza quantitativa, ma non più qualitativa. In percentuale in fatto di malaffare la destra è solidamente al comando. Però la sinistra insegue, e talora dà l’impressione di voler raggiungere la concorrente. I suoi esponenti, in larga parte, si sono adattati e omologati al sistema della corruzione. Mani Pulite è stata una rivoluzione sconfitta. Ma è sul terreno della lotta per la legalità che la sinistra può risorgere dalle sue ceneri? Su quello della correttezza amministrativa? E i grandi valori? L’uguaglianza? La pace? La fraternité?
Non posso confrontarmi con Bobbio, su questi interrogativi, drammatici per chi come il sottoscritto assiste sgomento al disfacimento della sinistra, in una sorta di generale cupio dissolvi che non sembra davvero lasciare spazio alla speranza. Per ora, li lascio, insoluti, ai lettori. A loro chiedo lumi. Umilmente. In fondo, è Natale. Siano buoni. Mi forniscano spunti d’analisi, proposte, critiche. Cercherò di elaborarle. E ritornerò sul tema. Come la sinistra può rinascere? E cosa oggi può distinguerla, fermamente, dalla destra?
crescita diseguale, diseguale recessione
Economia e Politica
Oggi 29 dicembre 2008, 10 ore fa
Crescita diseguale, diseguale recessione
Oggi 29 dicembre 2008, 10 ore fa | admin
La disuguaglianza tra ricchi e poveri negli ultimi vent’anni è aumentata in tre quarti dei paesi Ocse. È questa l’evidenza amara che emerge dalle statistiche sulla distribuzione del reddito in oltre 30 paesi pubblicate a fine ottobre dall’Ocse [1]. Della crescita economica degli ultimi vent’anni, in altre parole, hanno beneficiato maggiormente i ricchi piuttosto che i poveri. In alcuni paesi tra cui Stati Uniti e Italia le disuguaglianze tra i redditi e tra i patrimoni si sono inasprite. Nei paesi con maggiore disuguaglianza si è assistito ad un aumento della povertà e a una sensibile diminuzione della mobilità sociale (Stati Uniti, Inghilterra e Italia sono i paesi in cui la mobilità sociale è diminuita maggiormente).
Certo nella dinamica dei redditi ci sono categorie sociali che se la passano meglio di altre. Nella media dei paesi analizzati, infatti, è fortunatamente diminuita la povertà degli anziani mentre è aumentata la povertà dei bambini e degli adulti soli (spesso a seguito di un divorzio o della perdita del lavoro). Nei paesi Ocse i bambini ed i giovani adulti hanno il 25% di probabilità in più di essere poveri rispetto al resto della popolazione. Questi dati sono confermati, per l’Italia, anche dall’Istat che da qualche anno segnala la crescita della povertà tra i minori [2] (si veda anche l’ultimo rapporto del 4 novembre 2008). Dato che, oltre ad essere odioso in sé, si associa a fenomeni di trasmissione intergenerazionale della povertà: le persone giovani in condizioni di povertà genereranno figli poveri i quali, a causa della scarsa mobilità sociale, faranno fatica ad affrancarsi da questa condizione. In altre parole la povertà dei minori è associata all’aumento della povertà tra le famiglie con figli a carico.
Per quanto riguarda in particolare l’Italia, il rapporto rileva che il nostro paese è passato da livelli di disuguaglianza vicini alla media Ocse vent’anni fa, a livelli ben superiori oggi. Siamo infatti il 6° paese sui 30 censiti per livello delle disuguaglianze tra ricchi e poveri. La disuguaglianza tra ricchi e poveri è cresciuta infatti del 33% rispetto alla metà degli anni ‘80 mostrando l’inefficacia delle misure di contrasto alla povertà che pure l’Ocse rileva siano state implementate nell’ultimo ventennio. Il reddito medio del 10% più povero si aggira intorno ai 5.000 dollari (sotto la media Ocse di 7.000), mentre il reddito del 10% più ricco è di 55.000 dollari (leggermente sopra la media degli altri paesi). Ancora più accentuata è la disuguaglianza nei patrimoni (i dati precedenti si riferiscono invece ai redditi, cioè dati di flusso): il 42% della ricchezza totale è detenuta, infatti, dal 10% dei cittadini, mentre “solo” il 28% del reddito totale è ascrivibile allo stesso 10%.
Secondo i ricercatori dell’Ocse in buona misura le crescenti disuguaglianze sono generate dalla trasformazione del mercato del lavoro, con un aumento dei lavoratori a basse qualifiche e di lavoratori poveri. Anche le misure di contrasto alla povertà e i sussidi sociali hanno perso efficacia negli ultimi vent’anni, ragione per cui sarebbe necessario ridisegnarli. In questo scenario si colloca l’attuale crisi finanziaria: è lecito domandarsi se ad una crescita economica così disuguale corrisponderanno effetti disuguali nella recessione, ovvero se la crisi colpirà in proporzione con maggior durezza i redditi più bassi. È questa la domanda che si è posto anche A. Atkinson, uno dei maggiori studiosi europei in materia di distribuzione del reddito e disoccupazione, in un recente scritto [3]. Dipenderà dalle politiche pubbliche che i governi attueranno, è la risposta dello studioso. In prima battuta i Governi si sono comportati da prestatori di ultima istanza, correndo in soccorso delle istituzioni finanziarie in difficoltà e garantendo così, in una certa misura, anche i piccoli risparmiatori. Ma affinché gli effetti della recessione non pesino maggiormente su chi già è in difficoltà è necessario qualcosa di più. Molto dipenderà dalla capacità delle coalizioni di governo di immaginare interventi sociali redistributivi, ancor più efficaci se studiati su scala sovranazionale. Solo nelle settimane più recenti i governi hanno cominciato a varare misure anti crisi (a cominciare dagli Stati Uniti per arrivare in Europa con Francia, Inghilterra e Germania e in Asia con un inedito piano della Cina) che guardino oltre il sistema finanziario. Ma, per quanto riguarda l’Europa, l’idea di un intervento sociale coordinato (se non addirittura sovranazionale) auspicato da Atkinsons è ben lontana dal prendere corpo tra le coalizioni di governo del vecchio continente. Ciascuno farà come e quanto potrà. E così mentre l’Inghilterra pensa ad interventi sull’ordine del 7% del Pil (della stessa dimensione le misure anti crisi della Cina), in Italia si pensa di intervenire muovendo cifre dell’ordine dello 0,3% del prodotto interno lordo che rischiano di essere del tutto inefficaci e frammentarie (ovvero quel poco che si spende è anche mal speso).
Come già segnalato nel rapporto Ocse, le misure di contrasto alla povertà ed i sussidi che non siano orientati a fare “massa critica” (cioè a concentrare più interventi e di diverso tipo verso gli stessi beneficiari, per esempio i disoccupati) rischiano, a parità di spesa, di rivelarsi del tutto inutili. Sembra andare esattamente in questa direzione la misura di sostegno al reddito dei lavoratori parasubordinati (i co.co.pro che non beneficiano di alcun tipo di ammortizzatore sociale) contenuta nel decreto cosiddetto “anticrisi” del 29/11/2008 n. 185. Il provvedimento prevede l’erogazione una tantum del 10% dei compensi percepiti nell’anno precedente (sempre che tali compensi siano compresi tra 5mila e 11.516 euro) a beneficio del collaboratore a progetto (sono così esclusi i collaboratori coordinati e continuativi che ancora esistono nel settore pubblico) che abbia operato in settori o territori definiti in crisi (da un successivo decreto) per almeno tre mesi in regime di monocommittenza e che risulti non avere avuto contributi versati per almeno due mesi. In altre parole i requisiti di accesso alla misura che potrà ammontare al massimo a 1150 euro (il 10% del massimale di reddito) sono lo stato di monocommittenza (non meglio definito: tre contratti con tre diversi committenti l’uno di seguito all’altro come vengono considerati?), il lavoro in collaborazione per almeno tre mesi e per meno di 10, la residenza in aree dichiarate in crisi, lo stato di disoccupazione da almeno 2 mesi. Il decreto nulla dice, inoltre, sulla copertura contributiva della misura.
Un provvedimento così costruito è condannato all’inefficacia sia per l’intensità del contributo (che in media raggiungerà i 700-800 euro, una tantum) che per l’estensione dei beneficiari. Le stime più attendibili [4] parlano di una platea di 10.000 lavoratori contro gli 80.000 previsti dal Governo per un ammontare di spesa vicina agli 8 milioni di euro. Se gli interventi sociali messi in campo dai Governi saranno di questa natura e di questa entità, anche la recessione, così come è stato per la crescita, avrà effetti diseguali in proporzione tra ricchi e poveri. I poveri soffriranno di più.
* L’autrice è ricercatrice presso la Camera del Lavoro di Milano.
[1] Oecd (2008), Growing Unequal?: Income distribution and povertry in Oecd Countries.
[2] Si veda anche l’ultimo rapporto Istat, La povertà relativa in Italia del 4 novembre 2008 (http://www.istat.it/).
[3] A. Atkinson (2008), Unequal growth, unequal recession?, Oecd Observer.
[4] Berton, Richiardi, Sacchi, Indennità ai co.co.pro. Un bel gesto che non impegna, lavoce.info 2008.
Oggi 29 dicembre 2008, 10 ore fa
Crescita diseguale, diseguale recessione
Oggi 29 dicembre 2008, 10 ore fa | admin
La disuguaglianza tra ricchi e poveri negli ultimi vent’anni è aumentata in tre quarti dei paesi Ocse. È questa l’evidenza amara che emerge dalle statistiche sulla distribuzione del reddito in oltre 30 paesi pubblicate a fine ottobre dall’Ocse [1]. Della crescita economica degli ultimi vent’anni, in altre parole, hanno beneficiato maggiormente i ricchi piuttosto che i poveri. In alcuni paesi tra cui Stati Uniti e Italia le disuguaglianze tra i redditi e tra i patrimoni si sono inasprite. Nei paesi con maggiore disuguaglianza si è assistito ad un aumento della povertà e a una sensibile diminuzione della mobilità sociale (Stati Uniti, Inghilterra e Italia sono i paesi in cui la mobilità sociale è diminuita maggiormente).
Certo nella dinamica dei redditi ci sono categorie sociali che se la passano meglio di altre. Nella media dei paesi analizzati, infatti, è fortunatamente diminuita la povertà degli anziani mentre è aumentata la povertà dei bambini e degli adulti soli (spesso a seguito di un divorzio o della perdita del lavoro). Nei paesi Ocse i bambini ed i giovani adulti hanno il 25% di probabilità in più di essere poveri rispetto al resto della popolazione. Questi dati sono confermati, per l’Italia, anche dall’Istat che da qualche anno segnala la crescita della povertà tra i minori [2] (si veda anche l’ultimo rapporto del 4 novembre 2008). Dato che, oltre ad essere odioso in sé, si associa a fenomeni di trasmissione intergenerazionale della povertà: le persone giovani in condizioni di povertà genereranno figli poveri i quali, a causa della scarsa mobilità sociale, faranno fatica ad affrancarsi da questa condizione. In altre parole la povertà dei minori è associata all’aumento della povertà tra le famiglie con figli a carico.
Per quanto riguarda in particolare l’Italia, il rapporto rileva che il nostro paese è passato da livelli di disuguaglianza vicini alla media Ocse vent’anni fa, a livelli ben superiori oggi. Siamo infatti il 6° paese sui 30 censiti per livello delle disuguaglianze tra ricchi e poveri. La disuguaglianza tra ricchi e poveri è cresciuta infatti del 33% rispetto alla metà degli anni ‘80 mostrando l’inefficacia delle misure di contrasto alla povertà che pure l’Ocse rileva siano state implementate nell’ultimo ventennio. Il reddito medio del 10% più povero si aggira intorno ai 5.000 dollari (sotto la media Ocse di 7.000), mentre il reddito del 10% più ricco è di 55.000 dollari (leggermente sopra la media degli altri paesi). Ancora più accentuata è la disuguaglianza nei patrimoni (i dati precedenti si riferiscono invece ai redditi, cioè dati di flusso): il 42% della ricchezza totale è detenuta, infatti, dal 10% dei cittadini, mentre “solo” il 28% del reddito totale è ascrivibile allo stesso 10%.
Secondo i ricercatori dell’Ocse in buona misura le crescenti disuguaglianze sono generate dalla trasformazione del mercato del lavoro, con un aumento dei lavoratori a basse qualifiche e di lavoratori poveri. Anche le misure di contrasto alla povertà e i sussidi sociali hanno perso efficacia negli ultimi vent’anni, ragione per cui sarebbe necessario ridisegnarli. In questo scenario si colloca l’attuale crisi finanziaria: è lecito domandarsi se ad una crescita economica così disuguale corrisponderanno effetti disuguali nella recessione, ovvero se la crisi colpirà in proporzione con maggior durezza i redditi più bassi. È questa la domanda che si è posto anche A. Atkinson, uno dei maggiori studiosi europei in materia di distribuzione del reddito e disoccupazione, in un recente scritto [3]. Dipenderà dalle politiche pubbliche che i governi attueranno, è la risposta dello studioso. In prima battuta i Governi si sono comportati da prestatori di ultima istanza, correndo in soccorso delle istituzioni finanziarie in difficoltà e garantendo così, in una certa misura, anche i piccoli risparmiatori. Ma affinché gli effetti della recessione non pesino maggiormente su chi già è in difficoltà è necessario qualcosa di più. Molto dipenderà dalla capacità delle coalizioni di governo di immaginare interventi sociali redistributivi, ancor più efficaci se studiati su scala sovranazionale. Solo nelle settimane più recenti i governi hanno cominciato a varare misure anti crisi (a cominciare dagli Stati Uniti per arrivare in Europa con Francia, Inghilterra e Germania e in Asia con un inedito piano della Cina) che guardino oltre il sistema finanziario. Ma, per quanto riguarda l’Europa, l’idea di un intervento sociale coordinato (se non addirittura sovranazionale) auspicato da Atkinsons è ben lontana dal prendere corpo tra le coalizioni di governo del vecchio continente. Ciascuno farà come e quanto potrà. E così mentre l’Inghilterra pensa ad interventi sull’ordine del 7% del Pil (della stessa dimensione le misure anti crisi della Cina), in Italia si pensa di intervenire muovendo cifre dell’ordine dello 0,3% del prodotto interno lordo che rischiano di essere del tutto inefficaci e frammentarie (ovvero quel poco che si spende è anche mal speso).
Come già segnalato nel rapporto Ocse, le misure di contrasto alla povertà ed i sussidi che non siano orientati a fare “massa critica” (cioè a concentrare più interventi e di diverso tipo verso gli stessi beneficiari, per esempio i disoccupati) rischiano, a parità di spesa, di rivelarsi del tutto inutili. Sembra andare esattamente in questa direzione la misura di sostegno al reddito dei lavoratori parasubordinati (i co.co.pro che non beneficiano di alcun tipo di ammortizzatore sociale) contenuta nel decreto cosiddetto “anticrisi” del 29/11/2008 n. 185. Il provvedimento prevede l’erogazione una tantum del 10% dei compensi percepiti nell’anno precedente (sempre che tali compensi siano compresi tra 5mila e 11.516 euro) a beneficio del collaboratore a progetto (sono così esclusi i collaboratori coordinati e continuativi che ancora esistono nel settore pubblico) che abbia operato in settori o territori definiti in crisi (da un successivo decreto) per almeno tre mesi in regime di monocommittenza e che risulti non avere avuto contributi versati per almeno due mesi. In altre parole i requisiti di accesso alla misura che potrà ammontare al massimo a 1150 euro (il 10% del massimale di reddito) sono lo stato di monocommittenza (non meglio definito: tre contratti con tre diversi committenti l’uno di seguito all’altro come vengono considerati?), il lavoro in collaborazione per almeno tre mesi e per meno di 10, la residenza in aree dichiarate in crisi, lo stato di disoccupazione da almeno 2 mesi. Il decreto nulla dice, inoltre, sulla copertura contributiva della misura.
Un provvedimento così costruito è condannato all’inefficacia sia per l’intensità del contributo (che in media raggiungerà i 700-800 euro, una tantum) che per l’estensione dei beneficiari. Le stime più attendibili [4] parlano di una platea di 10.000 lavoratori contro gli 80.000 previsti dal Governo per un ammontare di spesa vicina agli 8 milioni di euro. Se gli interventi sociali messi in campo dai Governi saranno di questa natura e di questa entità, anche la recessione, così come è stato per la crescita, avrà effetti diseguali in proporzione tra ricchi e poveri. I poveri soffriranno di più.
* L’autrice è ricercatrice presso la Camera del Lavoro di Milano.
[1] Oecd (2008), Growing Unequal?: Income distribution and povertry in Oecd Countries.
[2] Si veda anche l’ultimo rapporto Istat, La povertà relativa in Italia del 4 novembre 2008 (http://www.istat.it/).
[3] A. Atkinson (2008), Unequal growth, unequal recession?, Oecd Observer.
[4] Berton, Richiardi, Sacchi, Indennità ai co.co.pro. Un bel gesto che non impegna, lavoce.info 2008.
Roubini: la bolla più grande della storia
la Stampa
29/12/2008
La bolla più grande della storia
NOURIEL ROUBINI
Il sistema finanziario del mondo ricco si sta dirigendo verso un crollo. Per la prima volta in settant’anni si è avuto paura di una corsa indiscriminata a ritirare i depositi dalle banche, mentre il sistema bancario «ombra» - agenti, prestatori di mutui non bancari, strumenti strutturati di investimento, hedge funds, fondi monetari di mercato e società di private equity - sta correndo rischi sulle sue passività a breve termine.
Dal lato dell’economia reale, tutte le economie avanzate - che rappresentano il 55 per cento del Prodotto interno lordo globale - erano entrate in recessione anche prima del pesante shock finanziario iniziato alla fine dell’estate 2008. Di conseguenza, ci troviamo oggi di fronte a una recessione, a una crisi finanziaria severa e a una profonda crisi bancaria nelle economie avanzate.
I mercati emergenti hanno inizialmente subito le conseguenze di questa crisi solo quando gli investitori stranieri hanno cominciato a ritirare i loro investimenti. Poi il panico si è diffuso sui mercati di credito, monetari e valutari.
Evidenziando così la vulnerabilità dei sistemi finanziari di molti Paesi in via di sviluppo e di settori aziendali che, di fronte all’espansione del credito, si sono indebitati a breve e in valute estere.
I più fragili sono stati i Paesi con un grande deficit di conto corrente e/o con un grande deficit fiscale e con forti debiti in valute estere a breve termine. Ma anche quelli con la migliore performance - come Brasile, Russia, India e Cina - sono adesso a rischio di un atterraggio brusco. Molti mercati emergenti stanno quindi rischiando una grave crisi finanziaria.
La crisi è stata causata dalla più grande bolla finanziaria e creditizia della storia, causata da un uso estremo della leva finanziaria. L’utilizzo della leva finanziaria e le bolle speculative non si sono limitati al mercato immobiliare americano, ma hanno caratterizzato il mercato immobiliare anche di altri Paesi. Inoltre, al di là del mercato immobiliare, in molti sistemi economici vi è stata un’eccessiva concessione di prestiti da parte di istituzioni finanziarie e di alcuni settori di impresa e della pubblica amministrazione. Il risultato è che ora stanno esplodendo contemporaneamente una bolla immobiliare, una bolla dei mutui ipotecari, una bolla del mercato azionario e obbligazionario, una bolla del credito, una bolla delle materie prime, una bolla del private equity e degli hedge fund.
L’illusione che la contrazione economica negli Stati Uniti e nelle altre economie avanzate sarebbe stata profonda ma breve - una recessione cioè di sei mesi a V - è stata sostituita dalla certezza che la crisi sarebbe stata una lunga e protratta recessione a U, che può durare almeno due anni negli Stati Uniti e si avvicina ai due anni in gran parte dei Paesi nel resto del mondo. In più, dato il rischio crescente di un collasso del sistema finanziario globale, non si può neppure escludere la prospettiva di una recessione a forma di L della durata di una decina d’anni: come quella vissuta dal Giappone dopo il collasso della sua bolla immobiliare e azionaria.
Docente di Economia presso la New York University e presidente di RGE Monitor
29/12/2008
La bolla più grande della storia
NOURIEL ROUBINI
Il sistema finanziario del mondo ricco si sta dirigendo verso un crollo. Per la prima volta in settant’anni si è avuto paura di una corsa indiscriminata a ritirare i depositi dalle banche, mentre il sistema bancario «ombra» - agenti, prestatori di mutui non bancari, strumenti strutturati di investimento, hedge funds, fondi monetari di mercato e società di private equity - sta correndo rischi sulle sue passività a breve termine.
Dal lato dell’economia reale, tutte le economie avanzate - che rappresentano il 55 per cento del Prodotto interno lordo globale - erano entrate in recessione anche prima del pesante shock finanziario iniziato alla fine dell’estate 2008. Di conseguenza, ci troviamo oggi di fronte a una recessione, a una crisi finanziaria severa e a una profonda crisi bancaria nelle economie avanzate.
I mercati emergenti hanno inizialmente subito le conseguenze di questa crisi solo quando gli investitori stranieri hanno cominciato a ritirare i loro investimenti. Poi il panico si è diffuso sui mercati di credito, monetari e valutari.
Evidenziando così la vulnerabilità dei sistemi finanziari di molti Paesi in via di sviluppo e di settori aziendali che, di fronte all’espansione del credito, si sono indebitati a breve e in valute estere.
I più fragili sono stati i Paesi con un grande deficit di conto corrente e/o con un grande deficit fiscale e con forti debiti in valute estere a breve termine. Ma anche quelli con la migliore performance - come Brasile, Russia, India e Cina - sono adesso a rischio di un atterraggio brusco. Molti mercati emergenti stanno quindi rischiando una grave crisi finanziaria.
La crisi è stata causata dalla più grande bolla finanziaria e creditizia della storia, causata da un uso estremo della leva finanziaria. L’utilizzo della leva finanziaria e le bolle speculative non si sono limitati al mercato immobiliare americano, ma hanno caratterizzato il mercato immobiliare anche di altri Paesi. Inoltre, al di là del mercato immobiliare, in molti sistemi economici vi è stata un’eccessiva concessione di prestiti da parte di istituzioni finanziarie e di alcuni settori di impresa e della pubblica amministrazione. Il risultato è che ora stanno esplodendo contemporaneamente una bolla immobiliare, una bolla dei mutui ipotecari, una bolla del mercato azionario e obbligazionario, una bolla del credito, una bolla delle materie prime, una bolla del private equity e degli hedge fund.
L’illusione che la contrazione economica negli Stati Uniti e nelle altre economie avanzate sarebbe stata profonda ma breve - una recessione cioè di sei mesi a V - è stata sostituita dalla certezza che la crisi sarebbe stata una lunga e protratta recessione a U, che può durare almeno due anni negli Stati Uniti e si avvicina ai due anni in gran parte dei Paesi nel resto del mondo. In più, dato il rischio crescente di un collasso del sistema finanziario globale, non si può neppure escludere la prospettiva di una recessione a forma di L della durata di una decina d’anni: come quella vissuta dal Giappone dopo il collasso della sua bolla immobiliare e azionaria.
Docente di Economia presso la New York University e presidente di RGE Monitor
zincone: non si tagliano le radici degli immigrati
la stampa
29/12/2008
Non si tagliano le radici
degli immigrati
GIOVANNA ZINCONE
Le crisi mettono a nudo le debolezze strutturali di un sistema, le inefficienze e le contraddizioni delle strategie politiche adottate in tempi di relativa quiete, il carattere spesso poco meditato delle ricette ad hoc. Il trattamento dell’immigrazione non fa eccezione.
In Italia il decreto flussi per il 2009, pescando sulle domande dell’anno precedente, quindi su uno stock di lavoratori in gran parte già presenti, ha confermato il fatto che da noi si entra di straforo e poi, in qualche modo, si viene regolarizzati. Lo stesso decreto ha assegnato più del 70% dei permessi di soggiorno al lavoro domestico e di cura, evidenziando ancora una volta un carattere chiave del nostro modello di Welfare. Una serie di funzioni, in particolare la cura degli anziani e della prima infanzia, sono lasciate alle famiglie e a loro si preferisce dare un sostegno in denaro piuttosto che in servizi. È una scelta che può piacere sul piano dello stile di vita collettivo, ma che pone problemi specialmente oggi, quando i redditi delle famiglie si assottigliano e i trasferimenti certo non crescono. Ne risulta comunque che in Italia si utilizza molto più lavoro domestico che in altri Paesi europei. È una caratteristica che condividiamo con la Spagna. E non è la sola. Abbiamo in comune anche una realtà di flussi migratori molto consistenti, concentrati in tempi relativamente brevi. Questo fenomeno sta producendo in entrambi i Paesi, un tempo tolleranti, preoccupanti reazioni di rigetto. Oggi la crisi economica potrebbe acuire le tensioni interetniche già esistenti e fare emergere quelle latenti.
In Spagna la disoccupazione ha già ricondotto un’offerta di lavoro nazionale nell’agricoltura, causando competizioni e attriti con i lavoratori immigrati. Questi conflitti e la situazione di generale esubero di forza lavoro hanno indotto il governo spagnolo ad adottare una vecchia ricetta, che era già stata sperimentata in Germania e in Francia dopo lo choc dell’aumento del prezzo del petrolio e la successiva recessione del 1974: dare incentivi perché i lavoratori stranieri rientrino nella patria di origine. Si tratta di una misura poco sostenuta dall’esperienza, perché già in passato la strategia del rimpatrio remunerato si era dimostrata inefficace, e tale si sta rivelando anche oggi in Spagna. Questo tipo di intervento evidenzia una delle contraddizioni che hanno caratterizzato a partire dagli Anni 90 le politiche migratorie di molti Paesi europei, e che si sono riflesse nelle linee adottate dall’Unione Europea. Si sono accentuate le richieste di assimilazione culturale: il requisito di conoscere la lingua del Paese di immigrazione riguarda non solo chi vuole la cittadinanza o la carta di soggiorno, ma in certi casi anche il rinnovo del permesso o i coniugi che si ricongiungono. Agli immigrati si chiede di apprendere in tempi brevi la storia e la cultura del Paese di residenza, di abbandonare atteggiamenti di preminente lealtà nei confronti della patria di origine; in un test di integrazione si è arrivati perfino a pretendere che gli immigrati tifassero per le squadre di calcio locali.
Le richieste rivolte agli immigrati di rispettare i valori civili fondamentali dello Stato dove risiedono, di conoscere con il tempo la lingua del Paese di cui vogliono diventare cittadini sono più che sensate. Ma l’assimilazione all’istante, l’abbandono della cultura d’origine, l’espianto delle radici sono in contraddizione con la volontà di utilizzare la forza lavoro immigrata come esercito di riserva, un contingente che si può rispedire al mittente quando non serve. È una pretesa che precede la crisi attuale e che si è tradotta in misure tese a favorire un’immigrazione temporanea e a rotazione. Nel caso italiano, la richiesta di rapida assimilazione e di abbandono della cultura di origine stride poi notevolmente con l’intenzione e la convinzione che i discendenti degli italiani immigrati all’estero mantengano forti legami con la madre patria. Una presunzione che ha giustificato la trasmissione della nostra cittadinanza da parte di una singola persona di nazionalità italiana immigrata all’estero a nipoti e pronipoti. Questi italiani per diritto ereditario possono non conoscere la nostra lingua (come di fatto molto spesso accade) e non essere mai venuti in Italia. Ma gli stessi individui godono - come è noto - di una specifica rappresentanza parlamentare. Una rappresentanza che, in caso di maggioranze risicate, come nell’ultimo governo Prodi, può risultare determinante.
In una situazione di questo genere continuano a suscitare proteste le proposte, avanzate anche da sensati politici del centrodestra, come l’attuale presidente della Camera, di concedere il voto locale agli immigrati lungo-residenti e di facilitare l’acquisizione della cittadinanza da parte di bambini che hanno studiato in Italia. Purtroppo anche da noi sono presenti personaggi politici ai quali si potrebbe applicare la considerazione fatta dallo scrittore scozzese O’Hagan sulla New York Review of Books a proposito di politici nazionalisti suoi conterranei: «Non parlano in modo veritiero del passato, non hanno una visione del futuro, sono bloccati in un presente ignorante, alla ricerca di vantaggi immediati». Della disinvolta corsa al profitto politico, come di quella al profitto economico, entrambe condotte a opera di pochi, a pagare i conti sono e saranno in molti.
29/12/2008
Non si tagliano le radici
degli immigrati
GIOVANNA ZINCONE
Le crisi mettono a nudo le debolezze strutturali di un sistema, le inefficienze e le contraddizioni delle strategie politiche adottate in tempi di relativa quiete, il carattere spesso poco meditato delle ricette ad hoc. Il trattamento dell’immigrazione non fa eccezione.
In Italia il decreto flussi per il 2009, pescando sulle domande dell’anno precedente, quindi su uno stock di lavoratori in gran parte già presenti, ha confermato il fatto che da noi si entra di straforo e poi, in qualche modo, si viene regolarizzati. Lo stesso decreto ha assegnato più del 70% dei permessi di soggiorno al lavoro domestico e di cura, evidenziando ancora una volta un carattere chiave del nostro modello di Welfare. Una serie di funzioni, in particolare la cura degli anziani e della prima infanzia, sono lasciate alle famiglie e a loro si preferisce dare un sostegno in denaro piuttosto che in servizi. È una scelta che può piacere sul piano dello stile di vita collettivo, ma che pone problemi specialmente oggi, quando i redditi delle famiglie si assottigliano e i trasferimenti certo non crescono. Ne risulta comunque che in Italia si utilizza molto più lavoro domestico che in altri Paesi europei. È una caratteristica che condividiamo con la Spagna. E non è la sola. Abbiamo in comune anche una realtà di flussi migratori molto consistenti, concentrati in tempi relativamente brevi. Questo fenomeno sta producendo in entrambi i Paesi, un tempo tolleranti, preoccupanti reazioni di rigetto. Oggi la crisi economica potrebbe acuire le tensioni interetniche già esistenti e fare emergere quelle latenti.
In Spagna la disoccupazione ha già ricondotto un’offerta di lavoro nazionale nell’agricoltura, causando competizioni e attriti con i lavoratori immigrati. Questi conflitti e la situazione di generale esubero di forza lavoro hanno indotto il governo spagnolo ad adottare una vecchia ricetta, che era già stata sperimentata in Germania e in Francia dopo lo choc dell’aumento del prezzo del petrolio e la successiva recessione del 1974: dare incentivi perché i lavoratori stranieri rientrino nella patria di origine. Si tratta di una misura poco sostenuta dall’esperienza, perché già in passato la strategia del rimpatrio remunerato si era dimostrata inefficace, e tale si sta rivelando anche oggi in Spagna. Questo tipo di intervento evidenzia una delle contraddizioni che hanno caratterizzato a partire dagli Anni 90 le politiche migratorie di molti Paesi europei, e che si sono riflesse nelle linee adottate dall’Unione Europea. Si sono accentuate le richieste di assimilazione culturale: il requisito di conoscere la lingua del Paese di immigrazione riguarda non solo chi vuole la cittadinanza o la carta di soggiorno, ma in certi casi anche il rinnovo del permesso o i coniugi che si ricongiungono. Agli immigrati si chiede di apprendere in tempi brevi la storia e la cultura del Paese di residenza, di abbandonare atteggiamenti di preminente lealtà nei confronti della patria di origine; in un test di integrazione si è arrivati perfino a pretendere che gli immigrati tifassero per le squadre di calcio locali.
Le richieste rivolte agli immigrati di rispettare i valori civili fondamentali dello Stato dove risiedono, di conoscere con il tempo la lingua del Paese di cui vogliono diventare cittadini sono più che sensate. Ma l’assimilazione all’istante, l’abbandono della cultura d’origine, l’espianto delle radici sono in contraddizione con la volontà di utilizzare la forza lavoro immigrata come esercito di riserva, un contingente che si può rispedire al mittente quando non serve. È una pretesa che precede la crisi attuale e che si è tradotta in misure tese a favorire un’immigrazione temporanea e a rotazione. Nel caso italiano, la richiesta di rapida assimilazione e di abbandono della cultura di origine stride poi notevolmente con l’intenzione e la convinzione che i discendenti degli italiani immigrati all’estero mantengano forti legami con la madre patria. Una presunzione che ha giustificato la trasmissione della nostra cittadinanza da parte di una singola persona di nazionalità italiana immigrata all’estero a nipoti e pronipoti. Questi italiani per diritto ereditario possono non conoscere la nostra lingua (come di fatto molto spesso accade) e non essere mai venuti in Italia. Ma gli stessi individui godono - come è noto - di una specifica rappresentanza parlamentare. Una rappresentanza che, in caso di maggioranze risicate, come nell’ultimo governo Prodi, può risultare determinante.
In una situazione di questo genere continuano a suscitare proteste le proposte, avanzate anche da sensati politici del centrodestra, come l’attuale presidente della Camera, di concedere il voto locale agli immigrati lungo-residenti e di facilitare l’acquisizione della cittadinanza da parte di bambini che hanno studiato in Italia. Purtroppo anche da noi sono presenti personaggi politici ai quali si potrebbe applicare la considerazione fatta dallo scrittore scozzese O’Hagan sulla New York Review of Books a proposito di politici nazionalisti suoi conterranei: «Non parlano in modo veritiero del passato, non hanno una visione del futuro, sono bloccati in un presente ignorante, alla ricerca di vantaggi immediati». Della disinvolta corsa al profitto politico, come di quella al profitto economico, entrambe condotte a opera di pochi, a pagare i conti sono e saranno in molti.
domenica 28 dicembre 2008
vittorio melandri: puzzo di fascismo
Devo a Gianni Mura, e ai suoi “cattivi pensieri” pubblicati su la Repubblica di domenica 28 dicembre 2008 la possibilità di aver recuperato l’Ansa di Martedì 23 dicembre delle 19.35 che da Dinami (Vibo Valentia) dava questa notizia:
“Hanno catturato un gatto e lo hanno impiccato per gioco ad un palo. I carabinieri hanno denunciato tre studenti. I tre sono di Dinami e hanno uno 19 anni e gli altri due 17. Il gatto, di proprietà di un pensionato, R.T., è stato trovato impiccato nei pressi di un bar nella frazione Melicuccà. Da quanto è emerso dalle indagini, il gatto era l’unica compagnia per il pensionato che non è sposato e vive solo.”
Il primo atto del film di Bernardo Bertolucci, Novecento, si chiude su alcuni protagonisti presi di spalle che si allontanano dalla macchina da presa. In fondo alla scena si intravede la coda della processione dei “rossi” che hanno accompagnato i loro compagni bruciati vivi nel rogo della “casa del popolo”; a sfilare sulla destra a chiudere il mesto corteo, è un drappello di militari a cavallo, lancia erta a riposo; ed in primo piano si avanzano, sempre ripresi di spalle, un gruppo di fascisti, che rassicurati nella loro congenita vigliaccheria, dalla presenza dei militari e dalla distanza dei “rossi”, oltraggiano questi con parole di scherno. Il più baldanzoso del gruppo, l’Attila impersonato da Donald Sutherland, ha da poco portato a termine una gloriosa impresa, rappresentata nella scena precedente.
Appeso un gatto ad un gancio nel muro, e li costrettovi con la cintura dei pantaloni, lo ha ucciso con una testata. La sua testa, quando si chiude il film, è ancora imbrattata del sangue del gatto.
Bertolucci è stato criticato a suo tempo, per aver tratteggiato nel suo film un fascismo caricaturale, tutto espresso da figure demoniache. Intervistato da Maurizio Porro per l’uscita del DVD approntato in occasione del trentennale del film, Bertolucci ha dichiarato fra l’altro di aver pensato alla possibilità di chiudere la sua opera con un “terzo atto”, capace appunto di arrivare alla fine del secolo che dà il titolo al film, ma di aver desistito una volta che si è convinto come non ci siano più in Italia le condizioni culturali per accogliere un’opera del genere, sin dalla sua realizzazione.
Non riesco davvero ad immaginare in quanti, leggendo Mura, siano andati con la memoria al film di Bertolucci, mentre non passa giorno che non mi senta spiegare che il fascismo appartiene al passato, che non si possono fare paralleli con il presente, e che certamente non basta un gatto impiccato a far cambiare idee autorevolmente espresse.
Sarà, ma il puzzo di fascismo che si sente in giro, per me assomiglia molto anche all’odore nauseabondo che promana dall’Ansa ripresa da Mura e da nessun altro.
Vittorio Melandri
“Hanno catturato un gatto e lo hanno impiccato per gioco ad un palo. I carabinieri hanno denunciato tre studenti. I tre sono di Dinami e hanno uno 19 anni e gli altri due 17. Il gatto, di proprietà di un pensionato, R.T., è stato trovato impiccato nei pressi di un bar nella frazione Melicuccà. Da quanto è emerso dalle indagini, il gatto era l’unica compagnia per il pensionato che non è sposato e vive solo.”
Il primo atto del film di Bernardo Bertolucci, Novecento, si chiude su alcuni protagonisti presi di spalle che si allontanano dalla macchina da presa. In fondo alla scena si intravede la coda della processione dei “rossi” che hanno accompagnato i loro compagni bruciati vivi nel rogo della “casa del popolo”; a sfilare sulla destra a chiudere il mesto corteo, è un drappello di militari a cavallo, lancia erta a riposo; ed in primo piano si avanzano, sempre ripresi di spalle, un gruppo di fascisti, che rassicurati nella loro congenita vigliaccheria, dalla presenza dei militari e dalla distanza dei “rossi”, oltraggiano questi con parole di scherno. Il più baldanzoso del gruppo, l’Attila impersonato da Donald Sutherland, ha da poco portato a termine una gloriosa impresa, rappresentata nella scena precedente.
Appeso un gatto ad un gancio nel muro, e li costrettovi con la cintura dei pantaloni, lo ha ucciso con una testata. La sua testa, quando si chiude il film, è ancora imbrattata del sangue del gatto.
Bertolucci è stato criticato a suo tempo, per aver tratteggiato nel suo film un fascismo caricaturale, tutto espresso da figure demoniache. Intervistato da Maurizio Porro per l’uscita del DVD approntato in occasione del trentennale del film, Bertolucci ha dichiarato fra l’altro di aver pensato alla possibilità di chiudere la sua opera con un “terzo atto”, capace appunto di arrivare alla fine del secolo che dà il titolo al film, ma di aver desistito una volta che si è convinto come non ci siano più in Italia le condizioni culturali per accogliere un’opera del genere, sin dalla sua realizzazione.
Non riesco davvero ad immaginare in quanti, leggendo Mura, siano andati con la memoria al film di Bertolucci, mentre non passa giorno che non mi senta spiegare che il fascismo appartiene al passato, che non si possono fare paralleli con il presente, e che certamente non basta un gatto impiccato a far cambiare idee autorevolmente espresse.
Sarà, ma il puzzo di fascismo che si sente in giro, per me assomiglia molto anche all’odore nauseabondo che promana dall’Ansa ripresa da Mura e da nessun altro.
Vittorio Melandri
Guido Ceronetti: la ballata dell'angelo ferito
LA POESIA. Una ballata di Ceronetti per "il coraggio di Eluana Englaro"
La ballata dell'angelo ferito
di GUIDO CERONETTI
Urlate urlate urlate urlate.
Non voglio lacrime. Urlate.
Idolo e vittima di opachi riti
Nutrita a forza in corpo che giace
Io Eluana grido per non darvi pace
Diciassette di coma che m'impietra
Gli anni di stupro mio che non ha fine.
Una marea di sangue repentina
Angelica mi venne e fu menzogna
Resto attaccata alla loro vergogna
Ero troppo felice? Mi ha ghermita
Triste fato una notte e non finita.
Gloria a te Medicina che mi hai rinata
Da naso a stomaco una sonda ficcata
Priva di morte e orfana di vita
Ho bussato alla porta del Gran Prete
Benedetto: Santità fammi morire!
Il papa è immerso in teologica fumata
Mi ha detto da una finestra un Cardinale
Bevi il tuo calice finché sia secco
Ti saluta Sua Santità con tanto affetto
Ho bussato alla porta del Dalai Lama.
Tu il Riverito dai gioghi tibetani
Tu che il male conosci e l'oppressura
Accendimi Nirvana e i tubi oscura
Ma gli occhi abbassa muto il Dalai Lama
Ho bussato alla porta del Tribunale
E il Giudice mi ha detto sei prosciolta
La legge oggi ti libera ma tu domani
Andrai tra di altri giudici le mani.
Iniquità che predichi io gemo senza gola
Bandiera persa qui nel gelo sola
Ho bussato alla porta del Signore
Se tu ci sei e vedi non mi abbandonare
Chiamami in cielo o dove mai ti pare
Soffia questa candela d'innocente
Ma il Signore non dice e non fa niente
Ho bussato alla porta del padre mio
Lui sì risponde! Figlia ti so capire
Dolcissimo io vorrei darti morire
Ma c'è una bieca Italia di congiura
Che mi sentenzia che non è natura
E il mio papà piangeva da fontana
Me tra ganasce di sorte puttana.
Cittadini, di tanta inferta offesa
Venga alla vostra bocca il sale amaro.
Pensate a me Eluana Englaro
(la repubblica, 28 dicembre 2008)
La ballata dell'angelo ferito
di GUIDO CERONETTI
Urlate urlate urlate urlate.
Non voglio lacrime. Urlate.
Idolo e vittima di opachi riti
Nutrita a forza in corpo che giace
Io Eluana grido per non darvi pace
Diciassette di coma che m'impietra
Gli anni di stupro mio che non ha fine.
Una marea di sangue repentina
Angelica mi venne e fu menzogna
Resto attaccata alla loro vergogna
Ero troppo felice? Mi ha ghermita
Triste fato una notte e non finita.
Gloria a te Medicina che mi hai rinata
Da naso a stomaco una sonda ficcata
Priva di morte e orfana di vita
Ho bussato alla porta del Gran Prete
Benedetto: Santità fammi morire!
Il papa è immerso in teologica fumata
Mi ha detto da una finestra un Cardinale
Bevi il tuo calice finché sia secco
Ti saluta Sua Santità con tanto affetto
Ho bussato alla porta del Dalai Lama.
Tu il Riverito dai gioghi tibetani
Tu che il male conosci e l'oppressura
Accendimi Nirvana e i tubi oscura
Ma gli occhi abbassa muto il Dalai Lama
Ho bussato alla porta del Tribunale
E il Giudice mi ha detto sei prosciolta
La legge oggi ti libera ma tu domani
Andrai tra di altri giudici le mani.
Iniquità che predichi io gemo senza gola
Bandiera persa qui nel gelo sola
Ho bussato alla porta del Signore
Se tu ci sei e vedi non mi abbandonare
Chiamami in cielo o dove mai ti pare
Soffia questa candela d'innocente
Ma il Signore non dice e non fa niente
Ho bussato alla porta del padre mio
Lui sì risponde! Figlia ti so capire
Dolcissimo io vorrei darti morire
Ma c'è una bieca Italia di congiura
Che mi sentenzia che non è natura
E il mio papà piangeva da fontana
Me tra ganasce di sorte puttana.
Cittadini, di tanta inferta offesa
Venga alla vostra bocca il sale amaro.
Pensate a me Eluana Englaro
(la repubblica, 28 dicembre 2008)
Pasolini: a un Papa
Da “La religione del mio tempo”
A UN PAPA
Pochi giorni prima che tu morissi, la morte
Aveva messo gli occhi su un tuo coetaneo:
a vent’anni , tu eri studente, lui manovale,
tu nobile , ricco ,lui un ragazzaccio plebeo:
ma gli stessi giorni hanno dorato su voi
la vecchia Roma che stava tornando così nuova.
Ho veduto le sue spoglie, povero Zucchetto.
Girava di notte ubriaco intorno ai Mercati,
e un tram che veniva da San Paolo, l’ ha travolto
e trascinato un pezzo pei binari tra i platani:
per qualche ora restò lì , sotto le ruote :
un po’ di gente si radunò intorno a guardarlo,
in silenzio: era tardi, c’erano pochi passanti.
Uno degli uomini che esistono perché esisti tu,
un vecchio poliziotto sbracato come un guappo,
a che s’accostava troppo gridava: “Fuori dai ciglioni”.
Poi venne l’automobile d’un ospedale a caricarlo:
la gente se ne andò, restò qualche brandello qua e là,
e la padrona di un bar notturno, più avanti,
che lo conosceva, disse a un nuovo venuto
che Zucchetto era andato sotto un tram, era finito.
Pochi giorni dopo finivi tu: Zucchetto era uno
della tua grande greggia romana ed umana,
un povero ubriacone, senza famiglia e senza letto,
che girava di notte, vivendo chissà come.
Tu non ne sapevi niente: come non sapevi niente
di altri mille e mille cristi come lui.
Forse io sono feroce a chiedermi per che ragione
la gente come Zucchetto fosse indegna del tuo amore.
Ci sono posti infami, dove madri e bambini
vivono in una polvere antica, in un fango d’ altre epoche.
Proprio non lontano da dove tu sei vissuto,
in vista della bella cupola di San Pietro,
c’è uno di questi posti, il Gelsomino….
Un monte tagliato a metà da una cava, e sotto,
tra una marana e una fila di nuovi palazzi,
un mucchio di misere costruzioni, non case ma porcili.
Bastava soltanto un tuo gesto, non hai detto una parola .
Non ti chiedevo di perdonare Marx ! Un’onda
immensa che si rifrange da millenni di vita
ti separava da lui, dalla sua religione :
ma nella tua religione non si parla di pietà?
Migliaia di uomini sotto il tuo pontificato,
davanti ai tuoi occhi, son vissuti in stabbi e porcili.
Lo sapevi, peccare non significa fare il male:
non fare il bene, questo significa peccare .
Quanto bene tu potevi fare! E non l’ hai fatto:
non c’è stato un peccatore più grande di te.
Pier Paolo Pasolini
A UN PAPA
Pochi giorni prima che tu morissi, la morte
Aveva messo gli occhi su un tuo coetaneo:
a vent’anni , tu eri studente, lui manovale,
tu nobile , ricco ,lui un ragazzaccio plebeo:
ma gli stessi giorni hanno dorato su voi
la vecchia Roma che stava tornando così nuova.
Ho veduto le sue spoglie, povero Zucchetto.
Girava di notte ubriaco intorno ai Mercati,
e un tram che veniva da San Paolo, l’ ha travolto
e trascinato un pezzo pei binari tra i platani:
per qualche ora restò lì , sotto le ruote :
un po’ di gente si radunò intorno a guardarlo,
in silenzio: era tardi, c’erano pochi passanti.
Uno degli uomini che esistono perché esisti tu,
un vecchio poliziotto sbracato come un guappo,
a che s’accostava troppo gridava: “Fuori dai ciglioni”.
Poi venne l’automobile d’un ospedale a caricarlo:
la gente se ne andò, restò qualche brandello qua e là,
e la padrona di un bar notturno, più avanti,
che lo conosceva, disse a un nuovo venuto
che Zucchetto era andato sotto un tram, era finito.
Pochi giorni dopo finivi tu: Zucchetto era uno
della tua grande greggia romana ed umana,
un povero ubriacone, senza famiglia e senza letto,
che girava di notte, vivendo chissà come.
Tu non ne sapevi niente: come non sapevi niente
di altri mille e mille cristi come lui.
Forse io sono feroce a chiedermi per che ragione
la gente come Zucchetto fosse indegna del tuo amore.
Ci sono posti infami, dove madri e bambini
vivono in una polvere antica, in un fango d’ altre epoche.
Proprio non lontano da dove tu sei vissuto,
in vista della bella cupola di San Pietro,
c’è uno di questi posti, il Gelsomino….
Un monte tagliato a metà da una cava, e sotto,
tra una marana e una fila di nuovi palazzi,
un mucchio di misere costruzioni, non case ma porcili.
Bastava soltanto un tuo gesto, non hai detto una parola .
Non ti chiedevo di perdonare Marx ! Un’onda
immensa che si rifrange da millenni di vita
ti separava da lui, dalla sua religione :
ma nella tua religione non si parla di pietà?
Migliaia di uomini sotto il tuo pontificato,
davanti ai tuoi occhi, son vissuti in stabbi e porcili.
Lo sapevi, peccare non significa fare il male:
non fare il bene, questo significa peccare .
Quanto bene tu potevi fare! E non l’ hai fatto:
non c’è stato un peccatore più grande di te.
Pier Paolo Pasolini
Vittorio melandri: il paese più corrotto
1°) L’Italia sarebbe il Paese più corrotto della Terra o giù di lì.
2°) L’etica è il solo metro di giudizio della politica e i «valori» (etici) vanno contrapposti agli «interessi» (sempre sordidi per definizione)
3°) I magistrati (mi correggo: i pubblici ministeri) sarebbero cavalieri senza macchia, angeli vendicatori che combattono eroicamente il Male della corruzione.
Angelo Panebianco (Corriere della Sera - 28 dicembre, 2008)
Cosa impedisce alle giovani generazioni l’accesso alla vita, l’ingresso dalla porta principale nella comunità Paese, che ha tanto bisogno delle loro energie? Una volta, stando ad un cantante che dovrebbe sempre e solo cantare (visto che quando parla arriva a dire che lui sputa in bocca alla gente), era “solo una sana e consapevole libidine a salvare i giovani dallo stress e dall’azione cattolica”, oggi invece, stando all’autorevolissimo Corriere della Sera e al suo editorialista di punta Angelo Panebianco, i giovani vanno salvati, depurati, dagli odiosi dogmi riportati sopra e che lo stesso Panebianco addita al pubblico ludibrio, cominciando appunto dalla prima pagina del Corriere, e finendo a pagina 32, appena prima della 33 dove, un altro autorevolissimo editorialista, questo anche “ambasciatore”, Sergio Romano, ospita nella sua rubrica l’avv. Vittorio Dotti che ricorda come “nel nostro Paese la corruzione dilaghi e sia sprofondato al 55° posto fra le nazioni di tutto il mondo nella classifica per trasparenza e correttezza delle amministrazioni pubbliche.”
Sembra davvero una caricatura del “cerchiobottismo” che sarebbe abusato dalla satira, per deridere il “Corrierone”, e invece tutto questo è “cerchiobottismo” autentico, frutto pregiato del quotidiano che fu tratto dalle grinfie della P2 da Alberto Cavallari ed oggi è mirabilmente condotto da Paolo Mieli e P.G. Battista (quello che pontifica sul doppiopesismo), intanto che dietro le quinte, figure preclari ….stanno.
Spero di non invadere troppo la mail aggiungendo articoli in tema, di Carlo F. Grosso, Giuseppe De Rita, Guido Crainz, ed Eugenio Scalfari. (L’intento è quello di offrire anche a chi li ha letti, una comoda possibilità di archiviarli).
Buona domenica, vittorio melandri
Riequilibrio dei poteri La Stampa 27/12/2008
di CARLO FEDERICO GROSSO
Catanzaro, Salerno, Pescara: tre pagine poco esaltanti di esercizio del potere giudiziario, tre Procure che, con modalità diverse, hanno reso un servizio pessimo all’immagine dell’ordine giudiziario. Poiché non si tratta di casi isolati di scarsa avvedutezza, un problema «magistratura» nel nostro Paese indubbiamente esiste. Si tratta di stabilire come affrontarlo.
Da tempo una parte della politica sta affilando le armi contro i magistrati poiché, sostiene, occorre riequilibrare i rapporti di potere fra giustizia e politica, sbilanciati a favore della prima. È ora di farla finita, si precisa, con una magistratura senza controlli, in grado d’interferire pesantemente sulla politica e capace di fare e disfare amministrazioni e governi con il gioco delle inchieste giudiziarie. È accaduto ai tempi di Mani pulite, ora basta. Quest’idea affiora oggi, talvolta, anche tra le file della sinistra. Non si tratta, ancora, di linee politiche ufficiali. Tutt’altro: ufficialmente a sinistra si nega e si rifiuta. Il rischio, peraltro, è che in un quadro politico contraddistinto da una maggioranza apparentemente granitica e da una minoranza divisa e disorientata, la prospettiva di un’ampia impunità degli atti politici attraverso il parziale controllo di indagini e indagatori possa fare improvvisamente breccia e trovare il suo sbocco in una sorta di autoassoluzione collettiva.
La posta in gioco è rilevante. Sono in discussione le fondamenta dello Stato di diritto, la divisione dei poteri, l’eguaglianza dei cittadini. Essa appare, d’altronde, tanto più rilevante ove si consideri che, contemporaneamente, si vocifera di modificazioni dei regolamenti parlamentari o di riforme costituzionali destinate a rafforzare l’esecutivo rispetto a un Parlamento giudicato un intralcio per un’efficiente azione di governo. Già oggi, d’altronde, attraverso l’impiego ripetuto del voto di fiducia, l’esecutivo cerca di troncare il dibattito parlamentare eludendo la normale dialettica con l’opposizione, mentre soltanto la resistenza del Presidente della Repubblica evita che la decretazione d’urgenza diventi strumento sistematico di produzione legislativa. Qualcuno, giorni fa, ha parlato di tenace ricerca di un potere sostanzialmente unico, del governo e del suo capo.
Ma torniamo al tema giustizia. C’è un nodo fondamentale attorno al quale occorre riflettere: che il politico, come ogni altro cittadino, deve essere soggetto alla legge e non può godere di odiosi privilegi. Un ministro che ruba, un presidente di Regione che prevarica, un sindaco che accetta indebitamente denaro deve essere punito, come deve essere punito chi scippa, rapina, violenta. Anzi, se una ruberia è commessa da un eletto, la giustizia dovrebbe essere inflessibile, in quanto l’autore ha tradito la fiducia che gli è stata riconosciuta con il voto.
In questa prospettiva, parlare di riequilibrio dei poteri tra politica e magistratura, di conseguente limitazione delle indagini nei confronti degli eletti, di selezione politica dei reati annualmente perseguibili, di sottrazione ai pubblici ministeri del controllo della polizia, di limitazione nell’uso di strumenti fondamentali come le intercettazioni in materia di reati contro la pubblica amministrazione è del tutto privo di senso. In realtà, occorrerebbe rivedere la stessa disciplina dell’autorizzazione alle misure cautelari nei confronti dei parlamentari, che una prassi lassista tende a dilatare rispetto ai limiti stabiliti del fumus persecutionis.
Per altro verso, occorre invece reprimere gli arbitrii, gli eccessi, gli errori, le arroganze dei magistrati. Non è tollerabile che l’incapacità, l’inadeguatezza, la scarsa avvedutezza di qualcuno, la sua sicumera, la ricerca di visibilità, magari la stupidità, consentano eventuali aperture improprie di indagini penali, una loro prosecuzione non giustificata, iniziative improvvide sul terreno cautelare. Questo problema non concerne tuttavia, specificamente, il rapporto fra giustizia e politica; interessa tutti i cittadini, che, appunto tutti, hanno il diritto di non essere trascinati in procedimenti penali avventati, in giudizi non sufficientemente ponderati, in iniziative esorbitanti.
Ecco, allora, l’indubbia necessità di un intervento riequilibratore. Esso non deve essere, tuttavia, riequilibrio fra giustizia e politica, bensì fra esercizio del potere giudiziario e diritto di tutti i cittadini a una valutazione giudiziaria seria e serena. Esso non può, per altro verso, incidere sul contenuto del controllo di legalità, che in uno Stato bene ordinato deve essere libero e indipendente, ma riguardare la verifica di correttezza dell’attività di pubblici ministeri e giudici e la conseguente attività disciplinare. Su questo piano il Parlamento dovrebbe essere finalmente drastico. Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, serie valutazioni attitudinali, controlli periodici, magari a campione ma penetranti, riorganizzazione manageriale degli uffici e della loro dirigenza, monitoraggio sull’attività compiuta da ciascun magistrato dell’ufficio, inflessibilità nella repressione disciplinare degli abusi, delle inerzie, degli errori. Tutto ciò che oggi non avviene, o che avviene poco o malamente, ma che, a garanzia di tutti i cittadini, dovrebbe invece inflessibilmente accadere.
POTERE E QUESTIONE MORALE
I vedovi del duello Corriere della Sera 27 dicembre 2008
di Giuseppe De Rita
Spero che qualcuno avverta la povertà del linguaggio unico, e forse del pensiero unico, che impera sull’argomento denominato «questione morale ». Una povertà dove si annida il rischio che, girando e rigirando mediaticamente nobili o allarmate parole, si vada da nessuna parte, fino a quando alla fiammata moralistica subentrerà un accentuato cinismo. Un rischio che merita quindi uno sforzo di diversa interpretazione. Nelle vicende di questi mesi (come in quelle del ’92-’93) è in atto la trasposizione allargata della politica non nella guerra ma nella violenza, secondo la reinterpretazione di Clausewitz fatta da Aron e Girard.
La voglia di annientamento del nemico, vero fine di ogni violenza (anche di quelle giudiziarie e mediatiche) avviene ogni giorno, mettendo in grande evidenza anticipazioni e intercettazioni. Ma contrariamente a quindici anni fa non sembra esserci oggi un compatto disegno politico di annientamento del nemico, ma piuttosto una tendenza a far rifluire i fenomeni in due tipiche categorie italiane: il policentrismo e il localismo. Qualche moralista dirà che son due categorie che non c’entrano in una vicenda che è solo e soltanto un drammatico duello fra ladri e guardie, fra scatenati mascalzoni e ordinati servitori dello Stato.
Ma a ben vedere «il duello», come confronto biunivoco a due parti (ad esempio, fra berlusconismo e antiberlusconismo), non c’è più. Le vicende di cui si parla sono tanti duelli incrociati: fra politici e magistrati; fra politici fra di loro e magistrati fra di loro; fra mezzi di comunicazione di massa e politica; fra autorità politiche centrali e periferiche; fra poteri di rappresentanza sociopolitica e poteri forti, magari occulti. Siamo cioè in presenza di una lotta a tanti protagonisti, in una inestricabile confusione di ruoli e poteri. Tutti i soggetti in campo pensano di star facendo un duello con un solo avversario (con il presidente regionale o con il collega procuratore) e non si sono accorti che il concetto di duello fra due forze contrapposte è finito da un pezzo, anche sul piano internazionale, in ragione di un crescente policentrismo dei poteri e dei conflitti. Sbagliano quindi coloro che sperano che il duello finisca con l’annientamento dell’avversario; in un sistema policentrico l’annientamento assoluto non esiste, ci sono solo morti e feriti. La storia, procede, e la gestiranno solo coloro che sapranno combinare la violenza con le armi della politica. Il resto è spettacolo, drammatico e attraente, ma spettacolo. E purtroppo fa parte dello spettacolo anche la nostra invincibile dimensione localistica. La lettura dei documenti giudiziari e delle intercettazioni allegate è esercizio deprimente: vince il volgare vernacolo (e «la lingua è la forma del pensiero»); vincono le locuzioni mirate all’omertoso «ci capiamo »; sono costanti i riferimenti a circuiti e consorterie locali; vincono le «chiacchiere», grande capitale sociale della nostra provincia; cresce lo sdegno per piccoli privilegi di persone e clan; si capisce come, nel montarsi emozionalmente a vicenda, maturi nella gente l’attesa di un vendicatore (giudice o giornalista che sia).
Il magistrato di procura finisce per diventare il riferimento obbligato e atteso dei mormorii localistici, che si trasmettono prima nelle sue orecchie e poi nelle sue inchieste. Non a caso queste diventano sue gelose proprietà e fanno parte del suo prestigio personale: tenerle alte è la migliore difesa, perché tenerle basse potrebbe dar luogo a chiacchiere deluse delle comunità. La dialettica sociale della comunità resta quindi il riferimento costante di tante nostre vicende giudiziarie, insieme al policentrismo dei poteri. Se non si avvia una faticosa politica su questi due riferimenti (articolando i poteri ed i loro controlli) non si andrà da nessuna parte. Si attiveranno solo ulteriori duelli, avvertiti come «epocali» solo da chi ne è coinvolto.
LA CORRUZIONE E LE SUE RADICI la Repubblica
sabato, 27 dicembre 2008
le origini di un fenomeno che affligge l’Italia dagli anni settanta
storia di un’infezione nazionale la corruzione
La “normale” violazione della legalità rimanda a vicende antiche del nostro Paese
La “diversità” comunista oggi appare come un reperto archeologico
di GUIDO CRAINZ
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Il riemergere della corruzione come nodo politico e la diffusione della “normale” violazione della legalità (la “corruzione inconsapevole” di cui ha parlato Roberto Saviano) inevitabilmente rimandano ad un rapporto di lungo periodo fra sistema politico e Paese. E il largo coinvolgimento del centrosinistra rinvia non alle confuse vicende di anni recenti ma ad una storia più antica.
La “diversità” comunista appare oggi reperto archeologico ma non è inutile interrogarsi sulle modalità del suo incrinarsi ed esaurirsi. Conviene partire da anni insospettabili, ad esempio dallo scenario degli anni Settanta: più esattamente, dal momento in cui le tangenti petrolifere ai partiti di governo rendono evidente il delinearsi di una corruzione sistematica e non episodica. È illuminante il dibattito che si svolge nella Direzione del Pci proprio nel 1974, in relazione alla legge sul finanziamento pubblico ai partiti varata sull’onda di quello scandalo.
L’iniziale e periferico coinvolgimento del Pci in pratiche illegittime è registrato con estrema preoccupazione, e in autorevoli interventi il finanziamento pubblico è visto come possibile strumento di una duplice autonomia: da un lato dall’Urss, dall’altro dalle pressioni illecite - e non sempre respinte - sulle amministrazioni locali. Alla luce di questi e altri non piccoli segnali, l’insistenza dell’ultimo Berlinguer sulla diversità comunista ci appare oggi non tanto l’orgogliosa sottolineatura di una solidissima realtà quanto l’appassionato e quasi angosciato appello ad un dover essere, l’aggrapparsi ad un elemento che vedeva scolorirsi sotto i suoi occhi. E che gli era apparso sin lì il più sicuro antidoto a quel degrado del sistema politico che stava conoscendo forti accelerazioni. Già nel 1980 su questo giornale Massimo Riva annotava che «il radicarsi della corruzione dentro le strutture dello stato» appariva senza «precedenti storici che possano consolare». Nello stesso anno Italo Calvino regalava ai lettori un lucidissimo Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti che iniziava così: «C’era un paese che si reggeva sull’illecito». Sempre allora Ernesto Galli della Loggia su Mondo Operaio vedeva delinearsi una «uscita dalla legalità dell’intera classe dirigente». Ed è dell’anno successivo la appassionata denuncia di Berlinguer nell’intervista ad Eugenio Scalfari riproposta nelle sue parti essenziali da la Repubblica di domenica scorsa. Voci differenti, come quelle che nel corso del decennio segnaleranno con allarme crescente, nel diffondersi di arresti e processi, una degenerazione inarrestabile, un salto di qualità impensabile pochi anni prima.
A rileggere cronache giudiziarie e acute analisi giornalistiche c’è da chiedersi semmai perché il ciclone di Tangentopoli sia venuto solo così tardi. Nel 1986, ad esempio, sempre su queste pagine Giovanni Ferrara osservava: «Il legame di fiducia fra i partiti e l’opinione pubblica è ormai teso al punto di spezzarsi: come in una corda marcita molti fili sono già rotti ed ogni giorno ne salta ancora uno». E nello stesso anno Giorgio Bocca analizzava bene la “cultura della corruzione”: nelle parole degli imputati ai processi, annotava, le tangenti appaiono «necessarie come il lievito alla panificazione». Bocca si riferiva allora a Milano, e quattro anni dopo Giampaolo Pansa poteva parafrasare in un titolo - Milano corrotta, nazione infetta - la storica denuncia dell’Espresso degli anni Cinquanta relativa alla Roma della speculazione edilizia. È un titolo del 1990, non del 1992. Poco dopo ancora Bocca annotava: «L’assenza di regole domina ovunque, anche nella “capitale morale”. E siamo qui nell’angoscia, nell’umiliazione di un nodo che sembra irrisolvibile».
Non mancavano riflessioni ancor più generali. Nel declinare degli anni Ottanta Silvio Lanaro iniziava una densa ricognizione storica (L’Italia nuova, Einaudi 1988) imponendo al lettore dati impietosi: da un lato il volume significativo ormai raggiunto dal “reddito da tangenti” (di poco inferiore, si valutava, a quello di estorsioni e ricatti, o al bottino complessivo di furti e rapine); dall’altro l’immagine di un Paese privo di regole e consapevole di esserlo. Poi, negli anni di Tangentopoli, le riflessioni sull’identità italiana si intensificano e si addensano, alimentate anche dalla irruzione sulla scena della Lega. Già nel 1991 Pietro Scoppola ne La Repubblica dei partiti (Il Mulino) tracciava una ricostruzione disincantata e quasi sofferente del declino di un sistema politico nel quale aveva creduto a lungo (e ancora voleva credere). Nel 1993 esce Se cessiamo di essere una nazione di Gian Enrico Rusconi (Il Mulino), che si annuncia sin dal titolo, mentre Lorenzo Ornaghi e Vittorio Emanuele Parsi annotano: «Nessun discorso sull’Italia repubblicana può scansare la domanda se la nostra società possa dirsi davvero una società. O se mai lo sia stata» (La virtù dei migliori, Il Mulino). Ancora nel 1993 La grande slavina di Luciano Cafagna (Marsilio) offre ulteriori e stimolanti affondi, dando non effimero fondamento al giudizio che Giuliano Amato pronunciava allora dimettendosi da Presidente del Consiglio (e suscitando polemiche). Nella crisi degli anni Novanta Amato vedeva infatti la fine di «quel modello di partito-Stato che fu introdotto in Italia dal fascismo e che la Repubblica aveva finito per ereditare», sostituendo il partito unico con un sistema pluralistico sì ma partitocratico (e alla partitocrazia come lascito del fascismo era appunto dedicato un capitolo del pamphlet di Cafagna). Al di là di polemiche e toni d’epoca è difficile negare che abbiano avuto prepotente impulso se non origine nel ventennio il diffondersi della politica come mestiere e al tempo stesso la confusione fra interessi dello Stato e interessi del partito (un partito onnivoro come il Pnf, contornato di istituti ed enti). Di lì a poco Eugenio Scalfari toccava un nodo centrale chiedendosi: «Qual è stato il momento nel quale una società operosa e dinamica si è trasformata in un immenso verminaio collettivamente dedito alla dilapidazione delle risorse e al malaffare fatto sistema?». Con molte ragioni collocava questa «grande mutazione genetica» negli anni Sessanta, cioè nella tumultuosa trasformazione che aveva posto fine all’Italia arcaica e contadina. Ci sarebbe voluta una classe dirigente moralmente e professionalmente adeguata, aggiungeva, per governare quel processo: «In assenza di essa, tutti i valori sono andati dispersi, tutte le regole calpestate, tutti i rapporti imbarbariti».
In questi e altri interventi, dunque, la critica al sistema dei partiti si legava strettamente ad un più generale esame di coscienza e su La Stampa Norberto Bobbio osservava: «Una fine così miseranda [della “prima Repubblica”] è l’espressione del fallimento di tutta una nazione». Sul Corriere della Sera Giovanni Raboni si chiedeva Ma noi dove eravamo?, mentre Claudio Magris annotava: «Da qualche tempo si avverte quasi fisicamente, per la prima volta, la possibilità che il Paese si dissolva e che tra breve l’Italia, nella sua attuale forma politico-statuale e quindi anche culturale, possa non esistere più». Dal canto suo Galli della Loggia si interrogava sulla “solitudine interna” di una società che non riesce a «scorgere in se stessa alcuna fonte vera di orientamento a cui rivolgersi» e aggiungeva poi: la «corruzione dall’alto» si incontra con quella che «proviene dal basso, dagli strati profondi della società italiana (...) i politici, gli industriali, gli alti burocrati hanno potuto fare mercato della cosa pubblica perché tutti gli italiani, senza distinzioni, da sempre tendono a usare il pubblico in modo del tutto privato».
Alla lunga distanza c’è da chiedersi perché domande così radicali non abbiano trovato allora molti interlocutori, e in larghi settori dell’opinione pubblica siano state poi sepolte dall’illusione in una salvifica “seconda Repubblica”. Quella illusione ha lasciato un retrogusto amaro e viene alla mente quel che Guido De Ruggiero scriveva nel 1944, nella Roma più precocemente liberata: attorno a sé scorgeva infatti i segni di “un regime in sfacelo più che di una democrazia in divenire”. Così ci appare oggi anche l’Italia dei primi anni Novanta e c’è da riflettere a fondo non solo sui processi che hanno attraversato in questi ultimi quindici anni il sistema politico ma, più ancora, su quelli che hanno attraversato l’intero paese.
LA TRISTE STORIA DELL’ITALIA CORROTTA la Repubblica domenica, 28 dicembre 2008
di EUGENIO SCALFARI
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L’ITALIA è una nazione corrotta? Da sempre o da quando? E corrotto il popolo, la società nel suo complesso? Oppure è corrotta soltanto la classe dirigente del Paese e il popolo assiste, passivo e stupefatto, a questo devastante fenomeno?
Questo gruppo di domande è di nuovo alla ribalta, il tema è di nuovo di incalzante attualità e si torna a parlare dei mezzi necessari a porvi rimedio; il governo ha messo all’ordine del giorno la riforma della giustizia con il dichiarato obiettivo di affrontare le malformità dell’ordine giudiziario e di stroncare l’immoralità dilagante: un soprassalto degno di nota poiché il capo del governo è uno degli esempi più vistosi dell’immoralità pubblica o almeno così è percepito da una parte rilevante della pubblica opinione.
Appena ieri la questione morale è stata presa di petto da Giuseppe De Rita sul «Corriere della Sera» e da Guido Crainz su «Repubblica».
Quest’ultimo ne ha addirittura fatto la storia citando coloro che se ne sono occupati a partire dal 1970, molto prima della nascita di Tangentopoli che ebbe inizio nel 1992 e che contribuì ad affondare la Prima Repubblica senza tuttavia riuscire ad estirpare la corruzione che continua come e più di prima a devastare la fibra del Paese. Siamo dunque condannati senza scampo a portarci appresso questa piaga purulenta che resiste ad ogni medicina e ad ogni chirurgia?
In realtà il fenomeno è molto più antico, le sue radici affondano non già nel passato prossimo ma in quello remoto. Molto prima dell’ultima guerra e molto prima del fascismo, l’Italia liberale e monarchica era infetta nelle midolla e non mancavano neppure allora intellettuali e artisti che denunciavano con parole di fuoco il trasformismo e la corruzione. Gabriele D’Annunzio apostrofava Nitti con il soprannome di «cagoia», Salvemini prima ancora lanciava contro Giolitti pesantissime accuse.
A monte la questione morale aveva travolto Crispi e lo scandalo della Banca Romana aveva coinvolto addirittura la monarchia.
«I Vicerè», il grande romanzo storico di De Roberto è un documento spietato del malaffare nelle classi dirigenti meridionali. Lo Stato unitario ancora non esisteva ma la corruzione infestava da tempo il regno borbonico e quello papalino. Per non parlare della «romanità»: l’impero dei Cesari, anche nella fase gloriosa degli inizi e ancora più indietro risalendo a Pompeo, Catilina, Mario e alla schiera dei proconsoli che depredavano le provincie a beneficio dei propri patrimoni, fu un «combinat» di forza militare e di corruttela pubblica. Nel «De Bello Jugurtino» Sallustio fa dire a Giugurta, re di Numidia, la storica frase: «Roma, venderesti te stessa se trovassi un compratore».
Dunque esiste una vocazione fatale alla corruttela che inchioda da più di due millenni la nazione latina e poi quella italica e italiana a questa peste devastante?
* * *
Mettiamo da parte la Roma dei proconsoli e dei Cesari: depredò i sudditi a vantaggio dell’erario e dei suoi titolari come è stato fatto da tutti gli imperi. Restiamo all’Italia moderna.
Qui da noi lo Stato unitario ha avuto una presenza evanescente, estranea, lontana, vissuto più come sopraffattore che come garante del patto sociale. Più come autore di violenza che tutore di legalità. Il popolo non ha partecipato ma ha soltanto assistito alla nascita dello Stato. Quando esso si costituì il 75 per cento della popolazione era formata da contadini. Fuori dalle istituzioni, fuori dal mercato. Consumavano le poche derrate che producevano, non avevano ospedali, non mandavano i figli a scuola, le sole presenze istituzionali erano i carabinieri e gli agenti delle imposte. E i preti.
Non facevano notizia i contadini. Nascevano, figliavano, morivano.
L’opinione pubblica rappresentava soltanto il 25 per cento. Proprietari fondiari, commercianti, industriali, magistrati, professionisti, maestri e docenti, impiegati.
Da questa fetta sottile della società emergeva la classe dirigente, i capi delle amministrazioni locali e nazionale, gli ufficiali dell’esercito, gli imprenditori. Insomma la borghesia e la piccola borghesia. I deputati.
Lo Stato galleggiava sulla società la quale a sua volta galleggiava sulla moltitudine dei contadini e sui primi nuclei della classe operaia.
Lo Stato non era un simbolo né lo era la Patria. Per la maggior parte quelle parole erano sconosciute, prive di significato. Per una parte minore erano depositi di potenza legale da occupare a proprio beneficio.
Domenica scorsa ho citato l’intervista del 1981 dove Enrico Berlinguer descrive l’occupazione dello Stato e delle istituzioni da parte dei partiti, ma avrei potuto citare quasi con le stesse parole Salvemini, De Viti De Marco, Maffeo Pantaleoni, Mosca, Pareto, Luigi Einaudi, Giustino Fortunato, di cinquanta e ottanta anni prima del leader del Pci.
La corruzione italiana è un fenomeno che deriva direttamente dall’estraneità dello Stato rispetto al popolo, dall’esistenza d´una classe dirigente barricata a difesa dei suoi privilegi, dall’appropriazione delle risorse pubbliche da parte dei potenti di turno, dal proliferare delle corporazioni con proprie deontologie, propri statuti, propri privilegi; dalla criminalità organizzata e governata da leggi e codici propri. Infine, in assenza di una legalità riconosciuta, dalla necessità di supplire a quell’assenza con la corruzione spicciola, necessaria per mitigare l’arbitrio con la compravendita di indulgenze civili come da sempre ha fatto la Chiesa con le indulgenze religiose.
* * *
Mi domando se la corruzione pubblica sia un fatto solo italiano. L’ovvia risposta è no, non è solo un fatto italiano, s’incontra in tutti i paesi, dove c’è la democrazia e dove c’è la dittatura, con economie mature o sottosviluppate. Dovunque i titolari del potere si appropriano d’una quota in più di quanto gli spetterebbe, dovunque i furbi accalappiano gli allocchi i quali cercano di rivalersi sui più allocchi di loro. Ma in Italia c’è un elemento aggravante in più: la fatiscenza dello Stato, la debolezza delle istituzioni di garanzia, l’evanescenza dello stato di diritto.
Qui la verità storica impone tuttavia un approfondimento dei fatti come si sono sviluppati nel corso del tempo. C’è stato nell’ultimo secolo un graduale aumento di partecipazione del popolo alla vita pubblica, un inizio di radicamento delle istituzioni nella società.
Quest’azione educativa ha avuto come promotori il movimento socialista, il partito comunista italiano, il movimento sindacale. Nell’ultimo cinquantennio vi è stato anche un forte contributo da parte dei cattolici democratici che hanno vinto i «non possumus» emanati per oltre mezzo secolo dal Papato contro lo Stato, con il nefasto effetto di confiscare la libertà politica dei cattolici separandoli dalle istituzioni del loro paese: un fatto tutt’altro che marginale (che registra purtroppo alcuni attuali ritorni all’indietro) senza riscontro nelle democrazie d’Europa e d’America.
* * *
Se c’è stato - e c’è sicuramente stato - un processo di sviluppo democratico, esso è dovuto in larga misura alla sinistra italiana. Tanto maggiore è quindi la preoccupazione più che mai attuale di assistere ad uno scadimento anche nella sinistra per quanto riguarda gli standard di moralità.
Probabilmente lo scadimento è stato ingrandito dall’avventatezza di magistrati che dal canto loro hanno smarrito in alcune circostanze i criteri di prudenza doverosi negli accertamenti di supposti reati. I partiti dal canto loro hanno abbassato la vigilanza consentendo che il malaffare entrasse anche in luoghi politici che finora gli erano stati preclusi.
Ma la vera causa è quella indicata a suo tempo da Berlinguer: le forze politiche non debbono occupare le istituzioni, gli organi di garanzia debbono vigilare e colpire senza riguardo ai colori di bandiera, la magistratura deve funzionare come organo di controllo della legalità, la stampa deve imparare meglio e di più il suo officio di contropotere.
Da questo punto di vista una riforma della giustizia s’impone e dovrà concentrarsi su tre obiettivi:
1. la riforma del processo penale e civile affinché sia resa giustizia in tempi ragionevolmente brevi; questo è un obiettivo essenziale che i cittadini reclamano e senza il quale non si avrà alcuna riforma degna del nome.
2. Il conferimento dell’azione penale nelle mani del capo della Procura, che distribuisca il lavoro ai suoi assistenti con criteri certi e oggettivi.
3. La separazione delle funzioni tra magistrati inquirenti e giudicanti senza tuttavia dividere in due l’ordine giudiziario al quale tutte e due quelle funzioni appartengono.
Ieri il presidente del Consiglio, con una più che mai vistosa capriola rispetto a quanto aveva appena detto, ha modificato l’ordine delle priorità del governo: alla ripresa dei lavori parlamentari ci sarà anzitutto il federalismo fiscale; la riforma della giustizia verrà dopo.
Quanto al presidenzialismo, per ora è uscito dalla tabella delle priorità.
Evidentemente la Lega e Fini hanno prevalso sulla fretta di Berlusconi di stringere i tempi della svolta autoritaria. Anche la libera stampa ha contribuito a questa svolta di saggezza e vi ha contribuito soprattutto la ferma resistenza dell’opposizione a minacce e lusinghe.
Né le une né le altre sono mancate. Il fatto che non abbiano avuto successo dà buone speranze per il futuro.
2°) L’etica è il solo metro di giudizio della politica e i «valori» (etici) vanno contrapposti agli «interessi» (sempre sordidi per definizione)
3°) I magistrati (mi correggo: i pubblici ministeri) sarebbero cavalieri senza macchia, angeli vendicatori che combattono eroicamente il Male della corruzione.
Angelo Panebianco (Corriere della Sera - 28 dicembre, 2008)
Cosa impedisce alle giovani generazioni l’accesso alla vita, l’ingresso dalla porta principale nella comunità Paese, che ha tanto bisogno delle loro energie? Una volta, stando ad un cantante che dovrebbe sempre e solo cantare (visto che quando parla arriva a dire che lui sputa in bocca alla gente), era “solo una sana e consapevole libidine a salvare i giovani dallo stress e dall’azione cattolica”, oggi invece, stando all’autorevolissimo Corriere della Sera e al suo editorialista di punta Angelo Panebianco, i giovani vanno salvati, depurati, dagli odiosi dogmi riportati sopra e che lo stesso Panebianco addita al pubblico ludibrio, cominciando appunto dalla prima pagina del Corriere, e finendo a pagina 32, appena prima della 33 dove, un altro autorevolissimo editorialista, questo anche “ambasciatore”, Sergio Romano, ospita nella sua rubrica l’avv. Vittorio Dotti che ricorda come “nel nostro Paese la corruzione dilaghi e sia sprofondato al 55° posto fra le nazioni di tutto il mondo nella classifica per trasparenza e correttezza delle amministrazioni pubbliche.”
Sembra davvero una caricatura del “cerchiobottismo” che sarebbe abusato dalla satira, per deridere il “Corrierone”, e invece tutto questo è “cerchiobottismo” autentico, frutto pregiato del quotidiano che fu tratto dalle grinfie della P2 da Alberto Cavallari ed oggi è mirabilmente condotto da Paolo Mieli e P.G. Battista (quello che pontifica sul doppiopesismo), intanto che dietro le quinte, figure preclari ….stanno.
Spero di non invadere troppo la mail aggiungendo articoli in tema, di Carlo F. Grosso, Giuseppe De Rita, Guido Crainz, ed Eugenio Scalfari. (L’intento è quello di offrire anche a chi li ha letti, una comoda possibilità di archiviarli).
Buona domenica, vittorio melandri
Riequilibrio dei poteri La Stampa 27/12/2008
di CARLO FEDERICO GROSSO
Catanzaro, Salerno, Pescara: tre pagine poco esaltanti di esercizio del potere giudiziario, tre Procure che, con modalità diverse, hanno reso un servizio pessimo all’immagine dell’ordine giudiziario. Poiché non si tratta di casi isolati di scarsa avvedutezza, un problema «magistratura» nel nostro Paese indubbiamente esiste. Si tratta di stabilire come affrontarlo.
Da tempo una parte della politica sta affilando le armi contro i magistrati poiché, sostiene, occorre riequilibrare i rapporti di potere fra giustizia e politica, sbilanciati a favore della prima. È ora di farla finita, si precisa, con una magistratura senza controlli, in grado d’interferire pesantemente sulla politica e capace di fare e disfare amministrazioni e governi con il gioco delle inchieste giudiziarie. È accaduto ai tempi di Mani pulite, ora basta. Quest’idea affiora oggi, talvolta, anche tra le file della sinistra. Non si tratta, ancora, di linee politiche ufficiali. Tutt’altro: ufficialmente a sinistra si nega e si rifiuta. Il rischio, peraltro, è che in un quadro politico contraddistinto da una maggioranza apparentemente granitica e da una minoranza divisa e disorientata, la prospettiva di un’ampia impunità degli atti politici attraverso il parziale controllo di indagini e indagatori possa fare improvvisamente breccia e trovare il suo sbocco in una sorta di autoassoluzione collettiva.
La posta in gioco è rilevante. Sono in discussione le fondamenta dello Stato di diritto, la divisione dei poteri, l’eguaglianza dei cittadini. Essa appare, d’altronde, tanto più rilevante ove si consideri che, contemporaneamente, si vocifera di modificazioni dei regolamenti parlamentari o di riforme costituzionali destinate a rafforzare l’esecutivo rispetto a un Parlamento giudicato un intralcio per un’efficiente azione di governo. Già oggi, d’altronde, attraverso l’impiego ripetuto del voto di fiducia, l’esecutivo cerca di troncare il dibattito parlamentare eludendo la normale dialettica con l’opposizione, mentre soltanto la resistenza del Presidente della Repubblica evita che la decretazione d’urgenza diventi strumento sistematico di produzione legislativa. Qualcuno, giorni fa, ha parlato di tenace ricerca di un potere sostanzialmente unico, del governo e del suo capo.
Ma torniamo al tema giustizia. C’è un nodo fondamentale attorno al quale occorre riflettere: che il politico, come ogni altro cittadino, deve essere soggetto alla legge e non può godere di odiosi privilegi. Un ministro che ruba, un presidente di Regione che prevarica, un sindaco che accetta indebitamente denaro deve essere punito, come deve essere punito chi scippa, rapina, violenta. Anzi, se una ruberia è commessa da un eletto, la giustizia dovrebbe essere inflessibile, in quanto l’autore ha tradito la fiducia che gli è stata riconosciuta con il voto.
In questa prospettiva, parlare di riequilibrio dei poteri tra politica e magistratura, di conseguente limitazione delle indagini nei confronti degli eletti, di selezione politica dei reati annualmente perseguibili, di sottrazione ai pubblici ministeri del controllo della polizia, di limitazione nell’uso di strumenti fondamentali come le intercettazioni in materia di reati contro la pubblica amministrazione è del tutto privo di senso. In realtà, occorrerebbe rivedere la stessa disciplina dell’autorizzazione alle misure cautelari nei confronti dei parlamentari, che una prassi lassista tende a dilatare rispetto ai limiti stabiliti del fumus persecutionis.
Per altro verso, occorre invece reprimere gli arbitrii, gli eccessi, gli errori, le arroganze dei magistrati. Non è tollerabile che l’incapacità, l’inadeguatezza, la scarsa avvedutezza di qualcuno, la sua sicumera, la ricerca di visibilità, magari la stupidità, consentano eventuali aperture improprie di indagini penali, una loro prosecuzione non giustificata, iniziative improvvide sul terreno cautelare. Questo problema non concerne tuttavia, specificamente, il rapporto fra giustizia e politica; interessa tutti i cittadini, che, appunto tutti, hanno il diritto di non essere trascinati in procedimenti penali avventati, in giudizi non sufficientemente ponderati, in iniziative esorbitanti.
Ecco, allora, l’indubbia necessità di un intervento riequilibratore. Esso non deve essere, tuttavia, riequilibrio fra giustizia e politica, bensì fra esercizio del potere giudiziario e diritto di tutti i cittadini a una valutazione giudiziaria seria e serena. Esso non può, per altro verso, incidere sul contenuto del controllo di legalità, che in uno Stato bene ordinato deve essere libero e indipendente, ma riguardare la verifica di correttezza dell’attività di pubblici ministeri e giudici e la conseguente attività disciplinare. Su questo piano il Parlamento dovrebbe essere finalmente drastico. Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, serie valutazioni attitudinali, controlli periodici, magari a campione ma penetranti, riorganizzazione manageriale degli uffici e della loro dirigenza, monitoraggio sull’attività compiuta da ciascun magistrato dell’ufficio, inflessibilità nella repressione disciplinare degli abusi, delle inerzie, degli errori. Tutto ciò che oggi non avviene, o che avviene poco o malamente, ma che, a garanzia di tutti i cittadini, dovrebbe invece inflessibilmente accadere.
POTERE E QUESTIONE MORALE
I vedovi del duello Corriere della Sera 27 dicembre 2008
di Giuseppe De Rita
Spero che qualcuno avverta la povertà del linguaggio unico, e forse del pensiero unico, che impera sull’argomento denominato «questione morale ». Una povertà dove si annida il rischio che, girando e rigirando mediaticamente nobili o allarmate parole, si vada da nessuna parte, fino a quando alla fiammata moralistica subentrerà un accentuato cinismo. Un rischio che merita quindi uno sforzo di diversa interpretazione. Nelle vicende di questi mesi (come in quelle del ’92-’93) è in atto la trasposizione allargata della politica non nella guerra ma nella violenza, secondo la reinterpretazione di Clausewitz fatta da Aron e Girard.
La voglia di annientamento del nemico, vero fine di ogni violenza (anche di quelle giudiziarie e mediatiche) avviene ogni giorno, mettendo in grande evidenza anticipazioni e intercettazioni. Ma contrariamente a quindici anni fa non sembra esserci oggi un compatto disegno politico di annientamento del nemico, ma piuttosto una tendenza a far rifluire i fenomeni in due tipiche categorie italiane: il policentrismo e il localismo. Qualche moralista dirà che son due categorie che non c’entrano in una vicenda che è solo e soltanto un drammatico duello fra ladri e guardie, fra scatenati mascalzoni e ordinati servitori dello Stato.
Ma a ben vedere «il duello», come confronto biunivoco a due parti (ad esempio, fra berlusconismo e antiberlusconismo), non c’è più. Le vicende di cui si parla sono tanti duelli incrociati: fra politici e magistrati; fra politici fra di loro e magistrati fra di loro; fra mezzi di comunicazione di massa e politica; fra autorità politiche centrali e periferiche; fra poteri di rappresentanza sociopolitica e poteri forti, magari occulti. Siamo cioè in presenza di una lotta a tanti protagonisti, in una inestricabile confusione di ruoli e poteri. Tutti i soggetti in campo pensano di star facendo un duello con un solo avversario (con il presidente regionale o con il collega procuratore) e non si sono accorti che il concetto di duello fra due forze contrapposte è finito da un pezzo, anche sul piano internazionale, in ragione di un crescente policentrismo dei poteri e dei conflitti. Sbagliano quindi coloro che sperano che il duello finisca con l’annientamento dell’avversario; in un sistema policentrico l’annientamento assoluto non esiste, ci sono solo morti e feriti. La storia, procede, e la gestiranno solo coloro che sapranno combinare la violenza con le armi della politica. Il resto è spettacolo, drammatico e attraente, ma spettacolo. E purtroppo fa parte dello spettacolo anche la nostra invincibile dimensione localistica. La lettura dei documenti giudiziari e delle intercettazioni allegate è esercizio deprimente: vince il volgare vernacolo (e «la lingua è la forma del pensiero»); vincono le locuzioni mirate all’omertoso «ci capiamo »; sono costanti i riferimenti a circuiti e consorterie locali; vincono le «chiacchiere», grande capitale sociale della nostra provincia; cresce lo sdegno per piccoli privilegi di persone e clan; si capisce come, nel montarsi emozionalmente a vicenda, maturi nella gente l’attesa di un vendicatore (giudice o giornalista che sia).
Il magistrato di procura finisce per diventare il riferimento obbligato e atteso dei mormorii localistici, che si trasmettono prima nelle sue orecchie e poi nelle sue inchieste. Non a caso queste diventano sue gelose proprietà e fanno parte del suo prestigio personale: tenerle alte è la migliore difesa, perché tenerle basse potrebbe dar luogo a chiacchiere deluse delle comunità. La dialettica sociale della comunità resta quindi il riferimento costante di tante nostre vicende giudiziarie, insieme al policentrismo dei poteri. Se non si avvia una faticosa politica su questi due riferimenti (articolando i poteri ed i loro controlli) non si andrà da nessuna parte. Si attiveranno solo ulteriori duelli, avvertiti come «epocali» solo da chi ne è coinvolto.
LA CORRUZIONE E LE SUE RADICI la Repubblica
sabato, 27 dicembre 2008
le origini di un fenomeno che affligge l’Italia dagli anni settanta
storia di un’infezione nazionale la corruzione
La “normale” violazione della legalità rimanda a vicende antiche del nostro Paese
La “diversità” comunista oggi appare come un reperto archeologico
di GUIDO CRAINZ
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Il riemergere della corruzione come nodo politico e la diffusione della “normale” violazione della legalità (la “corruzione inconsapevole” di cui ha parlato Roberto Saviano) inevitabilmente rimandano ad un rapporto di lungo periodo fra sistema politico e Paese. E il largo coinvolgimento del centrosinistra rinvia non alle confuse vicende di anni recenti ma ad una storia più antica.
La “diversità” comunista appare oggi reperto archeologico ma non è inutile interrogarsi sulle modalità del suo incrinarsi ed esaurirsi. Conviene partire da anni insospettabili, ad esempio dallo scenario degli anni Settanta: più esattamente, dal momento in cui le tangenti petrolifere ai partiti di governo rendono evidente il delinearsi di una corruzione sistematica e non episodica. È illuminante il dibattito che si svolge nella Direzione del Pci proprio nel 1974, in relazione alla legge sul finanziamento pubblico ai partiti varata sull’onda di quello scandalo.
L’iniziale e periferico coinvolgimento del Pci in pratiche illegittime è registrato con estrema preoccupazione, e in autorevoli interventi il finanziamento pubblico è visto come possibile strumento di una duplice autonomia: da un lato dall’Urss, dall’altro dalle pressioni illecite - e non sempre respinte - sulle amministrazioni locali. Alla luce di questi e altri non piccoli segnali, l’insistenza dell’ultimo Berlinguer sulla diversità comunista ci appare oggi non tanto l’orgogliosa sottolineatura di una solidissima realtà quanto l’appassionato e quasi angosciato appello ad un dover essere, l’aggrapparsi ad un elemento che vedeva scolorirsi sotto i suoi occhi. E che gli era apparso sin lì il più sicuro antidoto a quel degrado del sistema politico che stava conoscendo forti accelerazioni. Già nel 1980 su questo giornale Massimo Riva annotava che «il radicarsi della corruzione dentro le strutture dello stato» appariva senza «precedenti storici che possano consolare». Nello stesso anno Italo Calvino regalava ai lettori un lucidissimo Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti che iniziava così: «C’era un paese che si reggeva sull’illecito». Sempre allora Ernesto Galli della Loggia su Mondo Operaio vedeva delinearsi una «uscita dalla legalità dell’intera classe dirigente». Ed è dell’anno successivo la appassionata denuncia di Berlinguer nell’intervista ad Eugenio Scalfari riproposta nelle sue parti essenziali da la Repubblica di domenica scorsa. Voci differenti, come quelle che nel corso del decennio segnaleranno con allarme crescente, nel diffondersi di arresti e processi, una degenerazione inarrestabile, un salto di qualità impensabile pochi anni prima.
A rileggere cronache giudiziarie e acute analisi giornalistiche c’è da chiedersi semmai perché il ciclone di Tangentopoli sia venuto solo così tardi. Nel 1986, ad esempio, sempre su queste pagine Giovanni Ferrara osservava: «Il legame di fiducia fra i partiti e l’opinione pubblica è ormai teso al punto di spezzarsi: come in una corda marcita molti fili sono già rotti ed ogni giorno ne salta ancora uno». E nello stesso anno Giorgio Bocca analizzava bene la “cultura della corruzione”: nelle parole degli imputati ai processi, annotava, le tangenti appaiono «necessarie come il lievito alla panificazione». Bocca si riferiva allora a Milano, e quattro anni dopo Giampaolo Pansa poteva parafrasare in un titolo - Milano corrotta, nazione infetta - la storica denuncia dell’Espresso degli anni Cinquanta relativa alla Roma della speculazione edilizia. È un titolo del 1990, non del 1992. Poco dopo ancora Bocca annotava: «L’assenza di regole domina ovunque, anche nella “capitale morale”. E siamo qui nell’angoscia, nell’umiliazione di un nodo che sembra irrisolvibile».
Non mancavano riflessioni ancor più generali. Nel declinare degli anni Ottanta Silvio Lanaro iniziava una densa ricognizione storica (L’Italia nuova, Einaudi 1988) imponendo al lettore dati impietosi: da un lato il volume significativo ormai raggiunto dal “reddito da tangenti” (di poco inferiore, si valutava, a quello di estorsioni e ricatti, o al bottino complessivo di furti e rapine); dall’altro l’immagine di un Paese privo di regole e consapevole di esserlo. Poi, negli anni di Tangentopoli, le riflessioni sull’identità italiana si intensificano e si addensano, alimentate anche dalla irruzione sulla scena della Lega. Già nel 1991 Pietro Scoppola ne La Repubblica dei partiti (Il Mulino) tracciava una ricostruzione disincantata e quasi sofferente del declino di un sistema politico nel quale aveva creduto a lungo (e ancora voleva credere). Nel 1993 esce Se cessiamo di essere una nazione di Gian Enrico Rusconi (Il Mulino), che si annuncia sin dal titolo, mentre Lorenzo Ornaghi e Vittorio Emanuele Parsi annotano: «Nessun discorso sull’Italia repubblicana può scansare la domanda se la nostra società possa dirsi davvero una società. O se mai lo sia stata» (La virtù dei migliori, Il Mulino). Ancora nel 1993 La grande slavina di Luciano Cafagna (Marsilio) offre ulteriori e stimolanti affondi, dando non effimero fondamento al giudizio che Giuliano Amato pronunciava allora dimettendosi da Presidente del Consiglio (e suscitando polemiche). Nella crisi degli anni Novanta Amato vedeva infatti la fine di «quel modello di partito-Stato che fu introdotto in Italia dal fascismo e che la Repubblica aveva finito per ereditare», sostituendo il partito unico con un sistema pluralistico sì ma partitocratico (e alla partitocrazia come lascito del fascismo era appunto dedicato un capitolo del pamphlet di Cafagna). Al di là di polemiche e toni d’epoca è difficile negare che abbiano avuto prepotente impulso se non origine nel ventennio il diffondersi della politica come mestiere e al tempo stesso la confusione fra interessi dello Stato e interessi del partito (un partito onnivoro come il Pnf, contornato di istituti ed enti). Di lì a poco Eugenio Scalfari toccava un nodo centrale chiedendosi: «Qual è stato il momento nel quale una società operosa e dinamica si è trasformata in un immenso verminaio collettivamente dedito alla dilapidazione delle risorse e al malaffare fatto sistema?». Con molte ragioni collocava questa «grande mutazione genetica» negli anni Sessanta, cioè nella tumultuosa trasformazione che aveva posto fine all’Italia arcaica e contadina. Ci sarebbe voluta una classe dirigente moralmente e professionalmente adeguata, aggiungeva, per governare quel processo: «In assenza di essa, tutti i valori sono andati dispersi, tutte le regole calpestate, tutti i rapporti imbarbariti».
In questi e altri interventi, dunque, la critica al sistema dei partiti si legava strettamente ad un più generale esame di coscienza e su La Stampa Norberto Bobbio osservava: «Una fine così miseranda [della “prima Repubblica”] è l’espressione del fallimento di tutta una nazione». Sul Corriere della Sera Giovanni Raboni si chiedeva Ma noi dove eravamo?, mentre Claudio Magris annotava: «Da qualche tempo si avverte quasi fisicamente, per la prima volta, la possibilità che il Paese si dissolva e che tra breve l’Italia, nella sua attuale forma politico-statuale e quindi anche culturale, possa non esistere più». Dal canto suo Galli della Loggia si interrogava sulla “solitudine interna” di una società che non riesce a «scorgere in se stessa alcuna fonte vera di orientamento a cui rivolgersi» e aggiungeva poi: la «corruzione dall’alto» si incontra con quella che «proviene dal basso, dagli strati profondi della società italiana (...) i politici, gli industriali, gli alti burocrati hanno potuto fare mercato della cosa pubblica perché tutti gli italiani, senza distinzioni, da sempre tendono a usare il pubblico in modo del tutto privato».
Alla lunga distanza c’è da chiedersi perché domande così radicali non abbiano trovato allora molti interlocutori, e in larghi settori dell’opinione pubblica siano state poi sepolte dall’illusione in una salvifica “seconda Repubblica”. Quella illusione ha lasciato un retrogusto amaro e viene alla mente quel che Guido De Ruggiero scriveva nel 1944, nella Roma più precocemente liberata: attorno a sé scorgeva infatti i segni di “un regime in sfacelo più che di una democrazia in divenire”. Così ci appare oggi anche l’Italia dei primi anni Novanta e c’è da riflettere a fondo non solo sui processi che hanno attraversato in questi ultimi quindici anni il sistema politico ma, più ancora, su quelli che hanno attraversato l’intero paese.
LA TRISTE STORIA DELL’ITALIA CORROTTA la Repubblica domenica, 28 dicembre 2008
di EUGENIO SCALFARI
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L’ITALIA è una nazione corrotta? Da sempre o da quando? E corrotto il popolo, la società nel suo complesso? Oppure è corrotta soltanto la classe dirigente del Paese e il popolo assiste, passivo e stupefatto, a questo devastante fenomeno?
Questo gruppo di domande è di nuovo alla ribalta, il tema è di nuovo di incalzante attualità e si torna a parlare dei mezzi necessari a porvi rimedio; il governo ha messo all’ordine del giorno la riforma della giustizia con il dichiarato obiettivo di affrontare le malformità dell’ordine giudiziario e di stroncare l’immoralità dilagante: un soprassalto degno di nota poiché il capo del governo è uno degli esempi più vistosi dell’immoralità pubblica o almeno così è percepito da una parte rilevante della pubblica opinione.
Appena ieri la questione morale è stata presa di petto da Giuseppe De Rita sul «Corriere della Sera» e da Guido Crainz su «Repubblica».
Quest’ultimo ne ha addirittura fatto la storia citando coloro che se ne sono occupati a partire dal 1970, molto prima della nascita di Tangentopoli che ebbe inizio nel 1992 e che contribuì ad affondare la Prima Repubblica senza tuttavia riuscire ad estirpare la corruzione che continua come e più di prima a devastare la fibra del Paese. Siamo dunque condannati senza scampo a portarci appresso questa piaga purulenta che resiste ad ogni medicina e ad ogni chirurgia?
In realtà il fenomeno è molto più antico, le sue radici affondano non già nel passato prossimo ma in quello remoto. Molto prima dell’ultima guerra e molto prima del fascismo, l’Italia liberale e monarchica era infetta nelle midolla e non mancavano neppure allora intellettuali e artisti che denunciavano con parole di fuoco il trasformismo e la corruzione. Gabriele D’Annunzio apostrofava Nitti con il soprannome di «cagoia», Salvemini prima ancora lanciava contro Giolitti pesantissime accuse.
A monte la questione morale aveva travolto Crispi e lo scandalo della Banca Romana aveva coinvolto addirittura la monarchia.
«I Vicerè», il grande romanzo storico di De Roberto è un documento spietato del malaffare nelle classi dirigenti meridionali. Lo Stato unitario ancora non esisteva ma la corruzione infestava da tempo il regno borbonico e quello papalino. Per non parlare della «romanità»: l’impero dei Cesari, anche nella fase gloriosa degli inizi e ancora più indietro risalendo a Pompeo, Catilina, Mario e alla schiera dei proconsoli che depredavano le provincie a beneficio dei propri patrimoni, fu un «combinat» di forza militare e di corruttela pubblica. Nel «De Bello Jugurtino» Sallustio fa dire a Giugurta, re di Numidia, la storica frase: «Roma, venderesti te stessa se trovassi un compratore».
Dunque esiste una vocazione fatale alla corruttela che inchioda da più di due millenni la nazione latina e poi quella italica e italiana a questa peste devastante?
* * *
Mettiamo da parte la Roma dei proconsoli e dei Cesari: depredò i sudditi a vantaggio dell’erario e dei suoi titolari come è stato fatto da tutti gli imperi. Restiamo all’Italia moderna.
Qui da noi lo Stato unitario ha avuto una presenza evanescente, estranea, lontana, vissuto più come sopraffattore che come garante del patto sociale. Più come autore di violenza che tutore di legalità. Il popolo non ha partecipato ma ha soltanto assistito alla nascita dello Stato. Quando esso si costituì il 75 per cento della popolazione era formata da contadini. Fuori dalle istituzioni, fuori dal mercato. Consumavano le poche derrate che producevano, non avevano ospedali, non mandavano i figli a scuola, le sole presenze istituzionali erano i carabinieri e gli agenti delle imposte. E i preti.
Non facevano notizia i contadini. Nascevano, figliavano, morivano.
L’opinione pubblica rappresentava soltanto il 25 per cento. Proprietari fondiari, commercianti, industriali, magistrati, professionisti, maestri e docenti, impiegati.
Da questa fetta sottile della società emergeva la classe dirigente, i capi delle amministrazioni locali e nazionale, gli ufficiali dell’esercito, gli imprenditori. Insomma la borghesia e la piccola borghesia. I deputati.
Lo Stato galleggiava sulla società la quale a sua volta galleggiava sulla moltitudine dei contadini e sui primi nuclei della classe operaia.
Lo Stato non era un simbolo né lo era la Patria. Per la maggior parte quelle parole erano sconosciute, prive di significato. Per una parte minore erano depositi di potenza legale da occupare a proprio beneficio.
Domenica scorsa ho citato l’intervista del 1981 dove Enrico Berlinguer descrive l’occupazione dello Stato e delle istituzioni da parte dei partiti, ma avrei potuto citare quasi con le stesse parole Salvemini, De Viti De Marco, Maffeo Pantaleoni, Mosca, Pareto, Luigi Einaudi, Giustino Fortunato, di cinquanta e ottanta anni prima del leader del Pci.
La corruzione italiana è un fenomeno che deriva direttamente dall’estraneità dello Stato rispetto al popolo, dall’esistenza d´una classe dirigente barricata a difesa dei suoi privilegi, dall’appropriazione delle risorse pubbliche da parte dei potenti di turno, dal proliferare delle corporazioni con proprie deontologie, propri statuti, propri privilegi; dalla criminalità organizzata e governata da leggi e codici propri. Infine, in assenza di una legalità riconosciuta, dalla necessità di supplire a quell’assenza con la corruzione spicciola, necessaria per mitigare l’arbitrio con la compravendita di indulgenze civili come da sempre ha fatto la Chiesa con le indulgenze religiose.
* * *
Mi domando se la corruzione pubblica sia un fatto solo italiano. L’ovvia risposta è no, non è solo un fatto italiano, s’incontra in tutti i paesi, dove c’è la democrazia e dove c’è la dittatura, con economie mature o sottosviluppate. Dovunque i titolari del potere si appropriano d’una quota in più di quanto gli spetterebbe, dovunque i furbi accalappiano gli allocchi i quali cercano di rivalersi sui più allocchi di loro. Ma in Italia c’è un elemento aggravante in più: la fatiscenza dello Stato, la debolezza delle istituzioni di garanzia, l’evanescenza dello stato di diritto.
Qui la verità storica impone tuttavia un approfondimento dei fatti come si sono sviluppati nel corso del tempo. C’è stato nell’ultimo secolo un graduale aumento di partecipazione del popolo alla vita pubblica, un inizio di radicamento delle istituzioni nella società.
Quest’azione educativa ha avuto come promotori il movimento socialista, il partito comunista italiano, il movimento sindacale. Nell’ultimo cinquantennio vi è stato anche un forte contributo da parte dei cattolici democratici che hanno vinto i «non possumus» emanati per oltre mezzo secolo dal Papato contro lo Stato, con il nefasto effetto di confiscare la libertà politica dei cattolici separandoli dalle istituzioni del loro paese: un fatto tutt’altro che marginale (che registra purtroppo alcuni attuali ritorni all’indietro) senza riscontro nelle democrazie d’Europa e d’America.
* * *
Se c’è stato - e c’è sicuramente stato - un processo di sviluppo democratico, esso è dovuto in larga misura alla sinistra italiana. Tanto maggiore è quindi la preoccupazione più che mai attuale di assistere ad uno scadimento anche nella sinistra per quanto riguarda gli standard di moralità.
Probabilmente lo scadimento è stato ingrandito dall’avventatezza di magistrati che dal canto loro hanno smarrito in alcune circostanze i criteri di prudenza doverosi negli accertamenti di supposti reati. I partiti dal canto loro hanno abbassato la vigilanza consentendo che il malaffare entrasse anche in luoghi politici che finora gli erano stati preclusi.
Ma la vera causa è quella indicata a suo tempo da Berlinguer: le forze politiche non debbono occupare le istituzioni, gli organi di garanzia debbono vigilare e colpire senza riguardo ai colori di bandiera, la magistratura deve funzionare come organo di controllo della legalità, la stampa deve imparare meglio e di più il suo officio di contropotere.
Da questo punto di vista una riforma della giustizia s’impone e dovrà concentrarsi su tre obiettivi:
1. la riforma del processo penale e civile affinché sia resa giustizia in tempi ragionevolmente brevi; questo è un obiettivo essenziale che i cittadini reclamano e senza il quale non si avrà alcuna riforma degna del nome.
2. Il conferimento dell’azione penale nelle mani del capo della Procura, che distribuisca il lavoro ai suoi assistenti con criteri certi e oggettivi.
3. La separazione delle funzioni tra magistrati inquirenti e giudicanti senza tuttavia dividere in due l’ordine giudiziario al quale tutte e due quelle funzioni appartengono.
Ieri il presidente del Consiglio, con una più che mai vistosa capriola rispetto a quanto aveva appena detto, ha modificato l’ordine delle priorità del governo: alla ripresa dei lavori parlamentari ci sarà anzitutto il federalismo fiscale; la riforma della giustizia verrà dopo.
Quanto al presidenzialismo, per ora è uscito dalla tabella delle priorità.
Evidentemente la Lega e Fini hanno prevalso sulla fretta di Berlusconi di stringere i tempi della svolta autoritaria. Anche la libera stampa ha contribuito a questa svolta di saggezza e vi ha contribuito soprattutto la ferma resistenza dell’opposizione a minacce e lusinghe.
Né le une né le altre sono mancate. Il fatto che non abbiano avuto successo dà buone speranze per il futuro.
ruffolo: i nodi cruciali del PD
I nodi cruciali del partito democratico
Data di pubblicazione: 23.12.2008
Autore: Ruffolo, Giorgio
Il commento sulle ultime vicende del PD riconduce ai tre nodi irrisolti della politica italiana. Da la Repubblica, 23 dicembre 2008 (m.p.g.)
La direzione del partito democratico ha retto bene allo shock. Con una relazione del Segretario non reticente e ben motivata. Con un dibattito serrato e dignitoso. Tento di individuare quelli che a me sembrano i nodi cruciali emersi in quel dibattito.
Il primo riguarda, ovviamente, la "questione morale". Non si tratta della replica di "mani pulite". Quella riguardava il finanziamento dei partiti a partire dal loro centro e si diramava nelle loro articolazioni. Il partito socialista ne fu la principale vittima. Era stato investito da una ondata di immorale volgarità prima, e fu travolto poi dalla "vendetta fraterna" comunista. Questa attuale nasce alla periferia del sistema, nelle amministrazioni regionali e comunali che hanno accumulato, specie in alcuni settori, come quello sanitario, un enorme potere autonomo, gestito in modo arbitrario e incontrollato da dirigenti di partito locali. È il problema che Scalfari denuncia, ricordando Berlinguer, dell´invadenza dei partiti nella società, il quale va affrontato in due modi: recidendo i conflitti di interesse tra responsabilità politiche e gestioni amministrative, restituite alla normale selezione professionale; e esercitando all´interno del partito una rigorosa selezione morale nella scelta dei propri dirigenti. Mi pare che il problema sia stato posto correttamente in questi termini. Ma, come si dice, the proof of the pudding is in the eating: per sapere se la minestra è buona bisogna mangiarla.
Il secondo è il problema dei rapporti tra giustizia e politica: che si condensa ma non si esaurisce per il Pd nei rapporti con un alleato scomodo. È essenziale per i democratici distinguere nettamente la legalità dal giustizialismo. Nel furore delle tricoteuses, quelle storiche e quelle contemporanee, c´è sempre stato il germe di un autoritarismo di sinistra, simmetrico a quello populista di destra. Qui, la questione è rimasta sospesa a metà.
La terza è la questione socialista europea. Il partito democratico si afferma europeista e riformista. Ora, la sinistra riformista europea si identifica essenzialmente con lo schieramento socialista. I partiti socialisti europei comprendono in grande parte, anche quelle istanze di riformismo liberale e cristiano che in Italia rivendicano una loro rappresentanza autonoma. E accettano di riconoscerle in una ridefinizione ampliata del gruppo socialista nel Parlamento europeo. Al rischio di morire socialisti corrisponde, per gli irriducibili che si oppongono anche a questa soluzione, quello di morire in un poco splendido isolamento in Europa. La questione non è stata risolta.
La questione federalista. C´è chi rimpiange, secondo me a ragione, che l´unità d´Italia sia stata compiuta non nel segno del federalismo di Carlo Cattaneo, e, aggiungo io, neppure in quello dell´unità repubblicana di Giuseppe Mazzini, ma in quello dell´annessionismo sabaudo. La storia non ammette repliche. Ma correzioni e riforme, sì. Ora, la peggiore riforma sarebbe quella di un federalismo separatista, ridotto al tema della ripartizione della fiscale: mentre l´essenza del federalismo sta in un patto nazionale unitario, da cui derivare spazi di autonomia, e impegni di solidarietà. Mi sembra che questa sia la posizione prevalente nel Pd. Ma sono emerse anche tentazioni di istituire sub-partiti territoriali, fatti apposta per complicare con nuove strutture di accentramento intermedio la già complicata rete di comunicazione interna.
La questione mercatistica. È stata unanimemente riconosciuta la natura strutturale di quella che appare sempre più una crisi capitalistica mondiale. Ma a questo riconoscimento non segue l’impegno a una risposta di livello corrispondente: e ciò non riguarda solo il Partito democratico, ma tutta la sinistra. Si chiede oggi allo Stato, soprattutto da quelli che lo denunciavano non come la soluzione ma come il problema, di risolvere il problema, pagando il conto della crisi per poi togliere subito il disturbo. Poiché questi squilli non si odono solo a destra, ma anche a sinistra è lecito chiedere al partito democratico se, oltre all’intimazione di non morire socialisti, sia anche previsto l’impegno a vivere liberisti. Oppure prevalga la autentica risposta riformista: un mercato davvero libero (da monopoli e da corporativismi) in uno Stato non gestore ma programmatore. Una risposta sembra rinviata alla prossima Conferenza programmatica del Pd.
La questione laica. Il conflitto tra popolari e socialisti, che ha radici storiche, ha strascichi perduranti nel partito democratico. L’offensiva integralista della Chiesa di Benedetto XVI non è fatta per attenuarli. Non saranno definitivamente superati se non sarà chiara la distinzione tra questioni attinenti alla morale religiosa, sempre oggetto di doverosa attenzione, e comandamenti del Vaticano inammissibili dalla sovranità nazionale. La questione è ancora aperta.
C’è infine il problema del rapporto con l’opposizione. Da tante parti si leva il monito a smetterla con l´antiberlusconismo. Bisogna chiarire. Se per berlusconismo s´intende la vulgata macchiettistica (corna, barzellette, gallismo) la si può impunemente relegare nel folklore. Ma l´essenza del berlusconismo sta nel gigantesco intreccio di potere (non semplice conflitto di interesse) tra pubblico e privato. Questo è un pregiudizio fondamentale della democrazia che è colpa gravissima della sinistra di avere a suo tempo trascurato. È un problema aperto. Anche e soprattutto per il partito democratico.
Data di pubblicazione: 23.12.2008
Autore: Ruffolo, Giorgio
Il commento sulle ultime vicende del PD riconduce ai tre nodi irrisolti della politica italiana. Da la Repubblica, 23 dicembre 2008 (m.p.g.)
La direzione del partito democratico ha retto bene allo shock. Con una relazione del Segretario non reticente e ben motivata. Con un dibattito serrato e dignitoso. Tento di individuare quelli che a me sembrano i nodi cruciali emersi in quel dibattito.
Il primo riguarda, ovviamente, la "questione morale". Non si tratta della replica di "mani pulite". Quella riguardava il finanziamento dei partiti a partire dal loro centro e si diramava nelle loro articolazioni. Il partito socialista ne fu la principale vittima. Era stato investito da una ondata di immorale volgarità prima, e fu travolto poi dalla "vendetta fraterna" comunista. Questa attuale nasce alla periferia del sistema, nelle amministrazioni regionali e comunali che hanno accumulato, specie in alcuni settori, come quello sanitario, un enorme potere autonomo, gestito in modo arbitrario e incontrollato da dirigenti di partito locali. È il problema che Scalfari denuncia, ricordando Berlinguer, dell´invadenza dei partiti nella società, il quale va affrontato in due modi: recidendo i conflitti di interesse tra responsabilità politiche e gestioni amministrative, restituite alla normale selezione professionale; e esercitando all´interno del partito una rigorosa selezione morale nella scelta dei propri dirigenti. Mi pare che il problema sia stato posto correttamente in questi termini. Ma, come si dice, the proof of the pudding is in the eating: per sapere se la minestra è buona bisogna mangiarla.
Il secondo è il problema dei rapporti tra giustizia e politica: che si condensa ma non si esaurisce per il Pd nei rapporti con un alleato scomodo. È essenziale per i democratici distinguere nettamente la legalità dal giustizialismo. Nel furore delle tricoteuses, quelle storiche e quelle contemporanee, c´è sempre stato il germe di un autoritarismo di sinistra, simmetrico a quello populista di destra. Qui, la questione è rimasta sospesa a metà.
La terza è la questione socialista europea. Il partito democratico si afferma europeista e riformista. Ora, la sinistra riformista europea si identifica essenzialmente con lo schieramento socialista. I partiti socialisti europei comprendono in grande parte, anche quelle istanze di riformismo liberale e cristiano che in Italia rivendicano una loro rappresentanza autonoma. E accettano di riconoscerle in una ridefinizione ampliata del gruppo socialista nel Parlamento europeo. Al rischio di morire socialisti corrisponde, per gli irriducibili che si oppongono anche a questa soluzione, quello di morire in un poco splendido isolamento in Europa. La questione non è stata risolta.
La questione federalista. C´è chi rimpiange, secondo me a ragione, che l´unità d´Italia sia stata compiuta non nel segno del federalismo di Carlo Cattaneo, e, aggiungo io, neppure in quello dell´unità repubblicana di Giuseppe Mazzini, ma in quello dell´annessionismo sabaudo. La storia non ammette repliche. Ma correzioni e riforme, sì. Ora, la peggiore riforma sarebbe quella di un federalismo separatista, ridotto al tema della ripartizione della fiscale: mentre l´essenza del federalismo sta in un patto nazionale unitario, da cui derivare spazi di autonomia, e impegni di solidarietà. Mi sembra che questa sia la posizione prevalente nel Pd. Ma sono emerse anche tentazioni di istituire sub-partiti territoriali, fatti apposta per complicare con nuove strutture di accentramento intermedio la già complicata rete di comunicazione interna.
La questione mercatistica. È stata unanimemente riconosciuta la natura strutturale di quella che appare sempre più una crisi capitalistica mondiale. Ma a questo riconoscimento non segue l’impegno a una risposta di livello corrispondente: e ciò non riguarda solo il Partito democratico, ma tutta la sinistra. Si chiede oggi allo Stato, soprattutto da quelli che lo denunciavano non come la soluzione ma come il problema, di risolvere il problema, pagando il conto della crisi per poi togliere subito il disturbo. Poiché questi squilli non si odono solo a destra, ma anche a sinistra è lecito chiedere al partito democratico se, oltre all’intimazione di non morire socialisti, sia anche previsto l’impegno a vivere liberisti. Oppure prevalga la autentica risposta riformista: un mercato davvero libero (da monopoli e da corporativismi) in uno Stato non gestore ma programmatore. Una risposta sembra rinviata alla prossima Conferenza programmatica del Pd.
La questione laica. Il conflitto tra popolari e socialisti, che ha radici storiche, ha strascichi perduranti nel partito democratico. L’offensiva integralista della Chiesa di Benedetto XVI non è fatta per attenuarli. Non saranno definitivamente superati se non sarà chiara la distinzione tra questioni attinenti alla morale religiosa, sempre oggetto di doverosa attenzione, e comandamenti del Vaticano inammissibili dalla sovranità nazionale. La questione è ancora aperta.
C’è infine il problema del rapporto con l’opposizione. Da tante parti si leva il monito a smetterla con l´antiberlusconismo. Bisogna chiarire. Se per berlusconismo s´intende la vulgata macchiettistica (corna, barzellette, gallismo) la si può impunemente relegare nel folklore. Ma l´essenza del berlusconismo sta nel gigantesco intreccio di potere (non semplice conflitto di interesse) tra pubblico e privato. Questo è un pregiudizio fondamentale della democrazia che è colpa gravissima della sinistra di avere a suo tempo trascurato. È un problema aperto. Anche e soprattutto per il partito democratico.
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