venerdì 7 ottobre 2016

Franco Astengo: Democrazia

DEMOCRAZIA, OLIGARCHIA, DEMAGOGIA di Franco Astengo Democrazia, Oligarchia, Demagogia sono i tre termini sui quali, galeotto il referendum, si sta sviluppando un serrato dibattito all’interno del quale le argomentazioni adottate dai fin qui illustri partecipanti mettono in luce la crisi verticale del sistema politico. Ciò accade non soltanto in Italia: in giro per il mondo, negli ultimi tempi, tutte le proposte avanzate dai governi sono state delegittimate dal voto dei cittadini, addirittura com’è avvenuto in Colombia sul tema della pace interna, in consultazioni referendarie pochissimo partecipate ( in Colombia ha votato il 37%, in Ungheria il 43%). In Italia, però, il quadro politico sembra essere avviluppato ormai attorno all’esito di questo referendum al riguardo del quale (al di là dei contenuti, peraltro pessimi) il comportamento dei proponenti pare proprio scavalcare il concetto di democrazia muovendosi attorno agli altri due elementi del dibattito: ci si propone con demagogia (guardiamo alla mistificazione riguardante i cosiddetti costi della politica) per consolidare un’oligarchia, del resto già operante da tempo. Alcuni si soffermano, nel deplorare questo stato di cose, sulla crisi verticale del partiti come soggetti portanti del sistema. In realtà nello specifico del “caso italiano” si fa fatica a orientare l’elettorato attorno alle coordinate di fondo che il quesito referendario propone. Allo scopo di fornire un contributo in questo senso mi permetto di proporre di seguito una riflessione su quello che fu, in sede di Assemblea Costituente, il compromesso costituzionale raggiunto, facendo precedere il testo da una premessa d’ordine generale. Una premessa dove si narra e si cerca di dimostrare come, in effetti, le deformazioni costituzionali che saranno sottoposte al voto referendario il prossimo 4 Dicembre, rappresentino un passaggio di complessivo superamento del dettato costituzionale. E’ falso che non viene toccata la prima parte, quella riguardante i diritti, ed è altrettanto falso che non vengono ampliati i poteri del premier: semplicemente sono diminuiti i poteri degli altri organi istituzionali, collettivi e monocratici. Difatti viene superata la concreta applicazione del fondamentale articolo 3 affidata dai Costituenti ad un Parlamento rappresentativo della realtà politico – sociale del Paese attraverso il sistema dei partiti nel frattempo smantellato attraverso l’affermazione inopinata della personalizzazione della politica e del concetto di governabilità ritenuto esaustivo dell’agire politico. Così si limita il potere del Presidente della Camera e della Conferenza dei capi - gruppo nello stabilire il calendario d’aula favorendo l’esecutivo mentre si pone in soggezione il Presidente della Repubblica eleggendo, surrettiziamente ma praticamente, il Premier attraverso il subdolo meccanismo del “capo della forza politica” che, tra parentesi, riunifica di fatto – attraverso la formula elettorale – il ruolo di segretario del partito e di Presidente del Consiglio. Nel concreto si realizza uno spostamento secco di potere dal Parlamento al Governo: proprio quello che l’Assemblea Costituente aveva voluto evitare (dopo un amplissimo dibattito sui temi di filosofia politica che afferiscono a questo delicatissimo tema). E’ grave, a dimostrazione che l’obiettivo di lor signori è proprio quello di usare la demagogia per rinsaldare l’oligarchia l’affermazione di Guido Crainz, apparsa sulle colonne di Repubblica. Secondo Crainz il dibattito è stato reso incandescente (dai sostenitori del NO, ovviamente) mentre avrebbe dovuto essere utilizzato per “rinsaldare il nostro essere comunità”. Una comunità inesistente, sottoposta alla sopraffazione di una oligarchia come sta avvenendo oggi nell’economia, nel sociale, nell’informazione, nella politica. Questo Crainz ( o chi per esso) dovrebbe sapere e non far finta di ignorare, a scopo propagandistico. Ecco allora quale sommaria esplicitazione nel merito: In questi giorni è uscito un importante saggio di Guido Formigoni per le edizioni del “Mulino” su “Aldo Moro, lo statista e il suo dramma”. Nel testo è riservato un ampio spazio circa ruolo e attività svolte da Moro nell’Assemblea Costituente, sia in aula, sia all’interno della Commissione dei 75, sia in quella redigente il testo conclusivo: risalta, nella lettura di questo lavoro, il tema del compromesso tra le diverse culture politiche presenti nell’Assemblea. Un compromesso situatosi a un livello molto alto perché da esso scaturì appunto la forma definitiva della Costituzione repubblicana. Se paragoniamo quel dibattito e quel compromesso con l’attualità, sia la riguardo del com’è sortita dal parlamento la deformazione costituzionale oggi in discussione nel referendum e la qualità del confronto che, attorno appunto al tema referendario, si sta sviluppando proprio in queste ore abbiamo la misura di quella che non si può far altro che definire come “differenza dei tempi”. Una semplice costatazione, beninteso, senza alcuna voglia di far passare idee nostalgiche ma reclamando la necessità di un’analisi più approfondita delle ragioni che, in allora, in tempi di ferro e di fuoco a livello di scontro politico, consentirono appunto l’elaborazione di un testo costituzionale provvisto di quella qualità che conosciamo entro la quale stavano elementi decisivi: preveggenza e capacità di durata. E’ quindi il caso, proprio in questo momento convulso, di ripercorrere i passi che portarono a quel compromesso: di aiuto in questo lavoro può risultare ancora il testo di Pietro Scoppola “La repubblica dei Partiti” uscito, sempre per il Mulino, nel 1991. Procedendo quindi per ordine. A quel compromesso di fondo si giunse attraverso un lungo processo che iniziò ancor prima dell’inizio dei lavori della Costituente. In una prima fase, fra il 25 Luglio 1943 e il luglio ‘ 44 (formazione del governo Bonomi espressione del CLN al posto del governo Badoglio) i partiti popolari interpretarono il forte sentimento antistatale della loro base legato alla stessa esperienza della guerra; in una seconda fase, fino alla Liberazione del Nord, si sviluppò un dibattito ideologico sul nuovo Stato, nella terza infine si posero le premesse del compromesso che – appunto – si sarebbe raggiunto in Costituente. Sui lavori della Costituente si è fatta ormai piena luce. In questa sede si potrà allora, molto schematicamente, accennare ad alcuni passaggi essenziali per porre in rilievo gli elementi specifici del compromesso. Il primo – che rimane di grande attualità – riguarda il “primato della politica”. Già nelle prime scelte concernenti l’organizzazione interna dell’Assemblea (ad esempio la composizione della stessa Assemblea dei 75) emerse il ruolo preminente della politica e il ruolo dei partiti rispetto a ogni altra considerazione di competenza tecnica: oggi, nel tipo di deformazioni che s’intende adottare per modificare il dettato costituzionale il prevalere di argomentazioni tecniche (presunto snellimento dei lavori d’aula, altrettanto presunta riduzione dei costi delle istituzioni, corsie preferenziali per i disegni di legge del governo) ci indicano con chiarezza quanto ci collochi bel al di fuori della profondità dell’ispirazione filosofica che mosse i componenti dell’Assemblea Costituente. Il secondo punto riguardò il tema della “persona umana” (in questo senso non fu votato un emendamento Dossetti attraverso il quale s’intendeva legare la Costituzione a una tradizione filosofica di ispirazione cristiana). Il contenuto di quell’emendamento divenne però, di fatto, il punto di riferimento essenziale per la definizione di quella che fu descritta come “ideologia comune”. Si raggiunse così, nella prima parte della Costituzione, una felice sintesi tra i diritti della tradizione liberale e i valori di solidarietà ai quali i tre grandi partiti popolari (DC, PSI, PCI) erano più sensibili sulla base di quanto implicava proprio il concetto di “persona umana”. Attenzione però: questa prima parte, riguardante i diritti (che oggi si afferma non essere toccata dalla deformazione costituzionale sottoposta a referendum) è strettamente connessa a un punto essenziale della seconda parte, quella riguardante la centralità dei partiti politici nel nuovo assetto costituzionale. Si affermò, in questo modo, dopo un dibattito molto serrato l’idea della democrazia parlamentare fondata sul concetto della pluralità della rappresentanza da realizzarsi attraverso i partiti. Questo orientamento era fortemente sentito all’interno della sinistra italiana (vale la pena di citare la relazione di Togliatti al Comitato Centrale del PCI del 27 – 28 febbraio 1947). In cambio dell’accettazione del principio di prevalenza dei partiti nell’organizzazione dello Stato costituzionale la sinistra accettò il bicameralismo, le autonomie locali, il controllo di legittimità costituzionale delle leggi da parte della Corte Costituzionale (Corte che entrò in funzione nel 1956; mentre per quel che riguardò l’ordinamento autonomistico vale ancora la pena di ricordare come le Regioni siano entrate in funzione nel 1970). In pratica si destinò l’attuazione del’articolo 3 rispetto all’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e alla rimozione delle cause di diseguaglianza sociale al riconoscimento comune del ruolo costituzionale dei Partiti. Si nota qui la profondità della distanza tra ciò che fu concordato allora in sede di Assemblea Costituente e lo “strappo” basato sul non riconoscimento reciproco che si vorrebbe imporre oggi affermando proprio una mal interpretata “vocazione maggioritaria”. In fondo l’essenziale era che tutti i partiti esistenti nel Paese fossero rappresentati nel Parlamento, avessero gli stessi diritti e doveri e che il Parlamento rispecchiasse fedelmente il Paese. Nella Costituzione non si pose il tema del “governo forte”, che invece è posto adesso attraverso le deformazioni in atto. Anzi si rifuggì dal tema del “governo forte” non tanto perché da pochi mesi si era usciti dall’inferno fascista, quindi per la paura del passato, ma per costruire nel futuro una prospettiva di democrazia avanzata non ridotta alla definizione di un potere “verticale”. Scelta che appare ancor più importante oggi allorquando appare evidente non tanto la distanza, ma proprio lo scontro tra il potere “verticale” forzatamente ricercato e una organizzazione sociale “orizzontale” che richiede il massimo di espressione della rappresentanza. Le deformazioni costituzionali che saranno sottoposte a referendum sono arrivate in conclusione di colossali pasticci combinati nel corso di questi anni:n il mutamento repentino del sistema elettorale, tentativo di imposizione di un bipolarismo coatto (formato da coalizioni infinite nella dimensione numerico – politica) fino alla promozione di un sistema nel quale la garanzia di governo dovrebbe essere fornita da un partito che vale più o meno il 20% dell’elettorato cui sarebbe consegnata la maggioranza assoluta della sola Camera deputata a fornire la fiducia all’esecutivo. Nel frattempo il sistema ha subito evidenti modificazioni: la partecipazione al voto è calata dal 90% al 60%, effetto di una crescente impopolarità dell’insieme delle espressioni organizzate del ceto politico e della distanza siderale tra la realtà sociale e i livelli di governo (elemento ormai questo di ampia rilevanza come abbiamo già segnalato anche a livello internazionale), i partiti si sono trasformati da “partito a integrazione di massa” a “catch all party” fino al “partito azienda”, “partito personale”, “partito leaderistico” e le primarie e le elezioni dirette degli organi elettivi monocratici (Sindaci, Presidenti di Regione denominati in maniera assolutamente impropria Governatori) hanno trasformato la soggettività dell’agire politico dalla ricerca dell’associazione collettiva a un esasperato individualismo competitivo. Naturalmente grande ruolo in questo processo hanno avuto i mezzi di comunicazione di massa, in primis la TV, e successivamente l’uso del web, l’utilizzo dei social network, ecc, ecc.: tema che in questa sede non si approfondisce per evidenti ragioni di economia del discorso. L’utilizzo smodato e insensato di media e social netwok ha comunque portato allo smarrimento da parte della stessa cognizione collettiva delle contraddizioni reali e della capacità da parte dei soggetti politici di legare la propria produttività programmatica all’insieme delle fratture operanti effettivamente nella società. Fratture anch’esse profondamente modificatesi nella loro realtà, attraverso l’avvento delle cosiddette fratture post – materialiste, l’affermarsi del pensiero femminista e di quello ambientalista, il ritorno ai localismi realizzando uno spostamento complessivo nella relazione storicamente individuata tra struttura e sovrastruttura. Si è così realizzata una duplice trasformazione: i partiti come semplici agenzie di costruzione di un ceto politico senza alcuna capacità di selezione della classe dirigente che non sia quella dell’apparire in luogo dell’essere; i cittadini ridotti (come scrive Manin nella “ Democrazia del pubblico”) a telespettatori tifosi di questa o di quella parte, privati completamente di luoghi di discussione, confronto sintesi, rispetto alla qualità complessiva e alla specificità particolare dei problemi politici. L’Assemblea Costituente legò la centralità esclusiva del ruolo dei partiti con la scelta (non posta nel testo costituzionale) del sistema elettorale proporzionale. Il sistema elettorale non fu posto in Costituzione ma si trattò (come, in effetti, avvenne) di una scelta destinata a caratterizzare in maniera duratura e particolarmente incisiva la costituzione materiale della Repubblica Italiana. Al contrario di ciò che accade adesso, dove l’incisività viene cercata attraverso artifizi (abnormità del premio di maggioranza, quota di parlamentari nominati) senza minimamente curarsi della “maniera duratura”: anzi, cercando modifiche in base a situazioni contingenti, se non sulla spinta di aleatorie proposizioni di sondaggi d’opinione, senza alcuna verifica politica di fondo. Nella sostanza l’Assemblea Costituente affidò l’applicazione della prima parte del dettato costituzionale afferente i principi e l’enunciazione dei diritti non al Governo ma al Parlamento, organizzato nella forma che si è cercato di descrivere secondo il concetto della centralità della rappresentanza politica. Emergeva così il sistema elettorale proporzionale quasi come una “necessità storica”, affidando anche ai partiti politici il compito di “educazione alla democrazia”. Sono questi i dati di conoscenza che sarebbe necessario recuperare per far sì che si arrivi, nell’occasione referendaria e acclarato il nesso tra deformazioni costituzionale e legge elettorale, all’espressione di un “NO” motivato proprio dalla necessità di riaffermare con forza l’essenza parlamentare della Repubblica Italiana. Il “NO” come punto di partenza indispensabile per progettare una vera e propria ricostruzione del sistema politico italiano nell’insieme di una necessaria, complessa, realtà di relazioni sociali oggi ormai inesistenti.

Nessun commento: