venerdì 21 ottobre 2016

Fortunato Cocco: Perché no

PERCHE’ NO Fortunato Cocco Dal sito Nens 1. La prima ragione è di carattere generale. Si tratta di una esigenza logica prima ancora che giuridica. Un sistema istituzionale fortemente coeso, quale è quello della Nostra Costituzione, in cui principi e valori sono organicamente connessi alle strutture, agli istituti e alle procedure, non tollera modifiche di vasta portata che incidano sui suoi pilastri fondamentali se non nell’ambito di una rivisitazione generale ed organica dell’intero impianto. Solo così sarà possibile garantirne coerenza, equilibrio di pesi e contrappesi, in una parola la tenuta democratica complessiva. Insomma, è ben possibile (anche se non auspicabile) un mutamento anche radicale dell’impianto del 1948, ma nel quadro di una “nuova” Costituzione nella quale siano calibrati adeguatamente equilibri complessivi per l’organicità e la tenuta democratica del nuovo sistema. Sul piano più strettamente giuridico, la Costituzione del 1948 sancisce tale divieto e non ammette modifiche che impattano in modo incoerente con i principi, con i valori fondanti del sistema stesso. E’ questo il senso dell’art. 139 con il suo divieto a mutare la forma repubblicana (“La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”). E’ questo, in qualche modo, il limite implicito dell’art. 138, che nel prevedere le procedure di approvazione di “leggi di revisione costituzionale” (e non di riforma della Costituzione) allude manifestamente ad aggiustamenti puntuali, pienamente coerenti e nell’alveo dei pilastri della nostra democrazia. Il progetto sottoposto a referendum – come del resto quello bocciato una decina di anni fa’ – tradisce proprio questa esigenza di fondo, affastellando modifiche di vasta portata, che rischiano seriamente di forzare la coesione del sistema e di far scivolare fuori dai cardini i pilastri della nostra democrazia parlamentare. Ammesso che le modifiche sottoposte a referendum non rappresentino un attacco immediato alla democrazia, esse avviano certamente una deriva incoerente con i principi e i valori repubblicani. E’ una deriva che potrebbe portarci in modo incontrollato verso forme istituzionali diverse da quelle del nostro impianto originario, o peggio verso forme pasticciate, prive dell’equilibrio, delle garanzie, dei pesi e contrappesi propri di ciascun regime di democrazia occidentale. 2. Nel merito, diversi profili della riforma destano gravi perplessità. Si può concordare o meno sulla esigenza di rivedere il “bicameralismo perfetto” della Costituzione del ’48. Ma la riforma del Senato – ammesso che il nostro regime istituzionale non abbia più bisogno di una “Camera di raffreddamento” – avrebbe dovuto tenersi su binari già sperimentati da altri Stati democratici. L’alternativa ad un puro e semplice regime monocamerale sarebbe stata quella di avviare una riflessione approfondita sul senso di una “Camera delle Regioni” in un assetto come il nostro in cui (lo si dirà meglio fra poco) il decentramento regionale non ha ancora attecchito. La soluzione è stata invece quella di creare una improbabile “Camera delle istituzioni territoriali” che risulta un novum fra le principali democrazie occidentali, affiancando ai senatori di estrazione regionale un limitato numero di senatori di origine comunale con la pretesa di dare spazio alla realtà multiforme delle città metropolitane e di 8000 comuni. Ruolo, struttura e funzioni disegnati dalla riforma per dar corpo al nuovo Senato sembrano del tutto disorganici ed incongrui. Dall’analisi delle norme risulta evidente che la mano riformatrice è stata guidata da due finalità: la prima, essenzialmente propagandistica, di fatto sbandierata come punta di diamante dell’impegno riformatore, di ridurre i costi della politica; la seconda, assai più sostanziosa, di consolidare la posizione del Governo intestando ad una sola Camera il rapporto fiduciario. Quella che sembrava la necessità preminente – semplificare il processo di formazione delle leggi - è venuta via via sbiadendo come esigenza primaria. Anche perché di fatto il Parlamento è stato in gran parte progressivamente espropriato, nella sostanza, delle funzioni legislative dall’abuso dei decreti-legge e dei voti di fiducia. Del resto, sia per la riduzione dei costi della politica, sia per l’accelerazione dei processi decisionali del Parlamento altre (e forse più adeguate soluzioni) avrebbero potuto essere adottate. Ad ogni modo, le incertezze, i ripensamenti e i compromessi nella revisione del Senato hanno portato a soluzioni che rendono poco vitale l’organo e confuso l’intero assetto del nuovo Parlamento. Neanche sulle modalità di nomina dei senatori vi sono certezze giacchè la decisione definitiva sulla scelta fra nomina dei senatori da parte dei Consigli regionali e elezione a suffragio popolare è stata rinviata ad una successiva legge bicamerale. Ci si è limitati per il momento ad una soluzione transitoria che, fra l’altro, prevedendo l’elezione all’interno degli attuali Consigli regionali sulla base di liste (evidentemente di partito), accentua il carattere partitico della scelta a scapito della rappresentatività delle istituzioni territoriali. Sul piano funzionale, non è impossibile preconizzare una rapida sclerotizzazione (come è accaduto per il CNEL?), di un organo il cui ruolo di raccordo fra potere centrale e istituzioni territoriali, duplicando le funzioni dell’attuale Conferenza Stato/Regioni/Autonomie locali, avrà nei fatti la stessa inconsistenza. Del resto, il catalogo delle funzioni che il progetto di riforma attribuisce al Senato è tanto ampio quanto ininfluente sui reali assetti di potere. Si va dalla partecipazione alla fase ascendente e a quella discendente delle decisioni dell’Unione europea ai poteri di controllo sulle nomine in uno sforzo evidente di compensare, con attribuzioni di facciata, la perdita di ruolo. Quanto alla partecipazione alla funzione legislativa, per dare spazio agli apporti del Senato sono state introdotte nuove tipologie di leggi, complicando di certo il quadro ma ampliando in modo irrisorio l’incidenza del Senato, che rimane ancorata alle sole leggi bicamerali. Il vero problema sarà quello di verificare nei fatti l’operatività di un Senato, composto da membri che svolgono contemporaneamente altre funzioni, nei Consigli regionali o nei comuni e nelle città metropolitane. 3. La sterilizzazione del Senato sposta l’ago della bilancia del potere a vantaggio del Governo,senza che siano stati introdotti per riequilibrare il sistema i necessari contrappesi né che siano stati potenziati gli istituti di garanzia, che rischiano al contrario di risultare indeboliti. Assume in questo quadro rilevanza particolare la legge elettorale, una legge ordinaria per la quale è prevista in Costituzione solo la possibilità del ricorso preventivo da parte di una minoranza parlamentare per valutarne la legittimità costituzionale. Non sono stati, però, introdotti in Costituzione parametri espliciti per valutarne la compatibilità con i principi della democrazia parlamentare. In nome della governabilità, sarà perciò ben possibile che una legge assicuri, per esempio, ad un partito con il 25-30 % dei voti la maggioranza assoluta dei deputati (come è con la recente legge elettorale varata contemporaneamente alla riforma costituzionale) e quindi il dominio dell’unico organo di decisione politica. Con la corsia preferenziale sono state ampliate le prerogative governative in campo legislativo. Nulla è però previsto per le opposizioni, a parte il già citato ricorso alla Corte per la legittimità delle leggi elettorali, che però, per dar peso ad uno statuto delle opposizioni, andrebbe esteso a tutte le leggi. I timori principali si addensano però sulle elezioni degli organi di garanzia. Con la diminuzione del numero dei senatori la platea dei grandi elettori chiamati a scegliere il Presidente della Repubblica e i componenti del Consiglio superiore della magistratura si riduce di circa un terzo. Nel caso del Presidente della Repubblica, la riduzione è ancora più drastica per la soppressione della disposizione che prevedeva la partecipazione dei rappresentanti delle Regioni scelti per l’occasione. Ma, soprattutto, il peso dei deputati all’interno del Parlamento in seduta comune è soverchiante, passando grosso modo da sei decimi a poco meno di nove decimi. Se, come è con l’attuale legge elettorale, il partito di governo disporrà alla Camera di una schiacciante maggioranza, questo pacchetto di voti potrebbe essere determinante, da solo, per l’esito dell’elezione. A partire dalla sua elezione potrebbe risultarne inficiato il ruolo del Presidente di rappresentante dell’unità nazionale e di garante imparziale delle regole della democrazia. Né vale opporre – come fanno, numeri alla mano, i fautori del sì – che è stato elevato a tre quinti il quorum per l’elezionee che quindi al partito di maggioranza mancherebbero comunque un centinaio di voti per fare da solo. E’ evidente che ciò che conta è la massa critica del pacchetto disponibile in partenza. Tanto più che il quorum viene calcolato, dal settimo scrutinio, sui votanti, consentendo il gioco delle assenze non casuali. Persino le nuove disposizioni sull’elezione dei giudici della Corte costituzionale, che ne attribuiscono separatamente tre alla Camera e due al Senato, rischiano di giocare a favore di un maggiore peso della maggioranza per l’effetto che deriva dal numero più limitato dei giudici da eleggere. 4. A distanza di 15 anni dalla riforma del Titolo V della Costituzione, le norme sull’assetto delle istituzioni territoriali e sui rapporti fra Stato e Regioni hanno subito una nuova revisione. Soppresse le province, costituzionalizzate le città metropolitane, si è provveduto soprattutto ad un nuovo riparto di competenze legislative e amministrative fra potere Centrale e Regioni, rovesciando l’impostazione della riforma precedente per tornare ad un modello centralistico vicino a quello iniziale del’48. Sul punto non c’è che da riprendere testualmente le osservazioni dei 52 costituzionalisti che all’indomani dell’approvazione della riforma in Parlamento annotavano: “L’assetto regionale della Repubblica uscirebbe da questa riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali). Il dichiarato intento di ridurre il contenzioso fra Stato e Regioni viene contraddetto perché non si è preso atto che le radici del contenzioso medesimo non si trovano nei criteri di ripartizione delle competenze per materia - che non possono mai essere separate con un taglio netto - ma piuttosto nella mancanza di una coerente legislazione statale di attuazione: senza dire che il progetto da un lato pretende di eliminare le competenze concorrenti, dall’altro definisce in molte materie una competenza “esclusiva” dello Stato riferita però, ambiguamente, alle sole “disposizioni generali e comuni”. Si è rinunciato a costruire strumenti efficienti di cooperazione fra centro e periferia. Invece di limitarsi a correggere alcuni specifici errori della riforma del 2001, promuovendone una migliore attuazione, il nuovo progetto tende sostanzialmente, a soli quindici anni di distanza, a rovesciarne l’impostazione, assumendo obiettivi non solo diversi ma opposti a quelli allora perseguiti di rafforzamento del sistema delle autonomie”. E in effetti, a prescindere dai dettagli , l’impianto della nuova riforma “modernizzatrice” riporta l’oscillazione del pendolo ai primi trent’anni di vita delle Regioni, quando le leggi-quadro e l’abuso di formule legislative che imponevano alle Regioni di adeguarsi comunque anche a regolamentazioni di dettaglio hanno fortemente compresso l’autonomia regionale. Oggi come norma di chiusura è stata introdotta la così detta clausola di supremazia che consente comunque alla legge dello Stato di intervenire anche in materie di competenza regionale quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale. Una impostazione che presta il fianco a molti abusi, ai quali solo il Senato, nel caso improbabile in cui ne abbia la forza, potrebbe opporsi efficacemente. L’occasione della riforma avrebbe potuto costituire, invece, un momento importante di ripensamento dell’intero assetto delle autonomie territoriali. Tale assetto rappresenta uno dei principali punti di fragilità della nostra Costituzione. Ancor più, costituisce nei fatti un fattore di gracilità istituzionale di peso notevole, che ha impedito il radicamento efficace delle Regioni e lo sviluppo funzionale delle autonomie locali. L’impianto costituzionale avrebbe dovuto allargarsi a tracciare le linee di un assetto che possa: - consentire la piena funzionalità di venti Regioni di dimensioni e di caratteristiche assai disomogenee, ma il cui peso, specie nei rapporti con il potere centrale, va ponderato; - disegnare il ruolo delle città metropolitane che oggi sono costituzionalizzate ma operano solo sulla carta e costituiscono un oggetto ancor più misterioso quanto a struttura e partecipazione democratica; - Ricondurre a maggiore uniformità, per evidenti necessità istituzionali, 8000 comuni tanto disomogenei quanto è ricco il patrimonio socio-culturale che rappresentano, ma che va difeso proprio a partire dalle diverse peculiarità di ciascuna tipologia. - Nella regolamentazione dei raccordi fra Stato e autonomie locali sarebbe stato necessario, infine, evitare di rinchiudersi nella logica del riparto di competenze, ma sviluppare nuovi moduli di collaborazione in linea con la multiforme e variegata complessità di questioni che necessariamente coinvolgono, in una democrazia matura, i diversi livelli di governo.

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