lunedì 28 dicembre 2009

Renzo Penna: Un anno con il lavoro sui tetti

di Renzo Penna

Quelli della Innse
Hanno iniziato in estate quelli della Innse di Milano a salire sul carro ponte, sotto le lamiere roventi del capannone, per difendere fabbrica e lavoro. Hanno proseguito in molti in tutto il Paese con proteste nuove in difesa dell’occupazione. Cercando, con il gesto clamoroso, di richiamare l’attenzione della politica e dell’informazione sulla loro drammatica condizione. Dai precari della scuola, dagli impiegati dell’Agile ex Eutelia, quella che un tempo era stata l’Olivetti, agli operai della Merloni di Fabriano, in centinaia di realtà lungo lo stivale a segnare un anno orribile per i lavoratori. Secondo la Cgil 570 mila i posti di lavoro bruciati nei ventiquattro mesi; di questi 300 mila erano precari: una media di 50 mila posti in meno al mese. E centinaia di migliaia i lavoratori in cassa integrazione, con un salario di 700-800 euro al mese, quelli che nel governo qualcuno considera dei “privilegiati”. L’anno sta finendo al freddo, nella delusione degli operai Fiat di Termine Imerese, dopo la manifestazione in piazza Montecitorio a Roma, per il destino senza futuro che Marchionne ha ufficializzato per la loro fabbrica. E ancora sui tetti per i ricercatori dell’Ispra della capitale, nella ostentata indifferenza del Ministro all’Ambiente, o, in compagnia della neve, per i quattro operai della Yamaca di Lesmo che, alla vigilia di Natale, sono potuti scendere dopo aver conquistato, senza l’aiuto di Valentino Rossi, il diritto alla cassa integrazione per tutti i dipendenti a rischio di licenziamento. Queste, insieme a mille altre, le risposte dei lavoratori alla crisi, i quali, se non bastasse, devono fare i conti anche con un sindacato diviso. A novembre in piazza del Popolo a Roma l’ultima manifestazione dell’organizzazione di Guglielmo Epifani per chiedere all’esecutivo misure più efficaci contro lo stato dell’economia, per l’occupazione e la riduzione del peso fiscale sul lavoro dipendente e le pensioni. Ma il Governo, che per lungo tempo ha cercato addirittura di negare l’esistenza della recessione e con le risorse delle Regioni si è occupato solo di finanziare i tradizionali ammortizzatori sociali, oggi invoca il ritorno ai consumi e alla crescita, come se nulla fosse successo. Mentre l’economia reale stenta a riprendersi, la disoccupazione si prevede aumenterà ancora nel corso del 2010 e saranno necessari molti anni per tornare ai livelli che hanno preceduto la crisi. Come è già accaduto in passato.

La centralità del lavoro
Ma cosa dice questa situazione, che ha riproposto come centrale il tema del lavoro e della disoccupazione, alle forze della sinistra. Quali riflessioni reclama l’incertezza presente del e nel lavoro che è diventata la costante condizione di vita per milioni di giovani, di donne e di “normali” lavoratori. Mentre la precarizzazione è esplosa ci si può ancora accontentare solo di ripetere, per dirla come Piero Fassino: che un conto è la flessibilità del lavoro che va garantita mentre la precarietà deve essere combattuta? O non è il caso di alzare lo sguardo e prendere atto che da anni è in atto un attacco preordinato nei confronti dei diritti e delle tutele del lavoro, frutto delle conquiste sindacali e legislative degli anni ’60 e ’70. E riconoscere che questa offensiva, sostenuta dalle nuove politiche conservatrici e rivolta contro il lavoro e i sistemi di welfare, si è insinuata, ha trovato spazio e giustificazione, se non esplicito sostegno, anche nella cultura politica della sinistra.
Come sostiene Antonio Lettieri - un sindacalista esperto ed uno studioso dei temi legati al lavoro - la sinistra ha subito l’idea, sbagliata, per cui la globalizzazione e la rivoluzione informatica imponevano la deregolazione dei mercati, lo schiacciamento dei salari, la compressione dello Stato sociale. E se i cambiamenti dei modelli di produzione richiedevano certo forme di flessibilità nell’organizzazione del lavoro, per impedire che la flessibilità si trasformasse in precarietà, erano necessarie nuove forme di regolamentazione, controlli rigorosi e un giusto equilibrio tra le nuove esigenze della produzione e i bisogni individuali e collettivi delle persone. Ma così non è stato, la flessibilità invocata ha preteso di saltare il confronto, il controllo e la contrattazione del sindacato, ha imposto lo stravolgimento del mercato del lavoro attraverso una quantità inusitata di forme contrattuali precarie, con l’unico scopo di rendere incerta e ricattabile la condizione lavorativa. Rendendo, nei fatti, merce il lavoro. Lo stato di solitudine di troppi lavoratori, la divisione del sindacato e la debolezza dell’opposizione possono però prestare il fianco a nuovi propositi contro riformatori. L’attacco portato dal secondo governo Berlusconi all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, per avere garantita la possibilità di licenziare anche “senza giusta causa e giustificato motivo”, respinto nel 2002 dalla grande mobilitazione della Cgil, si ripresenta oggi con il sostegno della Banca Centrale europea. Dello stesso segno è la proposta della “flexsecurity” avanzata dalla Commissione europea che anche nel centro sinistra italiano trova dei sostenitori e che, nella sostanza, punta a compensare con un risarcimento monetario la perdita del lavoro. Insomma, per superare la condizione di disuguaglianza causata dalla precarietà del lavoro si rendono precari anche gli attuali contratti a tempo indeterminato considerati troppo “garantiti”.
Ma una crisi devastante, provocata dai colpevoli eccessi di una finanza senza regole e resa possibile da politiche distanti dall’economia reale, non può essere archiviata solo con la ricerca di un nuovo sistema di regole. Il tema del lavoro, da valorizzare e tutelare, dell’adeguamento dei salari con il superamento delle attuali insopportabili diseguaglianze, debbono tornare ad essere centrali nella riflessione di una nuova sinistra capace di liberarsi dalle suggestioni liberiste e fare i conti con i propri errori. Cause primarie degli insuccessi elettorali italiani ed europei delle forze di tradizione socialista. E, visto l’azzeramento di tutte le teorie che la crisi ha prodotto a sinistra, ne possono favorire la ripresa.

Il ritorno al mutuo soccorso
I lavoratori, che per superare le difficoltà hanno messo in atto modalità di lotte inconsuete e, in alcuni casi, estreme, stanno anche facendo ricorso a forme di solidarietà antiche tipiche delle origini del movimento operaio e delle prime Società di Mutuo Soccorso. A Brescia, dove sono 60 mila i lavoratori in cassa integrazione e 30 mila i licenziati, la Camera del Lavoro ha rilanciato il mutuo soccorso. I soldi raccolti con la sottoscrizione di biglietti da due, cinque e dieci euro vengono girati alla Caritas che confeziona pacchi per le famiglie in difficoltà, o vengono usati per diffondere il microcredito. In Emilia molte fabbriche stanno invece riproponendo le casse di resistenza.
A Reggio in una azienda di macchinari dove sono stati licenziati 60 lavoratori su 210 dipendenti, chi lavora verso un quinto del proprio stipendio ai lavoratori che a turno presidiano la fabbrica e il sabato sera si organizzano sagre per auto finanziarsi. In riferimento a questi fenomeni il professor Luciano Gallino sottolinea come rappresentino un ritorno alle origini solidaristiche. Mentre l’attuale sistema degli ammortizzatori sociali mostri forti limiti e le persone dopo pochi mesi dalla perdita del lavoro rimangono, di fatto, senza reddito. Si riscoprono in questo modo forme di solidarietà come la condivisione degli orari o il mutuo soccorso. Il sociologo di Torino vede in questi fenomeni un aspetto positivo. Dopo gli anni della solitudine e dell’individualismo si riscopre il bisogno di un sentimento collettivo con cui si cerca di mitigare, insieme ai propri, anche le difficoltà degli altri.

Alessandria, 27 dicembre 2009

3 commenti:

Francesco ha detto...

Il liberismo ha contaminato tutto e tutti, stravolgendo l'idea stessa di socialdemocrazia. Dobbiamo fare tutti un passo indietro e tornare a ragionare di socialismo secondo il metro dei padri nobili, pur con gli inevitabili adattamenti. Altrimenti perderemo per sempre, travolti dai gorghi del massimalismo sterile o irretiti dalle sirene populiste, le "masse popolari", parola che sembrava passata di moda nei paesi occidentali ma che gli eventi degli ultimi anni hanno riproposto nella sua drammatica attualità di miseria, precariato, disoccupazione e insufficienza reddituale

luigi fasce ha detto...

Caro compagno Penna,
ho letto con grande emozione il tuo intervento "un anno con il
lavoro sui tetti" e rilancio ... è certamente l'argomento che più
significativamente attiene l'essere socialisti e la missione di stare
dalla parte del lavoro nei confronti del capitale.
Certamente ma come ? no certamente espropriando i mezzi di produzione
facendoli gestire allo stato padrone più moloc di ogni altro
padroncino delle ferriere privato. Lasciando le cose così come
stanno? Con imprese che hanno un padrone da un lato e lavoratori
subordinati dall'altro e che quando c'è crisi economica mano pubblica
supporta l'impresa con ammortizzatori sociali-lavorativi vari, per
poi passata la nottata rimettere in sella il padrone e ritornare
all'inizio del gioco dell'oca dialettica capitale-laavoro con il
padrone però, stando l'attuale sistema, col coltello dalla parte del
manico e i lavoratori dalla parte della lama.
Occorre invece che per quanto possibile dopo la crisi di una piccola-
media impresa salvata dalla mano pubblica (attualmente la competenza
legislativa è della Regioni e la gestione delle politiche del lavoro
delle Province) non si ritorni più allo stato giuridico precedente da
un lato il capitalista (di solito una Spa o Srl o altro, mai una
vera e propria cooperativa, non lo sono nemmeno le Coop Rosse) e
dall'altro lato il lavoro (dirigenti, quadri, impiegati tencici
operai e quant'altra competenza lavorativa) e si crei invece una
impresa gestita dalla componente lavoro. La forma più semplice è
quella della cooperativa ma ovviamente vera e non finta. Qui si
tratta di proporre a regioni e province di individuare e incentivare
le procedure per una gestazione che porti a un nuovo modello di
impresa che eviti scissioni tra capitale e lavoro e che consenta una
visione del lavoro in termini di crescita a compatibilità ecologica e
che, stiamo parlando il linea di massima di piccole imprese, si
svolga all'interno della filiera corta con il vantaggio di non
trovarsi più a rischio di chiusura perché il "padrone" ha deciso di
dislocare 'attività in cina o india o algtri stati in cui il
lavoratore è stato ridotto in stato di schiavitù.
Poi ci sarebbe da mettere mano alle attuali regole di appalto
pubblico per cui le imprese mafiose se li accaparrano giucando al
ribasso, e poi successivmente facendo lievitare costi o subappaltando
a padroncini sfruttatori a loro volta lavoratori in nero non importa
in questo caso l'etnia la religione ecc.
Fosse condivisa grosso modo questa proposta già indicata da me al
convegno del GdV del 20 giugno scorso a Genova "Nel solco del
riformismo socialista quale modello di sviluppo per il terzo
millennio.", penso che si potrebbe avviare il discorso con un
monitoraggio all'interno del nostro Nord Ovest delle imprese a
rischio di chiusura, contattare le Regioni e le province e chiedere
loro quali politiche del lavoro hanno in atto e con quali risultati.
Poi, se necessario, fare le nostre proposte.
Il minimo però è sapere dove sono queste imprese e magari andare in
rappresentanza del GdV per portare nostra solidarietà anche con
qualche sottoscrizione in denaro.
Grazie per avere aperto il discorso sul doloroso argomento.
Fraterni saluti.
Luigi Fasce

sergio tremolada ha detto...

L'ultimo progetto "socialista" per socializzare i mezzi di produzione fu il
"Progetto Maidener" degli anni settanta, (interessante il metodi di
discussione del progetto nella società) prevedeva che le imprese fossero
piano piano "acquistate", dietro un equo indennizzo, dai soggetti
amministrativi decentrati ( Comuni, Enti Locali ecc.) e resi pubblici
attraverso una diretta partecipazione dei Lavoratori.

Il Partito socialista svedese perse le elezioni dopo decenni di assoluto
predominio.

Si potrebbe discuterne assieme ai nostri progetti di "Democrazia
industriale" in Italia abbandonati prima di farli nascere.
Sergio Tremolada