mercoledì 17 giugno 2009

Franco Mosconi: Keynes alla danese

Keynes alla danese


L'elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti ha chiuso il lungo ciclo del dominio dell'economia del «trickle down» (letteralmente, «gocciolio »), sconfiggendo così un'agenda di governo liberista voluta e imposta, dagli anni di Reagan, dai conservatori.
Nel Vecchio continente, invece, le elezioni europee hanno sì premiato partiti politici e governi che hanno riscoperto, durante questa gravissima crisi, l'azione della mano pubblica, ma si tratta tendenzialmente di partiti di destra: la «destra keynesiana», ha scritto con efficacia Bernardo Valli sulla Repubblica del 9 giugno.
Stretti fra questi due estremi, i grandi partiti riformisti e progressisti europei (Partito democratico compreso) hanno innanzi a sé un compito da far tremare i polsi, al quale però non è possibile sottrarsi.
Il compito è quello di reinventare una piattaforma programmatica capace, in primis, di infondere nuovamente fiducia e speranza nei cittadini e, in particolare, nelle giovani generazioni. In secondo luogo, una piattaforma capace di guidarli alla vittoria nei prossimi cicli elettorali quando, a crisi sperabilmente superata, il capitalismo sarà diverso da quello che, in questi ultimi decenni, l'Occidente ha conosciuto.
Il presidente Obama e la fine dell'«economia del trickle down», dicevamo. Alla convention di Denver dell'agosto 2008 l'allora candidato democratico affermava: «Per più di due decenni, Mc Cain ha condiviso quella vecchia, screditata filosofia repubblicana, che dice di dare sempre più a coloro che sono già al livello più alto della ricchezza, e sperare che la prosperità sgoccioli giù verso tutti gli altri. A Washington la chiamano società dei proprietari, ma ciò che questo in realtà significa è che tu stai per conto tuo. Sei senza lavoro? Sfortuna. Non hai una copertura sanitaria? Il mercato ti fisserà il prezzo di essa. Sei nato in povertà? Tiratene fuori coi tuoi stivali, anche se non hai le scarpe. Tu te la caverai da te. Bene, è giunto il momento per i repubblicani di conoscere la sconfitta. Ed è giunto il momento per noi di cambiare l'America».
Togliamo da questa citazione i riferimenti più espliciti al caso americano (ad esempio, la sanità); omettiamo pure, se vogliamo, l'autore e la sua straordinaria arte oratoria. Dopodichè, resta al fondo una domanda: quanto di quella «screditata filosofia repubblicana» ha attraversato, man mano, l'Atlantico e ha informato di sé, in proporzioni più o meno ampie, l'azione di tanti governi europei, anche di centrosinistra? Siamo certi che l'idea di un mercato senza briglie non abbia molto affascinato anche il campo dei riformisti, nella presunzione che una torta della ricchezza sempre più grande significasse, di per se stessa, maggior benessere per tutti? L'economia di mercato, beninteso, resta la più efficiente forma di organizzazione economica, e guai dimenticarsi di ciò.
Ma l'«economia del trickle down» è un'altra cosa: è quella che, goccia dopo goccia, dovrebbe prima o poi far arrivare i vantaggi della crescita anche ai poveri e a coloro che vivono ai livelli più bassi della ricchezza.
La vittoria di Obama ha posto fine, negli Usa, a questa illusione, mentre in Europa la situazione è più complessa. La riscoperta della mano pubblica, in verità, è un tratto comune di tutti i paesi dell'Ue, ma i migliori interpreti sembrano esser stati, almeno a tutt'oggi, i governi conservatori di centrodestra, i seguaci della Thatcher.
Da dove ripartire? Lasciamo perdere i discorsi sui «nuovi Obama» che, anche dalle nostre parti, dovrebbero prendere il posto di comando: di leader così ne nasce uno ogni molti decenni e quasi sempre là. Partiamo, piuttosto, dalle caratteristiche del capitalismo europeo e su di esse proviamo a pensare alla nuova agenda di policy. È un capitalismo che, pur nelle sue varianti (i celebri «quattro modelli sociali europei»), ha un livello di presenza della mano pubblica strutturalmente più elevato di quello americano. Tasse e spesa pubblica, da noi nell'Ue, si collocano in un intervallo fra il 40 e 50 per cento del Pil, cifra che negli Usa si muove nell'intorno del 30 per cento. Con una massa di risorse così è un obbligo morale e un dovere civile, per i governi europei, porre in essere politiche di redistribuzione della ricchezza volte a coniugare efficienza ed equità. I paesi nordici, si sa, lo sanno fare assai bene; i continentali e gli anglosassoni, così-così; i mediterranei (e quindi noi), molto male.
Superata l'emergenza imposta dal grande crac finanziario e giunti a esaurimento gli effetti dei pacchetti di stimolo fiscale approvati dai singoli governi, che cosa resterà della destra europea, ora "felicemente" keynesiana? Tornerà all'antico e, quindi, al liberismo di stampo reaganiano o thatcheriano? Non possiamo saperlo. Quel che è certo è che qualcuno prima o poi dovrà riformare, nel profondo, i tanti modelli di welfare che, pur giganteschi, non reggono più l'urto di economie sempre più internazionalizzate . Il welfare italiano primo fra questi.
Ora, è a questa agenda di inizio secolo che i riformisti debbono dedicarsi, e quelli italiani con particolare vigore. Lo richiede una situazione sociale che va deteriorandosi: basti pensare al mercato del lavoro (più disoccupati e sempre più precari senza lavoro) e ai livelli di povertà (alti soprattutto fra le famiglie con più di tre figli). Ancora: lo richiede l'assenza, da molti decenni, di quella mobilità sociale che è il sale della crescita economica e civile di un paese: se la famiglia d'origine o la lobby che ti protegge restano il solo segreto del successo, beh, la meritocrazia resterà per sempre un miraggio.
Non mancano i semi gettati lungo il cammino, dei quali più volte abbiamo parlato su queste colonne: una riforma degli ammortizzatori sociali che li renda universali, recuperando lo spirito e la lettera delle proposte della Commissione Onofri del 1997; una riforma dei contratti di ingresso nel mercato del lavoro con l'introduzione del contratto unico, lungo le linee prospettate sia da Tito Boeri che da Pietro Ichino; una riforma dell'università (comprese le tasse di iscrizione!) che sappia premiare i «capaci e meritevoli», e così via.
Chissà che proprio dall'Italia, complice il congresso del Pd dell'autunno, non possa venire qualche nuova parola di speranza per tutti i riformisti europei. Sarebbe bello, un giorno, poter dire ai giovani che non solo è finita l'«economia del gocciolio » (verso il basso), ma anche che è iniziata l'«economia dell'ascesa» (verso l'alto).



Fanco Mosconi, Da Europa

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