mercoledì 17 giugno 2009

Carlo Bastasin: Sinistra europea spiazzata dal sociale

Sinistra europea spiazzata dal sociale

Se la crisi del capitalismo fosse avvenuta alcuni decenni fa, quando Barack Obama, Angela Merkel o Nicolas Sarkozy studiavano all'università , sarebbe parso normale agli studenti di allora mettere in questione non solo l'avidità delle oligarchie finanziarie, ma anche l'economia di mercato e le prerogative della proprietà privata. Nelle settimane scorse invece le elezioni europee hanno avuto un esito per alcuni osservatori paradossale: nel momento di massima crisi del capitalismo di mercato sono stati i partiti socialdemocratici a perdere consensi.

Nel decennale esatto del documento progettuale "Blair-Schröder" che formalizzava la stagione dei successi del centro-sinistra europeo, il Labour di Gordon Brown è sceso al 15% e l'Spd di Frank Walter Steinmeier al 20,2 per cento. In Francia e Italia i risultati sono stati altrettanto modesti. Nel linguaggio delle ideologie è consuetudine contrapporre al mercato quella che Milton Friedman chiamava "l'interferenza dello stato", e dedurre che la crisi del primo sia di beneficio per chi difende le istanze sociali. Ma la prima crisi globale sembra aver giocato un ruolo meno banale di quanto previsto.

In Europa destra e sinistra non si distinguono con chiarezza in ragione della quota di intervento statale. Tra la destra scandinava o francese e la sinistra britannica o mediterranea la quota pubblica è maggiore a destra. Il ruolo dello stato nell'economia dipende cioè dalla path dependency, dalla storia passata del paese, più che dalle preferenze ideologiche. L'intervento pubblico tende piuttosto a distinguersi su direttrici ideologiche a seconda che sia rivolto a proteggere il capitale nazionale (da destra) o il lavoro (da sinistra). Se si considera che la crisi non si è ancora manifestata pienamente sull'occupazione, mentre ha subito messo a rischio la sopravvivenza di alcune imprese, si può capire per quale ragione per ora siano state le istanze di protezione tipiche del centro-destra (sostegno al sistema produttivo) ad essere più avvertite di quelle del centro-sinistra, assorbite da sistemi di welfare sviluppati in cui gli stabilizzatori sono emblematicamente "automatici" .

Se inoltre ciò che distingue la sinistra dalla destra è l'impronta egualitaria, cioè la redistribuzione verso chi è meno avvantaggiato, la crisi economica offre un'ulteriore spiegazione del voto. Se, come è avvenuto, l'economia perde il 6% del Pil nei trimestri immediatamente precedenti il voto, una proposta elettorale redistributiva diventa meno attraente: è difficile infatti convincere gli elettori mediani che - proprio in un tale momento di difficoltà - devono accettare ulteriori perdite di reddito, per motivi redistributivi che rientrano in un quadrante ideologico conflittuale.

In due importanti editoriali pubblicati domenica sulla Stampa e sul Corriere della Sera, Barbara Spinelli e Mario Monti hanno sottolineato con accenti diversi il successo degli ecologisti europeisti di Daniel Cohn-Bendit in Francia e dei Verdi che nelle grandi città tedesche stanno superando l'Spd. Aggiungo alla loro un'ulteriore lettura: Cohn-Bendit ha interpretato la funzione redistributiva su scala generazionale (non consumare le risorse dei figli), come un beneficio per l'intera società e con l'ambizione di farla valere anche come ricetta per la crescita economica. Un progetto di riconversione ambientale dell'economia, in cui l'analisi è forse superata dall'ambizione, ma in grado di raccogliere perfettamente le due primarie istanze politiche - crescita e redistribuzione - in chiave non nazionale. Una ricetta significativamente condivisa da Barack Obama.

Si tratta probabilmente di una delle prime fuoriuscite dallo schema politico tradizionale che si basa sulla redistribuzione delle risorse interne ai confini nazionali e forse di un segnale di evoluzione politica contraria a quella degli interessi locali a cui attribuiamo tanto misterioso significato. Nei sondaggi disponibili condotti da Eurobarometro nei mesi prima del voto, i cittadini europei dichiaravano che le loro attese politiche riguardavano forme di sicurezza (salute, rischi sociali, cambiamento climatico e politica estera), compatibili con il valore prioritario della solidarietà. Le risposte favorevoli a iniziative politiche coordinate o comuni sono molto più numerose di quelle in cui prevalgono le istanze solo nazionali. Il successo dei partiti conservatori in Francia e Germania può essere letto nello stesso binario: Merkel e Sarkozy hanno difeso il modello dell'economia sociale di mercato, che protegge il cittadino attraverso il welfare, in contrapposizione al capitalismo anglosassone, ma hanno lasciato con abilità alle opposizioni i toni più accesi nella difesa dei confini economici nazionali.

A ben vedere dunque i vincitori della competizione elettorale europea si distribuiscono non sull'asse destra-sinistra, ma su quello tra modelli aperti alla politica globale (sia con ambizioni verdi, sia con protezioni tradizionali) e modelli chiusi (xenofobi o di chiusura dei confini). La socialdemocrazia tradizionale sembra rimasta in mezzo a questa polarizzazione e non aver colto ancora un modello convincente di apertura alla società globale. Secondo Gramsci c'è crisi proprio quando il mondo vecchio è finito, ma non è ancora nato quello nuovo.

Nella sede di Berlino dell'Spd per esempio si riconosce come errore decisivo nella campagna elettorale la contrarietà alla chiusura di Opel e Arcandor. In un'intervista a Der Spiegel il ministro dell'Economia Peer Steinbrück (Spd) osserva: «Trovo molto onorevole che il mio partito difenda i posti di lavoro, ciò corrisponde al suo orientamento valoriale. La nostra posizione su Opel avrebbe ottenuto consenso solo 20 anni fa. Oggi i cittadini sono più scettici di fronte alla spesa pubblica». Con un vizio che già Karl Kraus derideva nei vertici del partito, Steinbrück imputa all'elettore ingrato il difetto di egoismo. Eppure l'Spd ha perso voti perfino nelle sedi elettorali vicine agli stabilimenti Opel. Come se il partito risultasse troppo conservatore - nel senso letterale di conservare le strutture di un capitalismo vecchio - di quanto l'elettorato possa accettare.

Crescita, cambiamento, apertura, visione del futuro, sembrano in secondo piano nel linguaggio elettorale dei partiti socialisti dei maggiori paesi europei. Un'assenza di visione prospettica che va di pari passo con personalità dei loro leader che condividono un inquietante elemento iconografico: i loro volti sono spariti perfino dai manifesti delle pubblicità elettorali. Troppo complessa l'interpretazione sociale del mondo di oggi per non rimanere come fantasmi che hanno perduto quella giovanile ambizione di cambiare il mondo proprio quando sarebbe stato possibile, prima che le acque si richiudano sul nostro conveniente egoismo.



Carlo Bastasin. Da Il Sole 24 Ore

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