domenica 26 ottobre 2008

rampini: economisti

Dal blog estremo occidente
venerdì 24 ottobre 2008, 21.50.18
Contro gli economisti accuse sospette
venerdì 24 ottobre 2008, 21.50.18 | rampini
Povero Mario Monti, povero Francesco Giavazzi. Chissà come hanno dovuto sentirsi i due economisti, da tanti anni commentatori del Corriere della Sera, quando sullo stesso quotidiano Giovanni Sartori ha bocciato senza appello la loro scienza e la categoria tutt’intera. Gli economisti, ha denunciato Sartori, sono stati incapaci di prevedere la crisi attuale. “Il grosso della loro disciplina non ha previsto la catastrofe in arrivo. Una scienza economica che non sa prevedere è una scienza da poco. Speravo in un loro mea culpa”. Parole pesanti ed efficaci, che in Italia sembrano riscuotere un vasto consenso. Se per caso fossero sfuggite a qualcuno, Sartori è ritornato sul tema: non uno, ma due editoriali in prima pagina per ripetere la stessa requisitoria. Completamente infondata. Per una volta, se c’è una categoria che ha visto giusto sono stati proprio gli economisti. Cassandre inascoltate, i cui appelli sono stati ignorati dai governi, dalle autorità di vigilanza, oltre che dai banchieri e da tutto l’establishment finanziario. Sartori è uno scienziato della politica e nessuno lo coglierebbe mai in fallo su temi come la legge elettorale. Ma le sue letture di economia devono essere rare. Giustamente, come la maggioranza dei cittadini, anche lui si ricorda che esiste questa disciplina solo quando le cose vanno male. Ma quando il resto del mondo si cullava nell’illusione di una crescita durevole, mentre le Borse veleggiavano serene, e i banchieri finanziavano l’inverosimile, gli economisti si sgolavano per dirci che eravamo sulla strada sbagliata. E soprattutto per dirlo all’America. E’ nella nazione-epicentro di questa crisi, non a caso, che si trova una schiera illustre di economisti preveggenti. I premi Nobel Paul Krugman e Joseph Sitglitz, il professore di Yale Robert Shiller, Nouriel Roubini, sono quattro esempi celebri (fra tanti altri). Il caso di Shiller è il più clamoroso. Già un’altra volta questo economista cercò di “bucare” una bolla finanziaria alimentata da una folle euforìa speculativa, quando alla fine degli anni Novanta coniò l’espressione “esuberanza irrazionale”. Quelle due paroline di Shiller furono citate brevemente nel dicembre 1996 da Alan Greenspan, allora presidente della Federal Reserve. Il quale però si affrettò a dimenticarle e continuò la politica di denaro facile che sarebbe sfociata nel crac della New Economy, lo sgonfiamento della bolla del Nasdaq nel marzo 2000. Lo stesso Shiller negli anni più recenti ha dedicato le sue energie a studiare la bolla del mercato immobiliare, mettendo a punto l’indicatore più accurato per misurare la pericolosità raggiunta dalle quotazioni delle case in America. La crisi dei mutui subprime è stata prevista da lui nei minimi dettagli, tant’è che il suo ultimo saggio dedicato al grande crollo è uscito nelle librerie americane praticamente in contemporanea con il crollo stesso. Roubini, Krugman e Stiglitz da parte loro avevano denunciato con lucidità i grandi squilibri macroeconomici che sono alla radice della crisi attuale, in particolare gli eccessi di indebitamento delle famiglie americane, la dissennata politica fiscale di Bush, gli errori di una politica monetaria lassista, l’allentarsi delle regole e dei controlli sui mercati, l’avvitarsi incontrollato del debito pubblico e dei deficit commerciali esterni: cioè tutte le cause fondamentali che stanno dietro alla finanza malata. Questi autori non esprimevano i loro allarmi in luoghi clandestini, né si limitavano a sensibilizzare gli ambienti accademici: Krugman e Stiglitz scrivono regolarmente sul New York Times e vengono tradotti nel mondo intero (su Repubblica per l’Italia, come anche Roubini). Insieme a loro un coro di altri economisti lanciò l’allarme all’ultimo World Economic Forum di Davos, nel gennaio di quest’anno. Al summit globale sulle montagne svizzere c’erano come sempre capi di governo, ministri del Tesoro, governatori di banche centrali, nonché tutto il Gotha dell’alta finanza. La classe dirigente era “informata dei fatti”: gli economisti non avevano lesinato previsioni apocalittiche. Certo, la maggioranza degli economisti non ha previsto la data esatta in cui l’indice Dow Jones avrebbe perso il 30% del suo valore (anche se Shiller ci è andato molto vicino). Gli si deve forse rimproverare di aver cominciato a fare gli uccelli di malaugurio troppo presto? Ma se esistessero dei geologi capaci di prevedere con uno o due anni di anticipo il prossimo Big One di San Francisco o di Tokyo, sarebbero considerati dei salvatori di vite umane: ci darebbero il tempo di verificare la solidità delle costruzioni antisismiche prima della grande scossa. Invece i moniti degli economisti sono rimasti inascoltati. E non perché fossero poco comprensibili o poco credibili. I banchieri avevano capito benissimo. A Davos nove mesi fa c’era chi parlava tranquillamente del fallimento della Ubs come di un’evenienza probabile. Ogni banchiere però pensava di essere più furbo del suo vicino. “Finché la musica va, si continua a ballare” fu l’espressione coniata dal numero uno di Citigroup proprio in quel vertice a gennaio. L’importante era non rimanere col cerino acceso in mano, arricchirsi fino all’ultimo secondo prima del cataclisma. Chi avrebbe dovuto bastonare subito i banchieri non fu da meglio. Le banche centrali abbozzavano. Le autorità di Borsa russavano. Un futuro ministro dell’Economia scriveva libri sulla prossima crisi, quella che doveva venire dalla Cina. Ora però come Sartori la pensano anche loro: è tutta colpa dei “tecnici”, inutili esperti incapaci di prevedere alcunché. Si celebra il fallimento della scienza economica, di fronte a una crisi che consente di riscoprire “la politique d’abord”. Il primato della politica, concetto che fu caro a Lenin come ai democristiani, ritorna di prepotenza. La bocciatura degli economisti è benvenuta, in una fase in cui bisogna sbarazzarsi dei “parametri”. Addio Maastricht e Patto di stabilità, è ora che le grandi scelte di politica economica siano governate dal feeling armonioso che si stabilisce tra i veri leader e i loro popoli. E’ lontana l’epoca in cui quei parametri furono salutati come una liberazione per il cittadino-contribuente, e una garanzia per le future generazioni: l’argine contro il ciclo di spesa elettorale, la barriera contro l’assistenzialismo e il dirigismo. Ora, a quanto sembra, non c’è problema che non si possa risolvere a furia di salvataggi pubblici, fondi di Stato, ri-nazionalizzazioni. Purché si mettano a tacere le obiezioni degli inutili economisti.

1 commento:

Anonimo ha detto...

a essere schietti c'è una cosa che gli accademici USA sapevano e i frettolosi banchieri e il pubblico no. Tanto meno le autorità di vigilanza (che , per quel che riguarda il sistema bancario, si direbbe che in USA vigilino sul passaggio dei merluzzi...). E cioè che le formule per il mixaggio dei mutui subprime e della rate delle carte di credito (la bolla prossima ventura) erano state elaborate dagli stessi 2 premi Nobel (uno si chiama Merton, mi pare) che 10 anni fa con le loro formulette hanno fatto saltare la LTCM e mezza Wall Street. In compenso lo sapevano le società di rating, che subordinavano la loro tripla A proprio all'uso di queste formule, per cui nessuno sa cosa ha comprato. I capi delle società di rating sono ancora al loro posto, anzichè in galera, o quanto meno, come si usava negli states per imbroglioni e ladri di cavalli, a cavalcioni di una trave, dopo un passaggio nella pece e un altro nelle piume.
Quanto agli economisti, in fondo, nonostante tutte le formule, l'economia è un ramo della filosofia. Al quale si potrebbe estendere il detto greco "mi meraviglio che un filosofo non si metta a ridere quando incontra una altro filosofo"...