La democrazia delegittimata
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 15.10.2009)
Si annuncia, anzi è in corso, una crisi istituzionale di vasta portata. A che
cosa sia e a che cosa essa chiami coloro che occupano posti di responsabilità
nel nostro Paese, sono dedicate le considerazioni seguenti, esposte in quattro
punti concatenati tra loro, dall’astratto al concreto.
1. Che cosa sono e a che cosa servono le istituzioni. Il genere umano ha
scoperto le istituzioni per mettere a freno l’aggressività e l’istinto di
sopraffazione che allignano - in uno più, in altro meno - in ognuno di noi, per
diffondere fiducia e cooperazione, garantire un po’ di stabilità e sicurezza
nelle relazioni umane e proteggere quel tanto di libertà che è compatibile con
la vita associata. In una parola: per allontanare sempre di nuovo, ancora di un
giorno, le “prove di forza” che accompagnano, come fantasmi che possono
materializzarsi, i contatti tra gli esseri umani. Le istituzioni servono
innanzitutto a questo: a neutralizzare i nostri istinti distruttivi e a
civilizzarci. Poiché nel fondo siamo animali selvatici, possiamo anche dire:
servono ad addomesticarci, incanalando e indirizzando le nostre energie in
strutture, procedure, garanzie e controlli, così trasformandole, da distruttive,
in costruttive di opere durature.
Non sembri eccessivo che, per parlare delle opere e dei giorni del nostro Paese
in questo momento, si proceda così da lontano e da fondo, cioè da questa piccola
sintesi del celebre scritto di Sigmund Freud sul “disagio della civiltà” (1929).
È una messa in guardia a proposito di ciò che accade quando le istituzioni
s’indeboliscono o scompaiono, inghiottite dall’ego di coloro che le impersonano
e le usano per i loro propri interessi. Oppure - ed è lo stesso - è un
ammonimento circa i pericoli di quando si diffonde l’idea che esse siano
impacci, o abbiano tradito la loro funzione e siano diventate semplicemente
coperture della lotta politica.
In breve, si tratta dello scatenamento delle energie peggiori, che le
istituzioni e il “senso delle istituzioni” non riescono a controllare. Questo è
esattamente il nostro rischio, la china su cui siamo messi a causa di ciò che,
con un’espressione abusata di cui non si coglie più la drammaticità, chiamiamo
“delegittimazione”. Senza istituzioni, tutto diventa possibile. La “prova di
forza” pre-politica, cioè fuori delle regole che ci siamo dati per
“istituzionalizzare” il fisiologico conflitto politico, è alle porte.
2. Conflitto pre-politico. Guardiamo quello che accade. Lasciamo da parte i
troppi che, come sempre accade, aspettano senza scoprirsi di capire come vanno
le cose per schierarsi dalla “parte giusta”. Accanto ai molti indifferenti,
presi dell’assillo d’altri problemi, coloro che si sentono parti in causa sono
divisi da una frattura che non possono o non vogliono colmare. Da una parte, c’è
chi giurerebbe sulla convinzione che è in corso una congiura contro il
presidente del Consiglio e la sua maggioranza, condotta con metodi criminosi da
oligarchie irresponsabili e magistrature corrotte politicamente, per un fine
antidemocratico: contraddire il risultato di libere elezioni e mettere nel nulla
la volontà di milioni di elettori. Sul fronte opposto, si giurerebbe sulla
convinzione che, invece, il metodo criminoso è quello di un presidente del
Consiglio che, per evitare di rispondere in giudizio di accuse penali assai
gravi e infamanti, vuol porsi al di sopra della Costituzione e della legge,
cambiandole a suo uso e consumo.
Così, due accuse si fronteggiano: di attentato alla democrazia, da una parte; di
attentato allo stato di diritto, dall’altra. Questa spaccatura è pre-politica.
Non riguarda il come agire dentro le regole della politica che sono date dalla
Costituzione, ma addirittura se starci dentro, o uscirne fuori. Vola, infatti,
nei due sensi, l’accusa di tentare una forzatura. Qualcuno parla di “golpe”,
senza rendersi conto di ciò che dice o forse rendendosene ben conto. Quando
questo veleno entra in circolo, tutto - atti e parole che, nella normalità,
sarebbero inimmaginabili o apparirebbero disgustose intimidazioni e prepotenze -
diventa lecito, anche a fini preventivi.
Gli storici diranno di chi è la responsabilità della stasis, del punto morto al
quale siamo arrivati. Ma noi ora vi siamo dentro e non possiamo consolarci
pensando, ciascuno sulle proprie posizioni, che la storia ci darà ragione.
Abbiamo il dovere di districarci nella difficoltà, per noi e i nostri figli, ai
quali vorremmo consegnare un Paese pacifico e civile. Non serve a nulla, a
questo punto, la ricerca della responsabilità originaria. Serve solo ad
attizzare il conflitto. Non serve a nulla lo scambio di accuse tra due fronti
che sembrano non ascoltarsi più. Anzi, serve a scavare ancora il fosso e a dare
spazio all’avventura. Nessuno ha da rinunciare alle proprie idee, al giudizio su
sé e su gli altri. Ma ora si tratta di prendere atto che la spaccatura esiste
come “dato”, come “cosa” che minaccia le istituzioni e, con esse, la convivenza
ch’esse devono assicurare.
3. “Delegittimazione democratica” delle istituzioni. La minaccia alla convivenza
va di pari passo con l’indebolimento delle istituzioni, con la loro
“delegittimazione”. È una storia che viene da lontano, che si ripete ogni volta,
con l’affermarsi nella pratica e nel senso comune di un’idea di politica come
immedesimazione di un capo nel suo popolo (”voglio essere uno come voi”) e di un
popolo nel suo capo (”vogliamo essere come te”). Quest’immedesimazione ha
assunto nella storia molte forme e molti nomi: democrazia plebiscitaria,
demagogia, cesarismo, bonapartismo, peronismo, ecc. Altre forme e altri nomi
assume oggi e assumerà in futuro, in conseguenza dei mezzi tecnici di
quell’immedesimazione. In ogni caso, però, chi governa immedesimandosi nel
popolo sale sul popolo e da lì guarda tutto dall’alto in basso, non concependo
che possano esistere limiti e controlli. In nome di che, del resto? Di qualche
giudice o giurista parruccone che non rappresenta che se stesso? La politica
come immedesimazione o “identitaria” non ha bisogno d’istituzioni; le sono
d’impaccio, anzi nemiche. Esse non possono che raffreddare un rapporto che si
vuole invece caldo, tra capo e corpo, leader e seguaci. Nascono movimenti,
simboli, inni, motti e frasi fatte, eventi e opere, ricorrenze, spettacoli,
esempi, che celebrano e rafforzano quel rapporto e quella vicinanza, facendo
appello indifferentemente, secondo che occorra, a nobili slanci altruistici o
gretti sentimenti egoistici; ora adulando supposte virtù patriottiche, ora
stuzzicando nascosti impulsi volgari. Si tratta di rappresentare il “paese
reale” per impiantarvi una cosa che viene chiamata democrazia, anzi “vera
democrazia”, in contrapposizione a quella “falsa”, “formale”, “vuota”, cioè
quella mediata dalle istituzioni.
Noi assistiamo a questo processo. In nome della “vera democrazia” (posso fare
quello che voglio perché ho il popolo dalla mia parte: vero a falso che sia), le
istituzioni che non si adeguano sono indicate come nemiche. Non s’immagina
neppure che possano fare onestamente il loro dovere che non è di tenere bordone
a questo o quello ma, per esempio, di applicare la legge e di difendere la
Costituzione oppure, per le istituzioni dell’informazione, semplicemente di
pubblicare notizie. Devono essere necessariamente alleate del nemico. Se il
potere è “di destra”, le si accuserà d’essere “di sinistra”. Se mai il potere
fosse di sinistra, la stessa concezione della democrazia le farebbe accusare
d’essere “di destra”.
Ma le istituzioni della democrazia pur esistono e non è pensabile di eliminarle,
a favore di una demagogia pura e semplice. Bisogna pur salvare le forme, anche
per non essere banditi dal consorzio delle nazioni civili. Allora, via alle
intimidazioni o - ed è lo stesso - alle seduzioni e, se non basta, via alle
riforme per ridurre l’autonomia e l’indipendenza delle istituzioni non
allineate. Così, si cambia regime dall’interno, lasciando l’involucro ma
svuotato della sostanza. Così è per il governo, da rendere obbediente al “primus
inter pares”, per il Parlamento, da ridurre a esecutore passivo del governo; del
presidente della Repubblica, per l’intanto da rendere inquilino remissivo,
perché non eletto dal popolo (una coabitazione impari, in attesa del
presidenzialismo); della Corte costituzionale e della magistratura, da riformare
per toglierle dalla sfera del diritto e spostarle in quella della
(subordinazione) politica.
4. Tra l’incudine e il martello. La costituzione, da luogo della pacificazione,
è così diventata terreno di scontro, lo scontro, per definizione, più
distruttivo che possa immaginarsi. Chi assiste con sgomento al volgere degli
eventi e ai segni premonitori ch’essi contengono resta sorpreso nel non veder
sorgere una forza che, mettendo momentaneamente da parte le legittime diversità
di posizione sui tanti e pur urgenti problemi del Paese, non si ponga
responsabilmente, come compito prioritario e condizionante tutto il resto,
quello di uscire dalla morsa che si sta chiudendo. In quelli che potrebbero,
sembra mancare la consapevolezza o abbondare l’indifferenza. Occorre ben altro
che la rituale “solidarietà” alle persone che ricoprono funzioni messe sotto
tiro. Non basta l’invito al rispetto del galateo. Scadenze importanti incombono.
Nel 2011 dovrebbe celebrarsi l’unità nazionale, cioè le istituzioni dell’unità.
Che cosa troveremo, di questo passo, quando ci arriveremo?
Quando due fazioni si affrontano con rischio generale, per coloro che avvertono
la propria responsabilità autenticamente politica quello è il tempo di mettere
provvisoriamente da parte ciò su cui ordinariamente sarebbero portati a
dividersi, e di operare insieme nell’interesse superiore alla pace. La nostra è
una repubblica parlamentare. Non è, almeno per ora, un regime d’investitura
popolare d’un sol uomo. Per quanto si sostenga il contrario, scambiando il
desiderio per un diritto acquisito, sono le forze politiche rappresentate in
Parlamento a disporre legittimamente del potere di coalizione, per fare e
disfare governi, secondo necessità. Un potere al quale, in un momento come
questo, corrisponde una grande responsabilità.
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