da Micromega
La piazza c’è, manca l’opposizione politica
Una notizia buona e una cattiva. La buona, dopo lo scorso fine settimana a Roma e non solo, è che un’opposizione sociale esiste; la cattiva, è che l’opposizione politica non esiste. O se esiste, è afasica, o al massimo balbetta, ciancica, e si disperde in guerricciole interne, o – il che forse è pure peggio – tenta di istituzionalizzarsi. Per esempio, si sta affermando il principio che non si possa criticare il presidente della Repubblica (stiamo per reistituire il delitto di lesa maestà?); e proseguendo: non si può non esprimere devozione al “santo Padre”, anche se non si è credenti, né cattolici; non si può dire che i soldati, vivi o morti, in Iraq o in Afghanistan sono soldati di professione, e che nella loro dimensione professionale è compreso il rischio: essere feriti, rimanere invalidi, trovare la morte, come quegli ultimi poveretti che hanno lasciato la vita in un Paese di cui probabilmente ignoravano anche l’esistenza, prima di andarci, e soprattutto, in una guerra della quale non avevano capito la vera ragione.
Non basta. Questa opposizione, o sedicente tale, sembra, per bocca almeno di un suo esponente ogni giorno, preoccupata di ribadire che “l’antiberlusconismo non paga”, e che non ci si può limitare a fare la battaglia contro il presidente del Consiglio. Come se non fosse sufficientemente chiaro a tutti che è il signor presidente del Consiglio, stretto alle corde dalla sua stessa bulimia di potere, a ingaggiare battaglia contro tutti coloro che ritiene debbano essere iscritti nelle liste di proscrizione stilate dai suoi scudieri. Come se non fosse davanti a noi uno scenario inquietante in cui chi parla di colpo di Stato, di complotti, di congiure, di attentato alla democrazia è lo stesso che medita colpi, trama e cospira, tenta di erodere o destrutturare il sistema democratico. E quel tale ha un nome e un cognome, che i leader delle diverse opposizioni ben conoscono.
Abbiamo, insomma, una “sinistra”, come ha recentissimamente detto Stefano Rodotà, prigioniera della ingegneria istituzionale, che nondimeno sta perdendo di vista la logica costituzionale. Ma possibile che non sia chiaro che una banda di malfattori sta passando sulla cultura democratica – su quel po’ che abbiamo ricuperato dopo il fascismo – come un trattore sulle zolle? Le spiana, il trattore, e poi viene la semina. La semina degli amici degli amici, finalmente al potere, è una semina di odio: l’odio che promana dalle loro facce, dai loro ghigni, dalle loro parole sputate sugli avversari (trasformati in nemici, e ormai sul punto di essere “deumanizzati”) come pallottole; le ingiurie, le minacce, i colpi di mano in Parlamento, le pressioni sui media e sulla magistratura, in un tentativo complessivo di additare metà Paese come costituito da anti-italiani, da “farabutti”, da “gente che non ha mai lavorato”, e così via. E come nel caso della visione complottistica, l’odio che da costoro promana e viene coltivato, è attribuito agli avversari: chi non ricorda i comizi berlusconiani in cui Forza Italia era presentato come il partito dell’amore mentre gli avversari erano additati quali portatori d’odio? “La sinistra ci odia”, o semplicemente, autoreferenzialmente: “La sinistra mi odia”.
Ebbene, premesso che chi semina vento, può raccogliere tempesta, queste verità lampanti non pare siano colte dai rappresentanti delle opposizioni, mentre centinaia di migliaia di quegli “anti-italiani” scendono nelle strade, inventano iniziative le più diverse, si arrampicano sui tetti, fanno cortei, creano e cantano motti, inalberano striscioni fantasiosi, si accalcano nelle piazze, entrano in sciopero, bloccano le strade: dimostrano insomma come vi siano mille modi per opporsi e per ridestare quella parte del Paese che è contro, ma che si rassegna al silenzio o all’attesa inerte. Piazza del Popolo (mai nome apparve più adatto), era un muro gigantesco, quasi impenetrabile, di donne e uomini di ogni età, sabato 3 ottobre, in una Roma inondata di sole, con gran dispetto del mellifluo Emilio Fede, e di quel tanghero di Augusto Minzolini che ha esternato il suo dovere di stipendiato pubblico, ma di dipendente privato, del Premier, con un incredibile “editoriale” che dovrebbe essere trasmesso nelle scuole di giornalismo della Penisola.
E non si tratta di folclore, sia pure “di sinistra”: si tratta di lotta per la sopravvivenza, che a quanto pare sta diventando difficile anche sul piano fisico, come dimostrano i morti di Messina, davanti ai quali il Sindacato Nazionale della Stampa non ha ritenuto opportuno fermare la manifestazione, come aveva fatto due settimane prima per i soldati deceduti in guerra. E del resto non abbiamo sentito dire che quella romana non era una manifestazione contro il governo? E contro chi, allora? Chi se non i gaglioffeschi Brunetta, Sacconi, Scaiola, Maroni…, e gli altri simpatici puffetti e puffette, hanno inveito contro i giornalisti non embedded? Chi ogni giorno mette alla gogna i magistrati (“malati di mente”, Berlusca dixit)?
Chi minaccia con sanzioni di vario genere quanti intendono continuare a “disturbare” la pubblica quiete? Quella quiete di plastica, da Mulino Bianco, ornata di macine alla panna e cioccolata, che il Capo, lui in persona, saltellante da Onna a Giampilieri, sedicente messaggero di felicità, promette con flautate parole che vorrebbero rassicurare ma suonano solo grottesche, e talora, come a Messina, anche irresponsabili: (“poteva andare molto peggio”, ha avuto il fegato di dire a inerti sopravvissuti i cui figlioli o mamme o fratelli giacevano sotto un sudario di fango…). Come dire: il modo ancor m’offende. Contraddicendo molti dei lettori di questo blog, continuo a ritenere che quell’uomo sia sul viale del tramonto. E se l’opposizione politica non sa fare la sua parte, è tempo che quella sociale la scuota, e, in caso di inerzia persistente, sia essa a promuovere nuove forme di azione “in proprio”. Come i ciclostilati del ’68.
Angelo d'Orsi
(6 ottobre 2009)
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