domenica 4 ottobre 2009

Peppe Giudice: Dopo il crollo del comunismo non ha più senso dividersi

Dopo il crollo del comunismo non ha più senso il dividersi tra socialisti e comunisti
mercoledì 30 settembre 2009, 12.43.31

Dal sito Socialismo




Felice Besostri ha spesso rilevato come l’Italia sia di fatto l’unico paese al mondo in cui si continua a dare un senso alla divisione tra socialisti e comunisti a vent’anni dalla fine dell’URSS.
Le ragioni di tale assurda permanenza sono dovute da un lato alla paurosa caduta della cultura politica italiana e dall’altro alla chiusura autoreferenziale del ceto politico della sinistra rimasta in campo dopo il 1992.
Concentriamoci su questo secondo aspetto. Il post-comunismo, il comunismo identitario e le schegge craxiane e postcraxiane (SDI) sono equamente corresponsabili di questa profonda anomalia. Il primo perché ha rimosso la storia e costruito una subcultura novista secondo la quale dopo l’89 venivano ad essere contestualmente superate tutte le esperienze del movimento operaio (socialista e comunista); in tal modo essi implicitamente accettavano la critica liberale al comunismo secondo la quale ogni forma di socialismo è stata sconfitta dalla storia e resta in piedi solo il pensiero unico liberale; al tempo stesso i postcomunisti mantenevano in piedi le effigi di Antonio Gramsci ed Enrico Berlinguer che venivano, per come dire, arbitrariamente democomunistizzati (Vacca ha perfino cercato elementi di liberalismo nel pensiero di Gramsci!). I comunisti identitari sostenevano che quello che era crollato non era comunismo, ma capitalismo di stato (ma questo non lo sostenevano i socialisti democratici Kautsky e Mondolfo, negli anni 20, tra gli insulti dei bolscevichi?). E che il vero comunismo era altro. Quale? Ma perbacco quello di Marx che nell’Ideologia Tedesca (del 1846!) afferma perentoriamente: “il comunismo non è un astratto dover essere, ma il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”! A parte il fatto che estrapolare una frase da un ragionamento complesso e decontestualizzarla storicamente per trasformarla in slogan non è il modo migliore per onorare la memoria di un grande pensatore (ma anche Lenin ha molto giocato sulle estrapolazioni arbitrarie), che cosa comporta in termini di programma politico reale tale sologan? Nulla. Solo la definizione dell’identità comunista come identità negativa, incapace di definire una proposta politica praticabile e fare di un comunismo astratto ed astorico il punto d’incontro di tutti i velleitarismi e gli infantilismi protestatari. In più costoro nel muovere una critica radicale al socialismo europeo lo identificano in blocco (costruendo un grande imbroglio storico-ideologico) con le sue derive più moderate e criticabili (e criticate anche da moltissimi socialisti) : Blair, Schroeder; qualcuno arriva persino al 1919 quando due traditori (veri) del socialismo come Ebert e Noske fecero assassinare Rosa Luxemburg, ma anche molti socialdemocratici di sinistra in Baviera (furono uccisi più socialisti di sinistra a Monaco che spartachisti a Berlino). Ebert e Noske sono una macchia gravissima per la socialdemocrazia tedesca (che a quel tempo era divisa in due partiti: i maggioritari MSPD – che fu responsabile dei massacri, e la sinistra USPD – che era all’opposizione, in quest’ultima militavano i capi storici del socialismo tedesco, Kautsky, Hilferding e Bernstein), ma è pura ipocrisia condannare tale atto scellerato se nel contempo non si condanna con la stessa determinazione il massacro degli operai e marinai di Kronstad fatta da Lenin e Trotzky, uccisi solo perché chiedevano la libera elezione dei soviet.
Ma lasciamo questi tempi lontanissimi ed occupiamoci degli ultimi responsabili della persistenza di tale artificiosa divisione: craxiani e postcraxiani. Costoro giustificano l’esistenza di una identità socialista contrapposta a quella comunista sulla base di un principio di rancore verso “i comunisti carnefici del PSI”. Essi addirittura, mistificando la storia, fondano sull’anticomunismo la identità stessa del PSI costruendo una becera confusione tra autonomismo socialista ed anticomunismo viscerale. E di fatto tendono ad identificare le ragioni del socialismo italiano ed europeo con le sue peggiori derive degenerative: il tardo-craxismo, e Tony Blair. Alla fine l’identitarismo craxiano è specularmente convergente con l’identitarismo comunista anche nel mistificare la storia.
Insomma abbiamo avuto una sinistra che per quasi vent’anni ha subito una paurosa regressione culturale anche in virtù delle grossolane banalizzazioni e volgarizzazioni dei fatti storici e della cultura politica. Abbiamo già detto che qui c’è una delle ragioni essenziali della crisi radicale della sinistra italiana.
Ma non possiamo comprendere la portata di tale scempio di pensiero e di storia se non comprendiamo le ragioni vere della divisione tra socialisti e comunisti sul piano storico-ideologico e del perché esse da tempo non hanno più ragione di esistere.
Nell’800 non c’era una distinzione netta tra i termini socialismo e comunismo. Marx ha sempre concepito i due termini come intercambiabili e nella prima metà di quel secolo entrambi avevano un significato piuttosto indeterminato. Nella seconda metà dell’800 il termine socialismo prevalse. Socialiste furono chiamate sia la I che II Internazionale. Socialisti (o socialdemocratici) si chiamarono i primi partiti operai affiliati alla II Internazionale.
Quando dunque avviene la divaricazione e socialismo e comunismo iniziano ad indicare due movimenti politici separate e due ideologie diverse?
Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, quando i bolscevichi russi intesero separare i propri destini dal resto del movimento socialista ed incitarono alla scissione interna dei vari partiti socialisti, fino alla fondazione della III Internazionale (comunista) nel 1920. Comunisti si dichiararono quindi quelle frazioni dei partiti socialisti che aderirono ai 21 punti della III Internazionale (dittatura del proletariato, centralismo democratico, esportazione del modello rivoluzionario sovietico, leninismo come ideologia-guida, accettazione del PC sovietico come partito-guida dell’Internazionale).
E’ quindi nel 1920 l’atto di nascita ufficiale del comunismo quale movimento politico separato dal socialismo. Storicamente quindi il comunismo del 900 non è separabile dall’ideologia leninista (e dalle sue derivazioni) e dagli stessi destini dello stato sovietico (e da quelli a esso ispirati)
Ma ora dobbiamo entrare nel merito del vero contenzioso ideologico che contrappose socialisti e comunisti di allora.
Il pensiero di Marx, nei primi vent’anni del 900, subisce due interpretazioni contrapposte corrispondenti a due progetti politici diversi.
Una è quella del socialismo democratico (Kautsky, l’Austromarxismo, Turati) e l’altra è quella bolscevica (Lenin, Trotzky, Bucharin). Poi vi sono altre non inquadrabili nelle due prevalenti (vedi Rosa Luxemburg) ma non hanno avuto la stessa influenza.
La seconda ipotesi parte dall’assunto che essendo giunto, con l’imperialismo, il capitalismo nella fase suprema propedeutica alla sua crisi generale ( o crollo) era necessario che il movimento operaio si fosse dotato di una avanguardia rivoluzionaria organizzata (anche militarmente) in grado di conquistare violentemente il potere, imporre la dittatura rivoluzionaria (che per Lenin è la “dittatura dell’avanguardia organizzata del proletariato” vale a dire del partito comunista) ed avviare dall’alto la trasformazione in senso socialista della società. La transizione al socialismo ha quindi bisogno di un lungo periodo di dittatura rivoluzionaria che spezzi la resistenza della borghesia e metta da parte la democrazia rappresentativa che per Lenin è solo una forma della dittatura borghese sul proletariato.
Per Kautsky invece (seguito in sostanza dall’austromarxismo ed in Italia da Turati e Mondolfo) occorre fare una netta distinzione tra il concetto di “rivoluzione politica” (che ha una radice borghese-giacobina) e quello di “rivoluzione sociale” (che egli ritiene coerente con lo spirito del marxismo). La prima si riduce alla conquista traumatica del potere politico, la seconda è un fenomeno certo più complesso e lungo che comporta la trasformazione profonda dei rapporti economici e sociali fra le classi supportato da un processo di maturazione di condizioni soggettive (coscienza di classe) ed oggettive (sviluppo delle forze produttive). Kautsky e gli altri socialisti a lui affini ritengono che lo sviluppo della democrazia è inscindibile dal processo di trasformazione socialista. Pertanto la democrazia rappresentativa non può essere ridotta, come fa Lenin, ad una forma del dominio borghese sulla società, ma rappresenta un valore ed una conquista universale della civiltà politica a cui ha contribuito fortemente il movimento operaio e socialista. La lotta per il suffragio universale (nell’800 la maggior parte dei liberali era contro di esso), lo sviluppo della libertà di stampa, di organizzazione politica e sindacale, di sciopero, sono in gran parte frutto delle battaglie del movimento operaio. Anzi è proprio la borghesia che cerca di disfarsi della democrazia quando sono minacciati i suoi interessi vitali (il fascismo ne è una prova). Il volontarismo giacobino dei bolscevichi è per i socialisti democratici una forma di regressione nel blanquismo (dal socialista utopico francese Blanqui) e quindi nel socialismo primitivo fortemente contraddittorio con lo spirito del marxismo.
Secondo Kautsky, Hilferding e Mondolfo il regime sovietico non avrebbe realizzato il socialismo (giacchè esso non è realizzabile per decreto) ma un capitalismo di stato fondato sulla dittatura sul proletariato di un ceto di funzionari. La storia ha impietosamente confermato questa analisi.
Il comunismo non è nato solo per difendere la rivoluzione sovietica (molti socialisti che non condividevano i metodi bolscevichi la difendevano ma considerandola come un evento eccezionale non imitabile ed esportabile) ma per rendere quel modello universale.
In occidente, tra i comunisti, solo Gramsci si rese pienamente conto, nelle sue riflessioni in carcere, che in Europa occidentale non era possibile realizzare una rivoluzione sul modello russo. Ed avviò interessanti analisi sul rapporto tra stato e società civile e sul tema dell’egemonia, analisi e riflessioni che furono purtroppo interrotte dalla sua prematura morte.
Gramsci lascia a metà il suo pensiero. Inizia ad allontanarsi dal comunismo della III Internazionale ma non riesce ad uscirne del tutto. La sua concezione del partito è leninista, ma molte sue riflessioni lo allontanano dall’ortodossia.
Gramsci è un innovatore rispetto alla ortodossia comunista, ma non rispetto al socialismo democratico di Kautsky e Bauer. E’ evidente che la sua idea di trasformazione socialista che non può avvenire per decreto lo porta vicino all’austromarxismo. Anzi un Gramsci liberato dai residui leninisti, con la sua teoria dell’egemonia costituisce un ideale completamento e modernizzazione per la teoria della transizione democratica al socialismo di Kautsky, Bauer e Turati.
In realtà i partiti comunisti occidentali (il PCI in particolare, ma non solo) hanno, nel dopoguerra nella loro prassi concreta lavorato più nel solco tracciato da Kautsky o Turati che da quello di Lenin. Solo che non hanno mai voluto assumerne la consapevolezza. Del comunismo hanno mantenuto il legame di ferro (Togliatti) con l’URSS ed il centralismo democratico, ma si sono integrati nella democrazia rappresentativa. Ma la presenza di tale doppiezza ideologica non ha permesso loro di divenire forze stabili di governo. Non solo, ha anche impedito di sviluppare creativamente quelle idee del socialismo democratico degli anni 20 che avevano bisogno di un aggiornamento dopo le grandi mutazioni del capitalismo del secondo dopoguerra, affidandosi piuttosto ad una lettura rivisitata da Togliatti del pensiero di Gramsci (che viene privato dei suoi elementi più innovativi)
E’ Riccardo Lombardi, nel PSI, che riprende e riattualizza sulla base di una analisi rigorosa delle grandi trasformazioni interne al capitalismo il concetto della transizione democratica al socialismo, in un contesto molto diverso di quello degli anni 20.
Lombardi si rende conto che il leninismo (sia pur proclamato ma non praticato) è un freno ed un macigno ideologico per una sinistra, poiché la conduce su un terreno fuorviante. Che l’Unione Sovietica non è riformabile e rappresenta l’antitesi dei valori del socialismo in quanto non solo ha totalmente represso ogni forma di libertà ma non ha affatto liberato i lavoratori dall’alienanzione, costringendoli ad uno sfruttamento uguale a quello capitalistico. Che non ha senso parlare di conquista rivoluzionaria del potere, con un modello di stato, di economia e società radicalmente diverse da quando certe idee furono partorite. Che compito dei socialisti è di puntare al superamento graduale del capitalismo agendo dall’interno del sistema attraverso le “riforme rivoluzionarie” che creano rotture di vecchi equilibri e creazione di nuovi tramite il mutamento continuo dei rapporti di potere fra le classi. Lombardi si considera a-comunista, perché convinto che una politica comunista in occidente non sia praticabile e che i partiti comunisti occidentali dovranno inevitabilmente confluire verso il socialismo democratico; che egli non confonde con i modelli realizzati di compromesso socialdemocratico. Egli è critico con quella socialdemocrazia che considera il compromesso con il capitalismo come un dato permanente e non come una tappa verso forme più avanzate di trasformazione sociale.
Sulla storia della sinistra italiana degli ultimi trent’anni non mi esprimo: ho già detto tutto in altri saggi.
Se il ragionamento che io ho fatto ha un fondamento logico è evidente che il comunismo come movimento storico crolla con la fine del socialismo reale. Sopravvive in Cina come modello politico, ma si accompagna con il più brutale sfruttamento capitalistico (la dittatura dei funzionari e l’avidità dei capitalisti).
Dopo l’89 siamo tutti socialisti. Certo dobbiamo essere coscienti dei limiti della socialdemocrazia e delle sue derive liberali degli anni 90. Ma non si superano questi limiti tramite qualche iniezione di leninismo che si è rivelata una ideologia totalmente fallimentare. Si superano recuperando i principi e le elaborazioni più coerenti e serie del socialismo democratico fedele ai propri ideali. Non certo inseguendo qualche colonnello sudamericano millantatore e megalomane. Né tantomeno il “comunismo trascendentale” (così lo chiama Ruffolo) di Toni Negri (frutto di velleitarismo visionario ed ermetico.
Serve un socialismo del XXI secolo (l’ho detto più volte) come ricerca e proposta alternativa alla grave crisi del capitalismo. E’ su questo che intendiamo spingere la riflessione e proporla a tutti i compagni di “Sinistra e Libertà”

Giuseppe Giudice

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