Straniere in terre domestiche
Data di pubblicazione: 01.10.2009
Autore: Bottini, Fabrizio
Estranee in città, a cura di Antonietta Mazzette: nella nuova segmentazione sociale, generazionale, etnica e di genere, la frammentazione e ricomposizione della domanda collettiva di spazio pubblico
Chase off those stay-at-home blues
Stairway stairway
Down to the crowds in the street
They go their way
Looking for faces to greet
But we run on laughing with no one to meet
(Joni Mitchell, Night in the City )
Il guru della sicurezza urbana Oscar Newmann, sul finire degli anni ’60 del secolo scorso esplorava per i suoi seminali studi gli spazi tenebrosi del complesso popolare Pruitt-Igoe di St. Louis, la cui successiva demolizione venne pomposamente etichettata dai critici come “morte dell’architettura moderna”.
Notava, Newmann, come tutto il sistema degli spazi collettivi, nella cavernosa macchina per abitare concepita a tavolino dagli architetti modernisti, apparisse abbandonato, collassato, eventuale territorio di conquista per bande. Ma, appena superata la soglia di qualunque appartamento privato, si era improvvisamente catapultati in un’altra dimensione, dove regnavano tranquillità, pulizia, comfort.
Tranquillità, pulizia, comfort, che invece permeavano di sé, fuori dagli alloggi, anche gli spazi pubblici e collettivi di un intervento di case popolari adiacente alle torri corbusieriane del Pruitt-Igoe, pur abitato dalla medesima composizione sociale. Forse basta già il nome del quartiere dirimpettaio, a suggerire la soluzione dell’enigma: Carr Square Village. E come ci si può già immaginare si trattava di case a schiera con giardinetti, insomma quel tipo di quartiere tradizionale che oggi un po’ ripulito farebbe il suo figurone in certe iniziative degli ammiratori del Principe Carlo. Saltano in mente in modo quasi automatico, questo genere di rifugi paleourbani (o antiurbani?) primordiali, quando ci si ritrova inopinatamente scaraventati in quella che Antonietta Mazzette definisce “città che è andata trasformandosi da complesso sistema sociale e produttivo in un’articolata macchina del consumo per incrementare il quale le attrattività (potenziali o già presenti) hanno assunto valore centrale e primario”. Dagli anni del boom economico post bellico, è cambiata forse la composizione degli ingranaggi di questa macchina tritatutto, non certo il suo procedere imperterrita nel produrre spazi che anche nelle migliori intenzioni si rivolgono a una società che non esiste più, sempre che sia mai effettivamente esistita.
Un segmento assai significativo della società che si muove negli spazi dei territori contemporanei, è quello proposto da Mazzette nel suo Estranee in città. A casa, nelle strade, nei luoghi di studio e di lavoro (F. Angeli, 2009). Una raccolta articolata quanto omogenea di saggi e ricerche che illumina l’universo femminile, che soprattutto nello spazio pubblico e collettivo attraversa un duplice disagio: da un lato la relativa “estraneità” che condivide col resto del corpo sociale rispetto al mutamento di tali contesti, dall’altro la particolare esposizione, a un universo frammentato e disorganizzato come quello di oggi, di giovani, straniere, badanti, colf. E con esse, implicitamente, a incontrare inopinati ostacoli sono anche tutti quei processi di interazione, integrazione, rapporti che sottende il loro muoversi nella metropoli.
Un muoversi, attraversare contesti, che nell’insediamento complesso e dilatato contemporaneo assume contorni spazio-temporali molto diversi e articolati, anche solo paragonato alle recenti esperienze della mobilità pendolare. Significativamente collocato in testa alla raccolta, il saggio di Matteo Colleoni e Francesca Zajcykz, Il tempo della mobilità femminile nella società degli insediamenti urbani diffusi, può costituire una sorta di cornice generale di riferimento anche agli altri contributi. Da cui sembra curiosamente emergere anche un nuovo ruolo femminile territoriale, in grado di riproporre secondo modalità diverse un ruolo di connessione fra luoghi, simile a quello tradizionale all’interno della famiglia.
Giampaolo Nuvolati, col suo Presenze e assenze: le donne nei luoghi di vita urbana, ricostruisce uno schema leggibile dei percorsi, assai poco noti ai più, che intersecano spazio urbano e vite delle badanti-colf. Ovvero restituisce un quadro non episodico o aneddotico a immagini che tutti conosciamo ma che a tutti per molti versi sfuggono: l’anziano guidato attraverso ambienti metropolitani-territoriali che probabilmente gli sarebbero preclusi senza le innovazioni di percorso introdotte dalla badante; la maggiore articolazione pubblica che la città assume grazie all’uso e riuso intensivo di alcuni ambiti socialmente dismessi; la valorizzazione di servizi che parevano al tramonto, o l’emergere di nuovi bisogni.
La duplice estraneità dell’essere immigrate e giovani, è oggetto di interesse dei due contributi di Silvia Crivello, Aldolfo Mela (Torino) e Roberto Segatori (Perugia). Nel primo caso il processo di integrazione dentro gli spazi della città riguarda le ragazze più giovani, la “seconda generazione”, alle prese da un lato con l’identità familiare, dall’altro con un mondo che fuori da casa vivono in gran parte come proprio a tutti gli effetti, e che come tale vorrebbero vivere. Con varie difficoltà e contraddizioni. A Perugia è il caso di Meredith Kircher/Amanda Knox che introduce all’apparentemente nebuloso mondo delle studentesse straniere, che gli fa da sfondo. Qui, grazie al rigore della ricerca, dati e interviste restituiscono tra l’altro da un lato una realtà assai meno romanzesca, e più positiva, di quanto sospettabile, dall’altro la curiosa, ambigua, cangiante realtà degli spazi di un centro storico affatto ideale nella qualità dell’offerta. Un’immagine che forse declinata solo in parte per Venezia dalla letteratura, in effetti è possibile applicare con ogni probabilità a qualunque città storica italiana ed europea, e che l’interazione col mondo specifico delle studentesse riesce a far emergere con straordinaria vivacità (ma si ripensi ad esempio all’analogo mondo bolognese abbozzato a suo tempo dall’arte di Andrea Pazienza).
Sono solo alcuni esempi, tra i molti, della interessante raccolta di Antonietta Mazzette che comprende saggi su altri casi e temi: sicurezza ed estraneità delle donne (Roma, Fiammetta Mignella Calvosa, Simona Totaforti); casa e immigrate (Venezia, Tiziana Plebani); il “maledetto” ritorno delle migranti (Sicilia, Michela Morello); storie di vita e città (Genova, Antida Gazzola). A conclusione del percorso, la curatrice si pone strumentalmente la retorica domanda: Perché l’Italia non è più il Bel Paese?
E la risposta, naturalmente articolata fra la fisiologica difficoltà sociale all’adattasi a un contesto in evoluzione, e la patologica incapacità, tutta italiana, a ragionare in termini strategici sul futuro del territorio, pone un altro quesito di natura decisamente interdisciplinare: che tipo di “politica dello spazio” auspichiamo, e siamo in grado di gestire. Ovvero, se un ritorno al Bel Paese non è ovviamente possibile, e forse per molti versi neppure auspicabile (agli spazi tradizionali corrispondono quasi sempre, piaccia o meno, soggetti e ruoli tradizionali), in quali contesti metropolitani o meno potrebbe interagire la nostra società?
Anche se chi scrive non è certo in grado di dare una risposta, qui e ora, sicuramente le tematiche evocate dai saggi proposti da Antonietta Mazzette sottendono un implicito percorso storico-spaziale a cui è possibile far riferimento. E ripercorrerlo forse aiuta a chiarire alcuni problemi.
Si parlava all’inizio del disagio della città-macchina, contrapposto alla “misura d’uomo” del villaggio. E in effetti sin dai suoi esordi moderni, la standardizzazione dello spazio collettivo garantito dalla città moderna, almeno quello di cui si fa carico in modo diretto la pubblica amministrazione (ad esempio attraverso le norme urbanistiche), rinvia sempre all’idea di villaggio, più o meno estesa, articolata, dilatata e adattata, e sostanzialmente alle figure sociali che questo villaggio ideale abitano e percorrono. In principio è la ward, sottocircoscrizione amministrativa tradizionale britannica (nominalmente ancora in uso oltreoceano, ad esempio a New Orleans), ripresa all’inizio del ‘900 negli schemi della città giardino come unità di vicinato minima del nuovo insediamento: cinquemila abitanti, con le case che fanno riferimento funzionale e spaziale a una rete di ambienti stradali, aperti, piazzette, verde, nucleo di servizi essenziali. Basta scorrere i suggestivi schizzi delle città giardino con cui l’urbanista Raymond Unwin illustra il suo manuale Town Planning in Practice nel 1909, per capire che ci troviamo in tutto e per tutto nella riproduzione moderna di un villaggio tradizionale: pulito, ordinato, igienico e socialmente equo, ma inequivocabilmente granitico nel proporre spazi a misura di famiglia altrettanto tradizionale.
È il medesimo criterio a ispirare, dopo la prima guerra mondiale, la prima teorizzazione compiuta della Neighborhood Unit, quella elaborata negli anni ’20 da Clarence Perry per il Piano Regionale di New York. Anche qui, pur nel contesto metropolitano delle highways automobilistiche ad alta capacità e velocità, se ne ritagliano come parti costitutive veri e propri villaggi autosufficienti, col loro common verde, la scuola/centro civico, la mini-piazza, il calcolo dei tempi e delle distanze tanto rigorosamente orientato alla pedonalità quanto implacabile nel dettare ritmi comunque imposti alla vita urbana, almeno a quella del quartiere che sfugge alla logica della produzione. E ancora a loro modo tradizionalissimi e standardizzati sono i soggetti sociali a cui si rivolge: famiglia nucleare implicitamente wasp, marito impiegato, moglie casalinga, un paio di figli, tempi di lavoro e riposo più o meno determinati da quelli della grande impresa fordista che permea di sé il metabolismo metropolitano. Basta vedere l’elegiaco film The City (1939), soggetto di Lewis Mumford, per cogliere immediatamente ed esplicitamente come il quartiere residenziale moderno proposto dai riformisti rooseveltiani altro non sia se non un ritorno al villaggio tradizionale, ai suoi valori, alle sue figure sociali di riferimento.
A modo suo forse un po’ più aperta all’innovazione, la bistrattata (ai tempi nostri) cultura della città moderna razionalista, proprio quella della “macchina per abitare”. Ad esempio, nel nostro paese negli stessi anni di The City un Piero Bottoni di stretta osservanza corbusieriana stila un Quadro Sinottico delle funzioni della città, dove al lavoro, al tempo dell’abitare e della famiglia, alle attività ludiche, sportive, culturali, alla fin fine corrispondono spazi fisicamente piuttosto liberi (esattamente, col senno di poi, quelli che i contemporanei paladini della sicurezza a senso unico chiamano i terrificanti vuoti tra gli anonimi casermoni). Passo in avanti che pare immediatamente vanificato quando, nel dopoguerra, iniziano apparentemente nel segno pur parziale del razionalismo a crescere i quartieri del piano Fanfani. Non a caso pensati dal ministro del lavoro a traghettare l’Italia da una condizione rurale-contadina ad un più avanzato stadio urbano-operaio, i quartieri Ina-Casa assumeranno rapidamente di nuovo l’aspetto di villaggi, certo più simili ai borghi di bonifica dell’era fascista che non alle nuove città che caratterizzano la ricostruzione europea. E del resto la domanda sociale a cui si rivolgono questi “paesi dei barocchi” (nell’azzeccata definizione di un critico d’architettura dell’epoca) è ancora quella della famiglia tradizionale, e qualunque tentativo di innovazione sia negli spazi privati che in quelli pubblici verrà poi praticamente vanificato dai modi d’uso concreti.
Siamo dunque ancora all’anno zero, nel rapporto fra domanda di vita moderna da parte dei vari soggetti che abitano e si muovono nello spazio metropolitano contemporaneo, e offerta di ambito pubblico? La risposta è ovviamente no, visto che i medesimi soggetti hanno elaborato spontaneamente di generazione in generazione, di specificità in specificità, una personalizzata colonizzazione sia di tutto quanto si presentava sufficientemente elastico ed aperto (le grandi campiture del quartiere razionalista così come della piazza rappresentativa borghese ecc.), sia di altri ambiti pubblici, semipubblici, privati ma non troppo rigidamente delimitati. Esistono però moltissime sfumature, gradazioni, manifestazioni esplicite, predatori e gazzelle, in questo sfuggente mondo della rete metropolitana di relazioni, riferimenti, identità. Sicuramente ben oltre le (necessariamente?) schematiche riflessioni spaziali di architetti, urbanisti, amministratori e decisori vari, ma anche assai più quantificabili e qualificabili di quanto spesso (se non sempre) ci propone certo giornalismo conformista, facile agli stereotipi.
Nella bella raccolta di Antonietta Mazzette, nei contenitori di pietra, asfalto, passerelle, fazzoletti di verde, luci di insegne e lampioni, riflessi di schermi, si muovono le “estranee”, ovvero quel particolare soggetto che sinora è comparso nei villaggi ideali solo con la silhouette della casalinga, qualche volta della bambina che teneva per mano sulla via della scuola. Persone che nella realtà assumono le sembianze assai diverse degli infiniti segmenti in cui si spezzetta l’universo femminile, e che pure riflettendo solo un istante sappiamo di conoscere benissimo dall’esperienza di tutti i giorni. La pendolare per lavoro e servizi familiari nello sprawl metropolitano, presenza ubiqua e vero e proprio trait-d’union del nuovo villaggio allargato, tra il complesso scolastico, il centro sportivo, il supermercato, il posto di lavoro, le abitazioni proprie e di parenti. Protagonista involontaria di una vera e propria colonizzazione di territori sterili, come il ciglio stradale, il parcheggio luogo di incontro, occasionale gioco per bambini, la scansia fra lo scatolame e i detersivi luogo di discussione. O gli infiniti universi sconosciuti in cui si articola il mondo delle immigrate, badanti ancora alla conquista di spazi pubblici dimenticati o residuali, per le passeggiate con l’anziano assistito, o connazionali alla ricerca di un surrogato di piccola patria, conquistata tenacemente magari strappandola a qualche banda giovanile.
Ma probabilmente è soprattutto l’ambigua qualità degli spazi storici di fronte ad una utenza caratteristicamente postmoderna, come le giovani donne straniere studentesse universitarie descritte a Perugia, a farci tornare al punto di partenza: è possibile nell’epoca del villaggio globale, virtuale-mediatico ma anche assai materiale e tangibile nella vita quotidiana, andare oltre gli ambienti pubblici del villaggio tradizionale? O almeno cercare di superare la totale separatezza fra domanda (implicita, s’intende) e offerta, che obbliga da un lato a sterili esercizi intellettuali urbanisti e pubblici amministratori, dall’altro l’utenza finale, specie la più debole ma innovativa, a faticosi processi di adattamento?
La risposta, sta probabilmente nell’applicare davvero il principio dell’interdisciplinarità alla gestione urbana: cosa ben diversa dall’accontentare qualche corporazione scientifico-professionale cooptandone rappresentanti in commissioni e gruppi di lavoro. Anche questa, per usare la categoria introdotta da Anonietta Mazzette nelle conclusioni del suo libro, è una propositiva forma di resistenza.
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