BIPOLARISMO AL CAPOLINEA
Politica
di Rina Gagliardi
Sul Corriere di ieri, Michele Salvati analizza ma soprattutto piange la fine oramai conclamata del bipolarismo - cioè del sistema politico che ha retto (e sta tutt'ora reggendo) l'Italia dal 1994 in poi. Un quindicennio, quello della "Seconda Repubblica" che, secondo il noto saggista, ha «se non i giorni, gli anni contati». E l'ultima sentenza di morte sarebbe, nientemeno, che l'affermazione di Pier Luigi Bersani alla testa del Pd. Insomma, una iattura, un disastro. Noi, che del commento di Salvati condividiamo la conclusione analitica, ci permettiamo di rovesciare il giudizio: è morta (se è morta) una creatura che ha portato al Paese soltanto danni. E salutiamo la fine del bipolarismo con una certa allegria.
In verità, esso è stato, fin dall'inizio, una delle tante possibili scorciatoie alla crisi dei grandi partiti di massa - effetto non meccanico della bufera di Tangentopoli - sui quali si era fondata la lunga, felice era della Prima Repubblica. Scomparivano il Pci, la Dc e il Psi, morivano (o venivano dichiarate morte) le grandi ideologie novecentesche, andava in soffitta un'idea di politica partecipata e, appunto, nutrita dalle grandi organizzazioni di massa. Fu in questo clima - di fortissima e diffusissima sfiducia nella politica - che scattò l'innamoramento dei politologi per il modello anglosassone, quello in vigore in Inghilterra e negli Usa: dove, per forza di meccanismi elettorali, la dialettica politico-parlamentare era - è - ridotta a due soli grandi contenitori (Laburisti\ Conservatori, Democratici\Repubblicani).
Due grandi "partiti" di opinione che non solo non coincidono con la partizione Sinistra\Destra, ma sostanzialmente configurano ambedue una dimensione centrista e internamente variegatissima.
In Italia, naturalmente, data la difficoltà di produrre per decreto il bipartitismo, si dovette applicare il modello in forma bipolaristica: due schieramenti, insomma due "poli", due candidati premier (che sciccheria l'anglicismo che sostitutiva il vetusto "Presidente del consiglio"!), insomma una maggioranza e un'opposizione. Tutto il resto, niente - il centro era abolito, anzi era "trasfuso", in dosi diverse, nei due poli, le minoranze, quanto a loro, si impiccavano. Si badi bene: tutto questo processo è stato caldeggiato e realizzato soprattutto grazie alla sinistra, cioè agli eredi del Pci. E furono i politologi di sinistra a decretare che una scelta così ridotta tra due sole possibilità , "o di qua o di là", anche qui da noi, anche in un Paese così "multipolitico" e "multi ideologico", avrebbe fatto avanzare la democrazia e, soprattutto, il mitico "potere dei cittadini". I quali avrebbero così potuto eleggere direttamente le loro maggioranze, e soprattutto i loro governanti, bloccando la prassi (e le prerogative) del Parlamento di «fare e disfare gli esecutivi nel corso della legislatura», come scrive Salvati. In breve: proprio questa riscrittura di fatto della Costituzione, questo annullamento (sempre di fatto) della rappresentanza parlamentare, questa quasi sepoltura dei partiti politici erano gli "ingredienti" essenziali della nuova Repubblica. E la garanzia di un sistema più trasparente, più "democratico" e più stabile.
Vogliamo vedere invece che cosa è davvero successo nei tre lustri che ci stanno alle spalle? Primo, la crisi della politica ha galoppato a ritmi pressoché epocali, con i devastanti effetti antropologici nei quali siamo a tutt'oggi immersi - come la personalizzazione, il leaderismo e, soprattutto, il populismo, nel loro perverso intreccio col potere mediatico. Il populismo è andato al governo, con Berlusconi e con la Lega. Ma ha intriso di sé anche l'opposizione - che cos'è stato il veltronismo se non una variante "progressista" del berlusconismo? Idee, contenuti, programmi e progetti sono precipitati a zero - non valgono a nulla, non servono a nulla, quando sono l'immagine, la demagogia, l'urlo, il talk-show televisivo a orientare le scelte elettorali, quando la politica sopravvive soltanto come immediatezza, pseudosimbolismo o emergenza, e abolisce "il tempo lungo".
Naturalmente, in questo processo c'entrato molto il "fattore Berlusconi", l'ossessione o l'anomalia che, sempre da un quindicennio, divide il Paese (politico) in due metà che non si occupano di nient'altro (e si alimentano vicendevolmente). Ma alla radice del processo c'è stato qualcos'altro: l'illusione modernizzante e semplificante che ha distrutto non le culture politiche del '900 ma il paradigma stesso di una cultura politica progettuale, radicata, faticata. Secondo, giust'appunto, la agognata semplificazione si è rovesciata nel suo contrario. Quando gli schieramenti sono ridotti a due, (quasi) chiunque - il più piccolo dei micropartiti - acquista un potere di veto enorme, o diventa in grado, per un pugno di posti, di "ricattare" un intero schieramento. Così è andata, da noi. Così, siamo arrivati, ad un certo punto, alla produzione, in parlamento, della bellezza di 44 gruppi parlamentari (nella famigerata Prima Repubblica, si è arrivati ad un massimo di nove-dieci!). Così le coalizioni si son vestite da Arlecchino - e per sconfiggere il centro-destra, nel 2006 si è dovuta costruire un'alleanza che andava da Turigliatto a Fisichella. Quanto alla trasparenza, mai come nella "Seconda Repubblica" abbiamo assistito alla prassi trasformistica - c'erano, addirittura, gli specialisti del passaggio di gruppo e di "polo", che vi hanno costruito intere fortune politiche. Terzo, la paralisi di ogni intenzione "riformistica". In quindici anni, l'Italia non ha beneficiato, in buona sostanza, di nessuna riforma di grande respiro strategico - scuola, cultura, fisco, ambiente, infrastrutture. Ci si è limitati, questo sì, a peggiorare il più possibile la condizione del proletariato, quello vecchio e "garantito" (gli operai, i lavoratori dipendenti, i pensionati) e quello nuovo (i precari, i migranti, i non occupati) e a ridimensionare seriamente Welfare e diritti. Si son fatte (le ha fatte il centrodestra) molte leggi ad personam, ritagliate sugli interessi del Cavaliere. Si è favorita la diffusione dei cellulari e di qualche altro giocattolo elettronico. Si è contribuito, anche da parte dei governi di centro-sinistra, a quella gigantesca redistribuzione dei redditi a favore dei profitti che, in vent'anni, ha cambiato la faccia dell'Italia. Ma, nell'insieme, quel che ha prevalso è stato soprattutto un "galleggiamento" degenerativo, l'annientamento progressivo della forza della politica. Che poi la causa prima della "questione morale". Anche in questo esito il bipolarismo ha giocato un ruolo possente: in uno schema siffatto, nessuno, specie a sinistra (ma anche a destra), può rinunciare all'ecumenismo, all'interclassismo, alla genericità di un rapporto Stato\cittadino nel quale il cittadino è privo di ogni identità sociale, sessuale, culturale, non ha né corpo né anima, è mera astrazione (di comodo).
Quarto, il depotenziamento, fin sulle soglie della cancellazione, delle istituzioni preposte al controllo democratico. Siamo arrivati a un Parlamento di "nominati", o miracolati, che occupa il novanta per cento del suo tempo a trasformare in legge i decreti del Governo. Un Parlamento che, semplicemente, non esiste - e che perciò davvero costa troppo e diventa, per chi lo abita, una mera sinecura, un insopportabile privilegio. Ma siamo arrivati, anche, ad un esecutivo che, pur pieno di pulsioni neo-autoritarie, a sua volta non ha poi grande potere di intervento e trasformazione. E siamo arrivati, giocoforza, a un potere giudiziario che tende a colmare gli enormi vuoti che, così, si sono spalancati e minano lo stesso equilibrio sociale. Nel delirio bipolaristico, nessuno ha concepito un eventuale, magari pessimo, Grande Disegno di riforma democratica e istituzionale che rimettesse in un qualche equilibrio l'insieme dei poteri. Ci sono state, e ci sono, sì ricorrenti pulsioni di tipo presidenzialistico, ma tese quasi soltanto a mettere al centro la necessità di un forte rafforzamento dei poteri centrali e, quindi, giocoforza, di un ulteriore restringimento della democrazia. Ma, alla fin fine, anche su questo delicato versante, il Paese è stato - ed è - fermo. Quinto (e ultimo, per ora) il bipolarismo ha alimentato un passaggio (di fatto) non solo al modello americano, ma al peggio del modello americano. Ne è parte integrante la trasformazione del dirigente politico (e del governante), appunto, in "modello antropologico" complessivo al quale aderire o non aderire: piuttosto che idee o programmi politici, piuttosto che ricette per la soluzione dei problemi, il leader propone al popolo se stesso, la sua storia, la sua antropologia, la sua vita privata come quella pubblica. Il leader - Berlusconi e Sarkozy, ma anche Obama, a suo modo - si propone di diventare il riferimento della maggioranza del popolo per ciò che è, in toto, per come si muove e si veste, per come è fatta la sua famiglia, per i suoi successi e per le sue speranze. Stiamo vedendo (e scontando) le conseguenze di questa novità nell'insorgenza scandalistica che ci attanaglia e nella fine di ogni distinzione effettiva tra pubblico e privato. Naturalmente, alle radici di questo tipo di fenomeno ci sono molti altri fattori. Intanto, però, se si tornasse ad un sistema più razionale, ad una politica fatta di idee e proposte (e perché no? di partiti, di movimenti e di militanti), nonché al naturale ruolo inclusivo, e di rappresentanza, delle istituzioni elettive, sarebbe un primo serio passo in avanti. Non all'indietro, come teme Salvati. La modernità - ecco una cosa che i politologi faticano a capire - è proprio diversa dalle scorciatoie della modernizzazione.
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