dal sito radicalsocialismo
La terza via di Elinor Ostrom tra stato e mercato
Scritto da Gianguido Piazza
sabato 24 ottobre 2009
L'assegnazione del premio Nobel per l'economia 2009 a Elinor Ostrom (insieme al più "classico" Oliver Williamson) presenta numerosi motivi di interesse, che la stampa non ha mancato di sottolineare nei giorni scorsi. Dal momento che il nome della studiosa era sconosciuto ai profani, i giornalisti hanno dapprima messo in evidenza il fatto che per la prima volta il premio per questa disciplina fosse stato assegnato ad una donna. In seguito, l'attenzione è stata attratta dall'oggetto degli studi della Ostrom, i "commons". Come sintetizza Antonio Massarutto, professore associato di Economia Pubblica presso l'Università di Udine e direttore di ricerca presso lo Iefe (Istituto di economia e politica dell'energia e dell'ambiente) dell'Università Bocconi, nel suo articolo sul sito www.lavoce.info, «uno dei dogmi fondativi della moderna economia dell'ambiente è la cosiddetta “tragedy of the commons”, risalente a Garrett Hardin. Secondo questa impostazione, se un bene non appartiene a nessuno ma è liberamente accessibile, vi è una tendenza a sovrasfruttarlo. L'individuo che si appropria del bene comune, deteriorandolo, gode infatti per intero del beneficio, mentre sostiene solo una piccola parte del costo (in quanto questo costo verrà socializzato). Poiché tutti ragionano nello stesso modo, il risultato è il saccheggio del bene. Analogamente, nessuno è incentivato a darsi da fare per migliorare il bene, poiché sosterrebbe un costo a fronte di un beneficio di cui non potrebbe appropriarsi che in parte».
«Il ragionamento di Hardin – prosegue Massarutto - partiva dall'esempio delle enclosures inglesi, precondizione della rivoluzione industriale. La recinzione delle terre comuni, in questa visione, costituiva il necessario presupposto di una gestione razionale ed efficiente: mentre in regime di libero accesso il pascolo indiscriminato stava portando alla rovina del territorio, il proprietario privato, in quanto detentore del surplus, aveva l'interesse a sfruttare il bene in modo ottimale e a investire per il suo miglioramento. Quando non vi sono le condizioni per un'appropriazione privata, deve essere semmai lo Stato ad assumere la proprietà pubblica. Solo i beni così abbondanti da non avere valore economico possono essere lasciati al libero accesso; per tutti gli altri occorre definire un regime di diritto di proprietà privato o pubblico. Il merito di Elinor Ostrom è stato quello di ipotizzare l'esistenza di una "terza via" tra Stato e mercato, analizzando le condizioni che devono verificarsi affinché le common properties non degenerino. Ostrom prende le mosse dal lavoro di uno di quei precursori-anticipatori, troppo eterodossi per essere apprezzati nell'epoca in cui scrivevano: lo svizzero tedesco, naturalizzato americano, Ciriacy-Wantrup, che ancora negli anni Cinquanta
osservava che vi sono nel mondo molti esempi di proprietà comuni che sfuggono al destino preconizzato da Hardin, come ad esempio le foreste e i pascoli alpini. Distingueva appunto le "common pool resources" (res communis omnium) dai "free goods" (res nullius): nel primo caso, pur in assenza di un'entità che possa vantare diritti di proprietà esclusivi, a fare la differenza è l'esistenza di una comunità, l'appartenenza alla quale impone agli individui certi diritti di sfruttamento del bene comune, ma anche determinati doveri di provvedere alla sua gestione, manutenzione e riproduzione, sanzionati dalla comunità stessa attraverso l'inclusione di chi ne rispetta le regole e l'esclusione di chi non le rispetta. Su queste fondamenta poggia l'edificio concettuale della Ostrom, la cui opera più importante, Governing the Commons, sviluppa una teoria complessiva che identifica le condizioni che devono valere affinché una gestione "comunitaria" possa rimanere sostenibile nel lungo termine. Analisi che intreccia con grande profondità e intelligenza la teoria delle istituzioni, il diritto, la teoria dei giochi, per lambire quasi le scienze sociali e l'antropologia. Il campo di applicazione delle ricerche sviluppate in questo filone può far storcere il naso: dalle risorse di caccia degli Indiani d'America alle comunità di pescatori africani, o alla condivisione delle acque sotterranee in qualche remoto sistema agro-silvo-pastorale nepalese. Ma come spesso succede, applicare il concetto di base a un oggetto semplice consente di mettere a fuoco concetti e teorie di portata molto più generale. Non a caso, la lezione della Ostrom è di particolare importanza oggi, a proposito dei global commons, come l'atmosfera, il clima o gli oceani. Per applicare la ricetta di Hardin a questi beni, infatti, ci mancano sia un possibile proprietario privato, sia un soggetto statale in grado di affermare e difendere la proprietà pubblica. Il diritto internazionale, in questa prospettiva, altro non è che un sistema di governance applicato a un bene comune, e non vi è soluzione alternativa alla cooperazione tra i popoli della Terra per raggiungere un qualsiasi risultato in termini di lotta ai cambiamenti climatici».
Forte è la tentazione di applicare questa teoria alla comprensione della crisi economica in corso, come fa Massarutto, che pure riconosce come la Ostrom non si sia mai occupata di finanza: «Forse anche la crisi finanziaria che stiamo vivendo altro non è che un esempio di "saccheggio" di una "proprietà comune" , la fiducia degli investitori, per ricostruire la quale servirà qualcosa di più di una temporanea iniezione di capitale nel sistema bancario».
Di grande interesse sono le possibile implicazioni politiche della teoria della Ostrom: «Il lavoro di Ostrom trova punti di contatto con la teoria dei giochi, in particolare con quei filoni di ricerca che attraverso il concetto di gioco ripetuto mostrano come gli esiti distruttivi e socialmente non ottimali (equilibri di Nash, di cui la stessa "tragedy of the commons" è in fondo un esempio) possano essere evitati se nella ripetizione del gioco gli attori "scoprono" il vantaggio di comportamenti cooperativi, che a quel punto possono essere codificati in vere e proprie istituzioni. È interessante anche notare come il "comunitarismo" della Ostrom trovi qui un punto di contatto con "l'anarchismo" antistatale; ma Ostrom enfatizza piuttosto l'importanza della comunità, della democrazia partecipativa, della società civile organizzata, delle regole condivise e rispettate in quanto percepite come giuste e non per un calcolo di convenienza».
Infine, da più parti è stata richiamata l'importanza delle ricerche della Ostrom per l'economia della conoscenza. Paolo Ferri , docente di Tecnologie didattiche e Teoria e tecnica dei nuovi media presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Milano Bicocca, nel suo blog (http://paolomferri.blogspot.com; si veda anche il gruppo di discussione sulla conoscenza come bene comune in http://www.facebook.com/group.php?gid=62205983998&ref=nf) ha ricordato come la Ostrom abbia definito "bene comune" la conoscenza nell'età digitale.
Presso Bruno Mondadori di Milano è apparso il volume La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica, traduzione italiana di una raccolta di saggi introdotta e curata appunto dalla Ostrom in collaborazione con Charlotte Hess.
Quest'ultimo aspetto del pensiero della Ostrom è stato sviluppato, in un articolo sul supplemento culturale del "Sole 24 ore" del 18 ottobre 2009, da Maria Cristina Marcuzzo, docente ordinario di Economia Politica alla "Sapienza" di Roma: «La conoscenza, nella sua forma di informazione digitale distribuita, differisce dai beni comuni del mondo fisico principalmente per la sua bassa "sottraibilità": l'uso che una persona ne fa non riduce i benefici disponibili per gli altri, ma al pari di tutti i beni comuni è investita da questioni di equità, efficienza e sostenibilità. L'approccio della Ostrom è in contrasto con l'impostazione economica tradizionale secondo cui la conoscenza è un bene pubblico "puro": un bene disponibile per tutti e il cui uso da parte di una persona non limita l'uso da parte di altri. A differenza dei beni privati, dai beni pubblici gli individui non possono essere esclusi ed è questa caratteristica a essere usata nella definizione dell'economista. Ostrom, che ha condotto questi studi negli anni Settanta col marito Vincent, ha invece elaborato una più sottile classificazione, misurando due dimensioni congiuntamente. I beni pubblici (la conoscenza utile, i tramonti) hanno una bassa sottraibilità e una difficile escludibilità, al contrario dei beni privati (come i computer, i cioccolatini). I beni di club (l'asilo nido, l'abbonamento a una rivista) hanno bassa sottraibilità e facile escludibilità, al contrario delle risorse comuni, dal cui uso è difficile escludere ma il cui uso non sottrae disponibilità: le biblioteche e gli impianti di irrigazione sotto questo aspetto sono simili. La tesi della Ostrom è che le tecnologie che consentono una distribuzione globale e interattiva dell'informazione hanno trasformato radicalmente la struttura della conoscenza come risorsa: “Da bene pubblico non sottraibile e non esclusivo, la conoscenza è convertita in una risorsa comune che deve essere gestita, monitorata e protetta, per garantirne la sostenibilità e la preservazione”.
L 'informazione diffusa e distribuita è quindi suscettibile di dilemmi sociali (interrogativi, controversie, dubbi...) come tutti i beni comuni. Le insidie nascono dall'esistenza non solo di copyright, brevetti ma anche di limiti alla conservazione delle informazioni. Per esempio quando biblioteche e singoli individui acquistano una rivista cartacea, la dispersione territoriale di molte copie garantisce la conservazione della risorsa. Ma quando la pubblicazione è solo online, concessa su licenza a biblioteche o a individui, “le opere sono centralizzate e vulnerabili ai capricci dell'editore o del caso”. L'obiettivo dell'analisi dei beni comuni è allora quello di costruire forme efficaci di azione collettiva e iniziative di auto-organizzazione e auto-governo».
Di fronte agli entusiasmi suscitati dall'assegnazione del premio Nobel alla Ostrom, risuona più critica la voce di Emiliano Brancaccio , ricercatore in Economia politica e docente di Macroeconomia e di Economia del lavoro presso la Facoltà di Scienze economiche e aziendali dell'Università del Sannio, a Benevento, che in un ampio articolo su www.emilianobrancaccio.it, ripreso in forma più sintetica nel "Manifesto" del 13 ottobre 2009, osserva: «Le
ricerche di Ostrom hanno senz'altro fornito importanti elementi di conoscenza per una gestione sostenibile dei beni comuni, e in particolare delle risorse ambientali. Se tuttavia si guardano tali apporti nell'ottica di un aggiornato materialismo storico, non si può fare a meno di rilevare in essi alcune fragilità di fondo. Riguardo ad Ostrom, c'è da dire che fin dai tempi degli studi di Marx sui devastanti effetti delle enclosures, il problema per i materialisti storici non è mai stato quello di esaminare i danni prodotti dalla distruzione delle proprietà comuni, ma è stato invece di comprendere quali immani forze riuscissero inesorabilmente a disintegrare le forme primitive di organizzazione comunitaria delle risorse, del tutto indipendentemente dalle devastazioni economiche e sociali che quelle stesse forze provocavano».
Brancaccio contesta che si possa applicare al mondo della conoscenza il modello "comunitario" di gestione dei boschi e dei pascoli comuni: «In questo nuovo ambito tuttavia le conclusioni della Ostrom sono per forza di cose divenute ben più articolate e controverse. E' chiaro infatti che il campo della conoscenza scientifica e tecnologica è attraversato più di ogni altro da continue innovazioni che sconvolgono il quadro delle relazioni economiche e sociali, e che rendono dunque molto improbabile l'affermarsi di quei lunghi processi di sedimentazione delle regole indispensabili per l'affermarsi "dal basso" di forme di gestione "comune" delle risorse».
Credo che tanto i temi relativi all'ambiente, quanto quelli riguardanti la conoscenza come bene comune nell'età digitale meritino di essere approfonditi.
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