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Partiti "leggeri": esiste un'alternativa?
Antonio Floridia, 16 ottobre 2009
Una particolare immagine di partito sembra oggi dominante, assunta dalla cultura politica diffusa come l’unica forma-partito possibile in questo scorcio del XXI secolo. E’ un modello che si può etichettare in vari modi, a seconda degli aspetti che si decide di privilegiare: partito “leggero”, “mediatico”, “personale”, “leaderistico”, ma forse la definizione più comprensiva è quella che pone l’accento sulla dimensione elitistica ed elettoralistica che ne caratterizza in modo prevalente il profilo.
I fenomeni che lo contraddistinguono sono noti e non occorre qui richiamarli: è un modello elitista di partito, in quanto tutto viene affidato alla libertà di manovra e alla capacità della leadership di rivolgersi direttamente alla gente o al popolo; ed è un modello elettoralista, in quanto privilegia in modo pressoché esclusivo una funzione del partito come mera macchina elettorale, finalizzata alla conquista delle cariche pubbliche.
Ebbene, di fronte a questo dato, occorre chiedersi se, come in altre fasi storiche, non esista una corrispondenza tra modelli di partito e modelli di democrazia, e se non colgano nel segno due politologi, Poguntke e Webb, quando vedono nelle democrazie contemporanee la tendenza ad «una fusione tra modelli elitisti e modelli plebiscitari di democrazia» e a questa tendenza affiancano una omologa trasformazione dei partiti. Le crescenti torsioni in senso elitistico-plebiscitario, cui sono sottoposte le nostre democrazie, sembrano indurre in tutti i partiti, e anche quelli che pure dovrebbero assumere una ben diversa concezione della democrazia, l’introiezione di modelli organizzativi che a tali torsioni risultano del tutto congruenti e funzionali.
E dunque un possibile oggetto di riflessione, oggi, è proprio questo: davvero non esistono alternative ad un tale modello? E, soprattutto, chi ha, o vuole avere, una diversa concezione della democrazia, può accettare o rassegnarsi ad una tale egemonia?
Certo, allo stato dei fatti, almeno in Italia, sembra un compito improbo quello di prospettare un diverso modello di partito: abbiamo alle spalle un ventennio di programmatica destrutturazione dei partiti che si collocano nell’area politica del centrosinistra. Si è colpevolmente scambiata la necessità di un profondo rinnovamento della cultura politica con il disinvolto smantellamento della struttura organizzativa ereditata dal passato: e, come si sa, è molto facile smontare un’organizzazione complessa, molto più difficile ricostruirla ex novo.
Ma forse si è ancora in tempo e si deve ripartire, crediamo, da una riflessione, anche teorica, su cosa può essere, oggi, un partito democratico, in un duplice senso: per il ruolo che può esercitare nel sistema politico, come agente di una più elevata qualità della democrazia, e per il suo assumere la democrazia come valore, paradigma di una critica dell’esistente e della sua possibile trasformazione. E, si deve aggiungere, democratico in quanto ispira anche la propria vita interna ad una concezione ricca ed esigente della democrazia, non ad una visione minimalistica, meramente elettorale della partecipazione (come accade quando le primarie sono di fatto l’unica occasione di coinvolgimento dei cittadini).
Si potrebbe utilmente ripercorrere il modello idealtipico del partito di massa, e forse altrettanto utile potrebbe essere riconsiderare l’effettivo modo di funzionamento dei partiti di massa, andando oltre gli stereotipi entro cui oggi sono spesso rinchiusi, con una sorta di damnatio memoriae. Ma non è questa la sede. Certamente, un dato cruciale di quel modello appare irrecuperabile: la forte cornice ideologica che ne costituiva un’essenziale risorsa simbolica, ma anche una cruciale risorsa strategica. Tuttavia, anche su questo terreno, occorre sottrarsi alla tirannia dei luoghi comuni: davvero per tutti vi è una crisi o una fine delle ideologie? Non sembra proprio: sappiamo bene, anzi, come alcuni partiti abbiano costruito, e fondino le proprie fortune, su precise ideologie, ovvero credenze e giudizi che acquistano la forma del senso comune, frames cognitivi che si rivelano estremamente resistenti e vischiosi. E non pare proprio che si sia poi di fronte a molti elettori razionali, in grado di muoversi con disinvoltura da un capo all’altro dello schieramento politico, rispondendo alle sollecitazioni dell’offerta elettorale.
E allora, certo, tramonto delle ideologie del tempo che fu, ma non della necessità che un partito democratico sappia elaborare e proporre le proprie idee e i propri valori, e che abbia anche gli strumenti organizzativi per diffonderli e radicarli, contrastando giudizi, opinioni, mentalità che alimentano altre visioni della società e del suo possibile futuro. E quindi, se non è riproponibile l’immagine di un partito pedagogico che dall’alto dispensa la propria dottrina, rimane intatta l’esigenza di un partito che eserciti, nelle forme e con i canali oggi disponibili, una funzione educativa e formativa, capace di attingere alla ricchezza di esperienze, competenze e saperi che la società può esprimere e capace a sua volta di immetterli in un circuito più ampio.
Appare quindi evidente come la dimensione organizzativa non sia ininfluente o collaterale, un puro mezzo. Se si vuole, si abolisca pure la formula “partito di massa”, perché evoca altre epoche, ma rimane un dato essenziale: un partito democratico deve fondarsi su una dimensione associativa, ampia, diffusa e strutturata. Un partito democratico è per definizione, e dovrebbe esserlo in pratica, una libera associazione di individui che condividono idee, valori e programmi politici, e che si organizzano per affermarli contro visioni alternative della società e del suo possibile sviluppo. Un partito democratico è un’associazione di cittadini che concorrono, con gradi e diversi livelli di partecipazione, all’elaborazione di quelle idee e di quei programmi e che si confrontano, nella sfera pubblica, con altri cittadini, portatori di idee diverse. Nel momento stesso in cui svolge questo ruolo, un partito rafforza la qualità della democrazia, migliora la qualità del rapporto tra istituzioni e società, produce civicness, accresce la competenza politica dei cittadini, offre ad essi canali e occasioni di partecipazione. E lo fa anche attraverso la propria vita interna, se questa si alimenta e si esercita attraverso la discussione pubblica, il confronto argomentato, l’interazione comunicativa: anche per questo, una dimensione organizzativa di tipo elitistico e leaderistico, oggi, non può essere assunta come un modello valido per un partito che assuma la democrazia come proprio orizzonte di valori.
Una dimensione associativa ampia e strutturata, fondata sui principi della democrazia rappresentativa, che viva attraverso regole e procedure di accountability e responsiveness nel rapporto tra gruppi dirigenti e base, e quindi su una circolarità permanente di partecipazione e rappresentanza, non è solo un’opzione di valore (qualcosa che si deve fare, perché è giusto così e perché è più democratico), ma anche un’essenziale risorsa strategica: è solo attraverso l’attivazione di questo circuito che un partito democratico può pensare di creare quegli anticorpi che possono contrastare lo spontaneo ritrarsi dei cittadini in una sfera privata e il loro abbandono della sfera pubblica.
Nel prospettare questa idea di partito non vi è alcuna sottovalutazione del ruolo della leadership: ma se ne vorrebbe prospettare una visione, per così dire, sobria, non titanica. Un leader veramente forte è un leader che ha un partito alle spalle, un partito capace di contribuire creativamente all’elaborazione della linea del partito. Altrimenti, come spesso accade, un leader solitario, per quanto plebiscitato dalle primarie, è un leader vulnerabile, come un generale in battaglia che emana le sue direttive ma non ha alcuna catena di comando per trasmettere veramente i suoi comandi, e che non ha nemmeno uno stato maggiore in grado di avvertirlo tempestivamente sugli errori che sta commettendo o una linea di comunicazione che lo informi su quanto veramente sta accadendo sul campo di battaglia.
In fondo, possiamo applicare ai partiti anche le acquisizioni teoriche che provengono dal ricco filone di riflessioni sulla razionalità dei processi decisionali: davvero si pensa che un leader, solo perché eletto direttamente e legittimato a decidere, sia in grado di possedere una visione sinottica e onnicomprensiva delle scelte da compiere e dei corsi d’azione alternativi che si trova dinanzi? O che possa supplire a questo costitutivo deficit cognitivo e informativo ricorrendo agli staff degli esperti? Ci pare molto più proficuo e saggio adottare un’idea di razionalità limitata, e quindi ritenere più proficua, oltre che realistica, una visione dei processi decisionali affidata al confronto argomentato, alla discussione pubblica, e anche alla mediazione tra opinioni diverse (laddove necessaria), in grado di superare, nella misura del possibile, l’inevitabile parzialità dei punti di osservazione e degli schemi cognitivi da cui ciascun individuo (e anche un grande leader politico) guarda al mondo che lo circonda e alle scelte che è necessario compiere per affrontarne le sfide.
Un’alternativa possibile ad un modello elitistico di partito si fonda dunque su un presupposto: ribadire, o ricostruire, la dimensione associativa dei partiti non come una mera condizione organizzativa, ma come elemento costitutivo di un organismo collettivo in cui la discussione pubblica, il confronto delle idee e delle opinioni, i processi di apprendimento collettivo, svolgano un ruolo essenziale anche nella costruzione di rinnovati legami sociali. In altri termini, essere un partito con una larga membership, in cui si discute e si decide attraverso procedure democratiche che prevedano un coinvolgimento quanto più largo possibile di iscritti e sostenitori, non è soltanto un richiamo ad una tradizionale risorsa organizzativa dei partiti di massa, ma la valorizzazione di un antidoto (forse oggi il più importante) all’affermarsi di una dimensione elitistica e plebiscitaria della democrazia.
Questa visione potrà essere accusata di rispolverare una suggestione mitica e partecipazionista della democrazia e degli stessi partiti, ma non è così. Il tema è un altro: quello di re-instaurare nei partiti (o, se si vuole, instaurare per la prima volta) e applicare i principi propri della democrazia rappresentativa, arricchita e integrata anche da alcune acquisizioni che provengono da uno dei filoni più promettenti del pensiero democratico contemporaneo, quello della democrazia deliberativa. Si tratta di assumere quindi una concezione forte ed esigente della rappresentanza come processo che leghi chi è chiamato a svolgere un ruolo di direzione politica alla propria base associativa, attraverso una dimensione comunicativa e deliberativa, in modo strutturato e secondo regole condivise. Un processo di costruzione della rappresentanza e di costante tessitura del suo significato politico, fondato su una formazione dialogica e discorsiva dei giudizi politici: e non un atto isolato e puntiforme che conferisca un mandato di cui rispondere solo a tempo debito. In questa contrapposizione tra processo e atto si gioca anche il senso in cui è possibile parlare di democrazia nella vita dei partiti. Meccanismi isolati di legittimazione della leadership, regolati da procedure di elezione diretta, richiamano altri aggettivi, tra quelli con cui si può qualificare la democrazia: “diretta”, appunto, “immediata”, o peggio, “plebiscitaria”.
E quindi, non è un’affermazione dal sapore rétro quella di ritenere più e non meno democratica una classica procedura di tipo congressuale, riservata ai soli iscritti, che porti all’elezione di organismi rappresentativi (non pletorici, e quindi in grado di discutere), i quali a loro volta eleggano segretari e organismi esecutivi, chiamati periodicamente a rispondere del loro operato, a verificare il grado di consenso che la loro azione ha riscosso, a confrontarsi e discutere collegialmente, raccogliendo apporti e contributi che possano venire da una platea più ampia, attraverso meccanismi, formali e informali, che possiamo definire di “apprendimento collettivo” e di “indagine pubblica”, richiamando le categorie di un padre del pensiero democratico del Novecento, John Dewey.
Il discorso fin qui svolto non tocca solo il nostro paese, o un singolo partito ma, evidentemente, nel caso italiano, tocca in particolare le sorti del PD. L’idea che emerge dalla prima fase di attività di questo nuovo partito, e che si riflette anche nello Statuto vigente, è un’idea riconducibile, nella sua ispirazione fondamentale, ad un modello di democrazia elitistico-elettoralistica e ad una concezione individualistica e atomizzata della partecipazione. E non sembra proprio che essa abbia portato buoni frutti. Non basta dire, per cercare di temperare questo giudizio, che l’effettivo modello organizzativo è rimasto largamente indeterminato, che molte scelte rilevanti erano e sono ancora da compiere e che dunque è possibile ancora discutere su opzioni o soluzioni diverse; è vero, e il congresso in corso potrebbe fornire qualche indicazione in questo senso. Tuttavia, anche i tempi con cui un eventuale ripensamento dell’attuale modello organizzativo del PD potrà avvenire non sono indifferenti. Come già detto, è facile smontare, molto più difficile ricostruire. Si potrà anche ritenere che il modello di partito concepito nella fase costituente di questo partito sia l’unico possibile, o si possono avere anche argomenti che lo difendano e lo giustifichino, ma una riflessione consapevole e un aperto dibattito politico su questi temi sono finora mancati e, in ogni caso, non sembrano più rinviabili.
[Antonio Floridia dirige l’Osservatorio elettorale e il settore “Politiche per la partecipazione” della Regione Toscana. Collabora stabilmente con la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Firenze]
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