venerdì 28 giugno 2013

Francesco Maria Mariotti: Afghanistan, ce ne andremo realmente?

Una breve rassegna di articoli, per riflettere sull'annunciato "ritiro" (ridispiegamento?) delle truppe alleate in Afghanistan. Qualche dato innanzitutto per capire che in Afghanistan l'impegno sarà ancora pesante e prolungato, andando al di là del 2014; sarà necessario mettere in conto ancora diversi anni di permanenza dei nostri soldati, sia pure in numero minore. Ma quale scenario si propetta per il paese? Le valutazioni divergono: inevitabilmente quelle militari italiane tendono a presentare il "bicchiere mezzo pieno", un Afghanistan che si stabilizza, pur con molte contraddizioni; molte altre voci però - e gravi episodi (si legga dei diplomatici afghani che non vogliono tornare nel paese, si pensi agli ultimi attentati) - segnalano il rischio che dopo il "ritiro" delle truppe alleate la situazione possa degenerare, arrivando a una guerra civile vasta e prolungata. Segnalo poi altri link - non recentissimi, per la verità - per capire come la partita in Afghanistan è anche - ovviamente - economica. Che ne sarà di accordi e prospettive che si erano aperte, forse anche per il nostro paese? Saremo ancora presenti, probabilmente, in altro modo. Ma con quale efficacia? Purtroppo il tema non è semplice. Ma ritorna la percezione di una guerra non totalmente spiegata all'opinione pubblica, non pienamente esplorata in tutti i suoi aspetti politici, militari, ed economici, al di là della retorica - in parte vera, in parte inevitabilmente esagerata - della "guerra per la democrazia". Una situazione non nuova, purtroppo. Forse ancora un'occasione persa per la nostra politica estera. Faremo meglio "la prossima volta"? Quando magari dovremo "tornare"? Francesco Maria Mariotti *** Il corpo diplomatico afghano sbanda e cerca in ogni modo di non rientrare a Kabul temendo il caos che potrebbe dilagare nel Paese in seguito al ritiro delle truppe della Nato. Secondo fonti citate dal giornale tedesco Spiegel il fenomeno è ormai molto esteso e rappresenta un importante indicatore di come viene percepito già oggi il futuro dell'Afghanistan, a un anno e mezzo dalla conclusione della missione Isaf, da una parte rilevante della sua classe dirigente. Sabato scorso 105 diplomatici impiegati a rotazione nelle ambasciate di tutto il mondo avrebbero dovuto presentarsi al ministero degli Esteri di Kabul ma di questi solo cinque si sono presentati mentre tutti gli altri, inclusi numerosi dipendenti dell'ambasciata a Berlino, sono rimasti nel Paese dove svolgevano servizio. di Gianandrea Gaiani - Il Sole 24 Ore - leggi su Diplomatici afghani in fuga in vista del ritiro della Nato (Gianandrea Gaiani, ilsole24Ore) In Afghanistan rimarremo ancora (Gianandrea Gaiani, Analisi Difesa, video) Come aveva anticipato Analisi Difesa le truppe italiane destinate a restare in Afghanistan dopo il 2014 nell’ambito della missione NATO Resolute Suupport non saranno poche decine (come aveva sostenuto giorni fa il ministro della Difesa, Mario Mauro) ma tra 500 e 700. Effettivi numericamente simili ai 6/800 tedeschi che manterranno la presenza nel nord afghano. Ne hanno discusso il 20 giugno a Herat i ministri della Difesa di Italia, Germania ed Afghanistan (nella foto). “Sara’ il Parlamento – ha premesso il ministro Mario Mauro – a valutare e poi votare sulla nostra nuova missione. Io sono qui par raccogliere informazioni e dico che non possiamo far mancare il nostro sostegno a questo Paese, se non vogliamo che torni l’atroce dittatura del passato. Resolute Support sarà una missione no combat, con l’obiettivo di proseguire l’assistenza e l’addestramento alle forze di sicurezza afgane. Non sono più previsti compiti di contrasto all’insorgenza o al narcotraffico. Gli italiani rimarranno nella zona di Herat anche dopo il 2014, con un numero di addestratori compreso tra 500 e 700. Ma, come ha sottolineato il ministro tedesco Thomas De Maiziere, “serve prima un accordo fra Nato e l’Afghanistan su quello che i militari della coalizione potranno o non potranno fare”. In sostanza, si sta discutendo che lo status giuridico di quelle che saranno le forze di Resolute Support, con l’obiettivo di evitare che siano sottoposte alle leggi di Kabul”. Da parte sua il ministro afgano Dismillah Mohammadi, ha ostentato ottimismo. Tutto il territorio nazionale – ha assicurato – è sotto il pieno controllo delle forze di sicurezza afgane, tranne quattro distretti in cui è ancora forte l’influenza degli insorgenti. In Afghanistan resteranno 5/700 militari italiani dopo il 2014 (Analisi Difesa) Nella primavera del 2014, infatti, scadrà l’ultimo mandato del presidente Karzai e da tempo, a Kabul, si gioca un rischio politico fra i possibili candidati per la ridefinizione delle regole elettorali. L’obiettivo della comunità internazionale è obbligare il governo di Kabul a non manipolare le prossime elezioni, evitando il disastro vergognoso delle elezioni del 2009, contrassegnate da brogli scandalosi e da controlli semplicemente inesistenti. Dare credibilità al sistema politico afghano è considerato prioritario tanto quanto la tenuta delle ANSF; anzi: secondo molte analisi, questi due elementi sono interrelati. Un fallimento militare favorirebbe la polarizzazione etno-settaria del panorama politico afghano, indebolendo i pashtun legati a Kabul a vantaggi degli altri gruppi etnici. Parallelamente, l’esplodere di conflittualità politiche per via di elezioni fortemente manipolate indebolirebbe le ANSF, frammentandole etnicamente e facendone crollare il morale. In ogni caso, quale che sia il risultato di questi sforzi per stabilizzare l’Afghanistan prima del 2014, sono evidenti due fattori: il primo è che l’impegno internazionale non potrà venir meno. I governi occidentali sono comprensibilmente vaghi con le proprie pubbliche opinioni, per lo più contrarie all’impegno in questa lontana regione dell’Asia centrale; ma è impensabile immaginare che ISAF chiuda nel 2014. Per molti anni a venire, il governo di Kabul avrà bisogno non solo dell’aiuto economico e finanziario della comunità internazionale, ma anche di un sostegno militare tutt’altro che trascurabile: supporto aereo e d’artiglieria nelle operazioni, intelligence, logistica e soprattutto training. Per questo, non meno di 10.000-12.000 soldati occidentali dovranno rimanere stabilmente dislocati sul territorio. Il secondo fattore è quello regionale, e in particolare il ruolo del Pakistan (...) Le ragioni di cauto ottimismo sull’Afghanistan (Riccardo Redaelli, Aspenia online, 29/4/2013) I dati forniti dall'Unhcr sono allarmanti e dimostrano che il Paese - liberato dal regime dei talebani nel 2001- è ancora lontano da una sua stabilità. Fonti diAsiaNews sostengono che in 12 anni di occupazione delle forze Nato, non si è assistito ad alcun progresso, né sul piano sociale, né economico. Il ritiro delle truppe straniere dal Paese previsto per il 2014 è visto dalla popolazione con sollievo, ma anche con timore. In questi anni i talebani hanno riacquistato forza: lo scorso 27 maggio gli estremisti islamici hanno sferrato un attacco nel pieno centro della capitale costato la vita a cinque persone e decine di feriti. Fra i morti anche l'italiana Barbara de Anna, funzionaria dell'organizzazione internazionale per le migrazioni, deceduta oggi, dopo diverse settimane di ricovero in un ospedale in Germania; lo scorso 18 giugno un kamikaze si è fatto esplodere contro un convoglio con a bordo Haji Mohammad Mohaqeq, vice-presidente e leader della minoranza Hazara. L'attentato è avvenuto nella parte ovest di Kabul e ha ucciso tre persone, lasciando illeso il leader politico. La forza dei talebani è aumentata anche sul fronte diplomatico, fino ad entrare in aperto contrasto con il governo guidato dal presidente Hamid Karzai. Il 18 giugno il movimento islamista ha inaugurato la sua prima ambasciata a Doha capitale del Qatar. L'emirato ha concesso ai terroristi di issare la propria bandiera e di porre all'entrata una targa con scritto "Islamic Emirate of Afghanistan". Il caso ha fatto infuriare il presidente afghano. In un comunicato ufficiale Karzai ha giudicato l'episodio un vero affronto alla sua autorità e ha boicottato l'incontro diplomatico organizzato da Stati Uniti e Qatar tenutosi lo scorso 19 giugno a Doha. Secondo al-Jazeera, principale emittente dell'Emirato, le autorità avrebbero rimosso bandiera e targa dall'edificio, ma ciò non è bastato per convincere il presidente afghano a partecipare ai colloqui. Un quarto dei profughi di tutto il mondo scappa dall'Afghanistan (AsiaNews, 21/06/2013) Ai passi avanti sul fronte della sicurezza si sono sommati, in un’ottica globale, quelli nel campo dello sviluppo socio-economico. L’Afghanistan rimane un Paese difficile, se lo si considera in termini assoluti, ma presenta – a dodici anni dalla fine del regime Talebano e dall’inizio dell’intervento internazionale – molti segnali di crescita forte. Certo, l’aspettativa di vita è ancora bassa: le ultime statistiche delle Nazioni Unite la fissano a 48,7 anni (in Italia è di 80 anni circa), ma nel 2000 era più bassa ancora, di quasi quattro anni. Nello stesso arco di tempo il reddito pro-capite si è più che triplicato, mentre cresceva in modo netto il livello di istruzione: nel 2000 un giovane afghano frequentava – in media – soltanto due anni di scuola, mentre oggi siamo a circa dieci, con un incremento straordinario della presenza femminile nelle aule scolastiche e universitarie (a Herat circa metà degli undicimila studenti dell’ateneo sono ragazze). L’istruzione è tradizionalmente al centro dell’impegno del contingente italiano, che nella provincia di Herat ha costruito 81 scuole dal 2004 a oggi (13 delle quali inaugurate nel semestre della Taurinense), il che sta permettendo a migliaia di bambini e bambine di frequentare le lezioni all’interno di strutture coperte, solide, riscaldate e attrezzate. Non si può nascondere che le autorità politiche e governative di Herat si dibattano ancora tra diverse difficoltà. La sicurezza della popolazione, in primis: all’espansione economica si è accompagnata quella criminale, che colpisce soprattutto i civili (ma nel 2012 si è registrata una notevole diminuzione del numero di vittime). Le richieste dei cittadini si fanno più pressanti, frutto di una maggiore consapevolezza: (...) Le donne sono più emancipate, si arruolano nell’esercito e in polizia, anche se in certe parti del Paese sono ancora oggetto di violenze assurde. Insomma l’Afghanistan di oggi è in trasformazione, talvolta tumultuosa. Le incognite e i nodi da sciogliere non mancano, ma l’impegno internazionale per la sicurezza e il sacrificio di molti militari italiani – il cui modus operandi continua a riscuotere il plauso degli Afghani e degli Alleati - ha indiscutibilmente aiutato un popolo segnato da trent’anni di guerre a rialzarsi, creando le condizioni minime necessarie per un domani migliore. Adesso il futuro dell’Afghanistan sta giustamente passando nelle mani degli Afghani e negli ultimi sei mesi, il Governatore di Herat – un uomo istruito e pacato con cui è nata un’eccellente collaborazione – ha ripetuto più di una volta che è venuto il momento di fare da sé e che l’Inteqal, la transizione, non è affatto cominciata troppo presto: semmai il contrario Inteqal (Diario da Herat, blog della Stampa, 24/03/2013) Si può fare un bilancio, dopo circa dodici anni, della missione in Afghanistan? Lo potremo fare solo il 5 aprile del prossimo anno, quando si svolgeranno le elezioni. Il futuro del Paese dipenderà molto dagli interessi, anche economici, delle potenze regionali. L’Iran ha fornito oltre un miliardo di dollari di aiuti al Paese. Il Pakistan è interessato a sostenere i talebani. La Cina detiene lo sfruttamento di una grande miniera di rame a circa ottanta chilometri da Kabul. Anche l’India ha i suoi interessi. Intervista a Carlo Jean: perché la parola ritiro non ha senso (Il Secolo d'Italia, 10/06/2013) Kabul (AsiaNews/Agenzie) – In Afghanistan ci sono giacimenti di terre rare, oro, rame, ferro e altri minerali per oltre 3mila miliardi di dollari. Il problema è che le terre rare sono concentrate nella banchina meridionale del Fiume Helmand, tradizionale roccaforte dei ribelli talebani. Questi giacimenti sono noti almeno dalle ricerche compiute dall’Unione Sovietica negli anni ’70, anche se la loro estensione era stata sottovalutata. Geologi Usa nel 2007 hanno stimato questi giacimenti pari a 1,4 milioni di tonnellate. Di recente Wahidullah Shahrani, ministro afghano per le Miniere, ha detto che ci sono molti altri depositi, sparsi per tutto il Paese. Ma finora la ricerca si era concentrata sui giacimenti di rame, ferro e petrolio. Infatti il costo di estrazione delle terre rare è elevato e la Cina le vendeva a tutto il mondo a prezzo molto inferiore. Ma dal 2009 la Cina ha diminuito in modo drastico le esportazioni delle terre rare, dicendo che deve preservarle per ragioni ambientali e per le proprie esigenze. Questi minerali sono essenziali nell’elettronica e in molti settori, dai telefoni cellulari agli autoveicoli ecologici. Per il 2011 ha già annunciato che ridurrà ancora le esportazioni. La notizia ha preoccupato le industrie di alta tecnologia, in particolare il Giappone verso il quale Pechino ha persino bloccato di fatto l’esportazione a settembre, durante una disputa per la sovranità su un gruppo di isole. Ora Tokyo progetta di creare un riciclaggio delle terre rare, come pure di cercare loro sostituti. La Cina produce il 97% di questi minerali, ma si stima che abbia non più del 30% delle riserve mondiali. Stati Uniti, Australia e altri produttori avevano fermato l’estrazione perché non redditizia, di fronte all’economica produzione cinese. Ma ora è ripresa la ricerca e l’estrazione di questi minerali, anche se occorrerà tempo per raggiungere una produzione adeguata. Sotto i piedi dei talebani oltre 3mila miliardi di dollari in terre rare e metalli pregiati (AsiaNews, 18/02/2011) I pochi settori economici che godono di prospettive di sviluppo in Afghanistan sono l’agricoltura, i trasporti e le risorse naturali. Lo sfruttamento di queste ultime sembra essere l’unico in grado di fornire i capitali necessari a sostituire una porzione significativa degli aiuti internazionali. Le stime dell’esecutivo prevedono che il comparto estrattivo rappresenterà il 45% del pil nel 2024 con entrate per 4 mld di dollari annui. Il paese è ricco di rame, ferro, oro, litio, cobalto, terre rare e idrocarburi e le ultime gare per l’assegnazione dei blocchi esplorativi hanno visto la partecipazione di oltre quaranta soggetti stranieri, tra cui ExxonMobil e Schlumberger. Fino a pochi mesi fa il fragile contesto di sicurezza e le carenze infrastrutturali hanno frenato l’azione delle compagnie internazionali lasciando spazio alle grandi imprese di Stato disposte ad assumere maggiori rischi. India e Cina hanno mostrato il maggiore interesse per l’accesso alle risorse del paese. Pechino considera la penetrazione economica in Afghanistan complementare a quella in Pakistan, ovvero finalizzata a sviluppare scambi commerciali con le sue isolate regioni occidentali (Xinjang e Tibet). (...) L’India si è mossa con pari determinazione, spinta dalla volontà di giocare un ruolo di primo piano nel futuro del paese, anche per contrastare l’influenza esercitata dal Pakistan. (...) Risorse naturali, la speranza dell’Afghanistan (Limes, 24/09/2012) Che un paese possa essere letteralmente seduto sulla propria ricchezza è cosa nota. Basta pensare agli emirati e alle monarchie assolute del Golfo Arabo (o Persico, dipende dai punti di vista), che galleggiano sul petrolio. Ultimo in ordine di tempo in questo speciale gruppo di fortunati c’è un paese devastato dalla guerra: l’Afghanistan. In questo caso non si tratta di petrolio, ma di minerali, per una ricchezza stimata dal locale ministero delle miniere in 3000 miliardi di dollari. Terre rare afghane (Giovanni Spataro, leScienze, 5/4/2011) Ministero dello sviluppo Economico - Scheda Afghanistan (15/2/2013) ITALIA-AFGHANISTAN: PROTOCOLLO PER COLLABORAZIONE ECONOMICA (12/4/2011) Ministero dello Sviluppo Economico - Progetto Afghanistan (documenti, 2011) Ministero dello Sviluppo Economico - Progetto Afghanistan (presentazione, 2011)

1 commento:

luciano ha detto...

Caro Francesco Maria,

ti ringrazio della ricca documentazione che ci hai segnalato.

Il futuro dell'Afghanistan è effettivamente inquietante e credo che nessuno
oggi sia in grado di prevedere cosa accadrà dopo il ritiro dei contingenti
militari.

L'intervento in Afghanistan non è mai stato una "guerra per la democrazia".

È stato autorizzato dall'ONU e messo in atto come tipica operazione di
polizia internazionale, visto che le bande talebane che avevano preso il
potere a Kabul (peraltro mai riconosciute come governo legittimo dalla
comunità internazionale) avevano dato accoglienza e supporto alle basi di Al
Qaeda, nelle quali era stato organizzato l'attacco terroristico dell' 11
settembre 2001.

Successivamente è stato mantenuto un presidio militare internazionale prima
per rendere possibile un'ordinata transizione e poi per puntellare il
governo legittimo, reso fragile sia dalle faide tra i "signori della guerra"
che avevano preso parte attiva al rovesciamento dei Taliban e che spesso
controllano la produzione e il traffico di droga, sia dalla persistente
presenza ramificata e minacciosa degli stessi Taliban sul territorio.

Quelle della tutela della democrazia, della difesa dei diritti delle donne,
della lotta all'oscurantismo sono sempre state ragioni accessorie,
enfatizzate solo per un'evidente finalità propagandistica.

Tutte le guerre moderne tengono conto di questa esigenza, essendovi la
necessità di mantenere un livello accettabile di consenso nelle pubbliche
opinioni.

L'impresa è resa difficile dal fatto che, come spiegava Vittorio Foa in una
bellissima intervista del 2001, nell'opinione pubblica occidentale si è
radicato un individualismo pacifista di tipo consumistico che in sostanza
dice "non rompetemi l'anima coi vostri principi e lasciatemi consumare in
pace".

Spiegare alle persone che il Male esiste, che esiste nel mondo una minaccia
che viene dal fanatismo e dal terrorismo, e che per fronteggiare questa
minaccia potrebbe essere necessario presidiare sine die - fino a quando il
locale governo lo richiede - un Paese (o alcuni Paesi), è tremendamente
difficile. Eppure è proprio come mantenere un commissariato di polizia in
un quartiere ad alta densità mafiosa o camorristica.

Costa solo di più, anche in termini di vite umane. Però a nessuno, quando
si parla di zone dell'Italia infestate dalla presenza endemica della
criminalità organizzata, verrebbe in mente di dire "è una guerra che non si
può vincere, ritiriamoci". O per lo meno nessuno lo direbbe senza vergogna.

Luciano Belli Paci