giovedì 20 giugno 2013

Francesco Maria Mariotti: Sminare la Libia

Il 24 maggio scorso (mail "La Palla Continua A Rimbalzare (USA, ITALIA, LIBIA)") avevo segnalato le prime notizie su un rinnovato impegno italiano in Libia. Ora abbiamo - sempre grazie a la Stampa - primi dettagli, che inducono a pensare a uno sforzo molto gravoso, e da non sottovalutare. Stiamo parlando di disarmare circa 500 milizie, un lavoro terribilmente difficile e che - temo - ci costerà molto, anche in termini di vite umane: l' attentato (per fortuna fallito) contro un diplomatico italiano dei giorni scorsi è un triste presagio, in questo senso. Speriamo almeno - come già scritto - che l'Italia abbia contrattato al meglio i "benefici" che dovrebbero venire da un tale richioso compito. Nei giorni in cui si discute delle trattative con i talebani in Afghanistan, in ottica del ritiro delle truppe occidentali (giorni perciò fra i più rischiosi per le truppe, perché i nemici sanno di colpire eserciti in via di "ritirata"), ancora una volta il pensiero va a tutti i soldati che sono impegnati su quel fronte e a quelli che saranno impegnati sul fronte libico, a tutti i "senza nome" che già ora stanno preparando il "campo", monitorando la situazione, prendendo i contatti - anche quelli più scabrosi - per poter gestire al meglio la situazione. Quella libica è una guerra forse mai finita. Una guerra di cui discutiamo assai poco, purtroppo. E oltre a LIbia e Afghanistan: di seguito anche articoli su Iran, Turchia, Giappone. Buona lettura Francesco Maria *** LIBIA Una novità di portata ancora incalcolabile, ma per il momento tenuta «bassa» dal presidente del Consiglio nella conferenza stampa finale del G8: «La Libia è per noi una grande preoccupazione» e in quel Paese l’Italia «intende avere un ruolo molto attivo, fornendo assistenza per la formazione delle strutture militari; aiutando a costruire istituzioni che funzionino» e poi «c’è una parte ancora da costruire, che riguarda la raccolta delle armi: in Libia ce ne sono molte, e il governo non è quello che ne ha di più...». Parole calibrate che però lasciano intendere il compito delicatissimo che il governo ha accettato di prendersi in carico: l’Italia è pronta a tornare in Libia, a tornarci con uomini in divisa e con un obiettivo eloquente: «sminare» quel Paese, provando a togliere le armi dalle mani delle milizie.(...) Letta torna a casa col compito di “sminare” la Libia (F.Martini, laStampa) AFGHANISTAN Ogni studente di politica estera impara presto la massima tragica «Afghanistan, cimitero degli Imperi», perché tra quelle giogaie innevate, valli pietrose e villaggi remoti, fierissime popolazioni di guerrieri hanno respinto nei secoli invasioni di Persiani, Greci, Arabi, Turchi, Mongoli, Inglesi e Russi. Ma ogni mito, prima o poi, perde il magico potere: così l’annuncio che dopo 12 anni di guerra tra la Nato e i talebani si avvia finalmente un negoziato di pace a Kabul, non risolverà d’incanto la difficile situazione del Paese, ma già esorcizza lo spettro del passato. Nessun «Impero», stavolta, verrà sepolto in Afghanistan. Gli ostacoli che restano sul percorso (G.Riotta, laStampa) Ma la partecipazione italiana alla gestione collettiva della sicurezza globale e regionale non inizia e non finisce con l'Afghanistan, e neanche con le missioni internazionali - che siano Onu, Nato o Ue. Perché a ben vedere sono le aree di crisi che ad oggi non sono teatri importanti di intervento ad essere cruciali per gli anni che verranno, a partire da quelli che ci circondano: la Siria, il Libano, la Libia, l'Africa Sub-Sahariana, i Balcani. Aree di conflitto aperto o carsico, inserite in contesti regionali tanto complessi da rendere del tutto impossibile né immaginabile un intervento internazionale di tipo "classico", militare, e che pure non possiamo guardare indifferenti, aspettando che si risolvano da sé. - See more at: L’Italia oltre l’Afghanistan (F.Mogherini, AffarInternazionali) IRAN Il risultato inatteso non deve però fare gridare alla primavera iraniana. Nonostante le posizioni aperte tenute in campagna elettorale, in certi momenti anche di sfida contro il regime (quando per esempio ha parlato della liberazione dei prigionieri politici), Rouhani resta un uomo della elite religiosa del paese (era comunque l'unico candidato religioso di professione), un mujtahid e una delle persone che ha seguito Khomeini in esilio e al suo ritorno. Le elezioni in Iran, per quanto molto lontane dall'essere giudicate libere e corrette secondo degli standard occidentali, sono state un'occasione per esprimere un dissenso contro lo status quo del paese. Dissenso che è stato recepito dall'establishment, che - a differenza del passato - sembra aver accettato il risultati elettorale. Certamente l'Iran è uno dei paese nelle cui mani restano le soluzioni di tanti dossier complicati, a partire da quello siriano. Per trattare con serietà con l'Iran, si deve partire da questo risultato elettorale e dal candidato eletto. Senza cucirci addosso speranze o improbabili interpretazioni che prescindono dalla specificità del contesto. E tenendo conto del fatto che Rouhani, pure nelle contraddizioni del regime iraniano, è un presidente eletto da milioni di cittadini. Iran: elezioni a sorpresa (L.Quartapelle, Qdr) TURCHIA In questi giorni, in cui siamo stati tutti incollati alla televisione, per seguire lo svolgimento degli avvenimenti a Piazza Taksim e nel contiguo Gezi Park, si sono lette e sentite molte analisi, secondo cui la Turchia sarebbe sull'orlo di una rivoluzione, o di una nuova Primavera araba. Non è così, innanzi tutto perché come ha sottolineato il Ministro Emma Bonino, "I turchi non sono arabi e Piazza taksim non è Piazza Tahrir. Quanto sta avvenendo - ha aggiunto - mi ricorda di più Occupy Wall Street". Certamente, è necessario condannare la perdurante brutalità della polizia e l'uso sproporzionato della forza. Sotto esame è la maturità democratica del governo turco, la sua capacità di confrontarsi e dialogare con le diversità di opinione e con le diverse componenti della società, con un approccio aperto, pluralistico e inclusivo. Turchia, democrazia imperfetta (J.Cingoli, CIPMO) Rohani non è un riformista. Anzi, per il suo curriculum, è quanto di più «establishment» si possa trovare nella Repubblica Islamica, e per di più è anche un religioso, uno di quei mullah che risultano ormai invisi e sospetti agli iraniani, la cui profonda religiosità si combina sempre più, alla luce della commistione fra clero e potere (anche quello corrotto), con sentimenti anticlericali. Ma come si spiega allora questa sorpresa? Premesso che fuori dall’Iran la sorpresa è direttamente proporzionale alla semplificazione imperante dell’immagine dell’Iran – una semplificazione secondo cui democrazia e non-democrazia sono alternative nette, senza sfumature – la domanda ci impone di affrontare due diverse componenti del panorama politico iraniano: i conservatori moderati e i riformisti (...) Il regime iraniano si è sempre retto su un doppio riferimento: quello ai principi e quello al maslahat, al pragmatismo, a un criterio di opportunità. Evidentemente in questa fase, dopo i disastrosi anni di Ahmadinejad, tutto meno che pragmatico, l’uomo dei principi Jalili è stato sconfitto da chi incarna soprattutto il maslahat. (...) La chiave sta nel voto riformista, il voto di quei milioni di iraniani, appartenenti alle classi medie ma non solo, che avevano creduto in Khatami, votandolo per ben due volte, ne erano rimasti profondamente delusi, e avevano poi sperato, con Moussavi, di avere un’altra occasione di cambiamento, seppure meno esplicita e più centrista, per poi scendere in piazza nella protesta del Movimento Verde, ben presto messo brutalmente a tacere dalla repressione. (...) Cito da una mail ricevuta da Teheran due giorni prima delle elezioni, in cui un’amica, spiegando la sofferta decisione di votare per Rohani, scriveva fra l’altro: «Tutti sanno che non ci dobbiamo fare troppe illusioni. Vogliamo solamente una persona che possa evitare il peggio e la guerra e ridarci un po’ di spazio per vivere, che possa un po’ cambiare le cose, anche se si tratterà di un cambiamento di non più del 10-20 per cento. Abbiamo bisogno di aria per rimetterci in piedi ed evitare di piombare nella miseria più assoluta, nella guerra o nel talibanismo». Ma che cosa può cambiare con una presidenza Rohani? Non possiamo certo aspettarci una «primavera persiana», ma dallo stesso dibattito elettorale possiamo ricavare con una certa chiarezza che probabilmente il terreno su cui potremo attenderci qualche significativo mutamento di rotta è quello della politica estera, e più concretamente della questione nucleare. (...) Gli iraniani non hanno certo cambiato idea sui diritti del Paese, ma hanno cominciato a chiedersi (e questo non solo i riformisti ma anche i conservatori) quale sia il prezzo dell’intransigenza e di una strategia negoziale di cui non si vedono affatto gli effetti positivi. (...) Quando la politica regala una speranza (R.Toscano, laStampa) GIAPPONE Tutto bene, fino a quando gli investitori non hanno cominciato a credere meno nella potenza di fuoco del Giappone, fortemente collegata anche alla politica monetaria della Federal Reserve statunitense. Arrivano i crolli sul Nikkei, il principale indice azionario giapponese, lo stress dei bond governativi nipponici, e nella mente degli operatori entra l’idea che l’Abenomics possa non essere la soluzione più corretta per far ripartire la macchina giapponese. Se a questo quadro di diffidenza si aggiungono i dubbi di alcuni banchieri, la frittata è fatta. Il membro del board della Bank of Japan Sayuri Shirai ha infatti sottolineato che, almeno nel breve termine, ci sono diversi rischi al ribasso per l’economia nipponica. Non solo. «La pressione sui titoli di Stato giapponesi sui mercati obbligazionari si è fatta sempre più intensa, ma noi monitoriamo la situazione in modo preciso e accurato», ha detto Shirai. La troppa volatilità, sia sull’azionario sia sull’obbligazionario, è un rischio che però si deve correre. E Kuroda è pronto a combattere, come ha ripetuto durante la settimana: «Siamo pronti a valutare la possibilità di estendere la durata delle operazioni di mercato a tasso fisso se ci sarà il bisogno di arginare un eccessivo aumento dei rendimenti obbligazionari». Parole che hanno tranquillizzato gli operatori e che confermano la volontà del Giappone a continuare con questa via per tutto il tempo necessario. (...) Leggi il resto: L’Abenomics e il paradosso della liquidità globale (F.Goria, Linkiesta)

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