16/1/2010, LaStampa - La cattiva coscienza degli Usa, LUCIA ANNUNZIATA
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Un sogno luminoso sembra sorgere dalle macerie di Haiti, il sisma è
una drammatica forma di eterogenesi dei fini. Per dimensioni, per
miseria, per contrasto, l’orrore in cui sono morti gli ultimi della
terra, sembra far scorgere di nuovo all’Occidente un segno morale
nelle sue azioni. Guardare nell’abisso e chiedersi se non sia
possibile reinventare la storia. Guardare al biforcarsi della strada
tra quello che gli uomini possono fare o vogliono fare, tra decisione
e passività, tra immaginazione e realtà. In fondo ai due sentieri c’è
non solo il futuro di milioni di persone, ma il rispetto per sé stesse
delle nostre buone democrazie occidentali.
Di questo parla l’incredibile sforzo umanitario messo in atto dalle
nostre nazioni. Stati Uniti innanzitutto - che in queste ore sembrano
aver guardato negli occhi il loro ruolo di padri-vessatori-padroni dei
Caraibi, assumendosene le responsabilità. Il soccorso ad Haiti di
Washington ha assunto dimensioni materiali e intellettuali che non si
ricordano a memoria recente. Un ingente stanziamento di soldi e di
uomini, benedetto da una promessa che ricalca le parole che Obama di
solito riserva al suo Paese: «Voglio parlare direttamente alla gente
di Haiti. Non sarete abbandonati, non sarete dimenticati. Nell’ora del
vostro più intenso bisogno, l’America è con voi». Un intento firmato
da una straordinaria unità politica della leadership americana:
accanto a Obama, Hillary Clinton, Biden, ma anche Clinton e Bush.
Impossibile non leggere in questa coreografia, intensità di sforzi e
unità di intenti, il disegno che gli Stati Uniti evocano: riprendere
in mano la storia - quella fra Haiti e gli Usa - e riscriverla, per il
bene di milioni di persone, ma, in definitiva, soprattutto per il bene
e l’onore della stessa America.
I torti che Washington ha da farsi perdonare non sono infatti solo
quelli delle origini: che la rivoluzione americana sia stata
schiavista è ormai un fatto passato. Più dolenti sono invece le colpe
maturate dalle amministrazioni Usa negli ultimi venti anni -
democratici e repubblicani, Clinton e Bush, uguali. Non a caso i due
ex Presidenti sono stati chiamati ad aiutare e non a caso entrambi si
sono immediatamente - e umilmente - resi disponibili.
Ci sono ragioni specifiche per cui Haiti non è governabile da due
decenni, cioè dalla fine dei 30 anni di dittatura dei Duvalier. Stato
senza Stato, frontiere attraversabili con poche centinaia di dollari
di corruzione, mano d’opera disperata, hanno fatto di questa isola il
maggiore aeroporto illegale per lo smercio del traffico di droga
dall’America Latina verso Usa e Europa. Secondo le stime ufficiali del
governo americano, il 20 per cento di tutta la droga che arriva in Usa
viene spedita attraverso Haiti. È ormai l’unica industria del Paese,
dopo la fine del turismo a causa della criminalità. Nel 2003 Haiti è
stata poi messa sotto osservazione americana per un secondo tipo di
traffico non meno pericoloso: secondo Washington l’isola è la base per
entrate clandestine in Usa di potenziali terroristi o immigrati da
Paesi a rischio, come Pakistan e Palestina.
Dei due ex Presidenti, forse Bush è quello che porta sulle spalle la
responsabilità minore - se minore è il peccato dell’oblio. Che Bush
abbia scelto infatti di non focalizzare la sua attenzione politica su
questo disastro, mentre gli Usa erano impegnati in Iraq e Medioriente,
è stato quasi naturale. Ma è grazie a questa disattenzione che il
ciclone del 1998 fu quasi ignorato in America. L’ultima volta che si è
sentito parlare di Haiti, nell’epoca di George Bush è stato attraverso
un appello dell’Onu nell’aprile del 2003, in cui si chiedeva alla
comunità internazionale una donazione di 84 milioni di dollari per
combattere la crisi umanitaria del Paese.
E’ Bill Clinton, che invece tentò una politica vera, ad avere la
responsabilità del maggiore fallimento. Due giorni fa, nelle prime ore
del disastro, è stato proprio un suo collaboratore, David Rothkopf che
guidava l’agenzia clintoniana per la ripresa economica di Haiti, a
fare pubblicamente autocritica. Nel 1991 venne eletto nelle prime
elezioni democratiche del Paese il sacerdote Jean-Bernard Aristide,
considerato dai democratici americani come un Mandela dei Caraibi. Ma
Aristide provocò il definitivo collasso politico del nuovo Stato.
Venne quasi immediatamente deposto, riportato al potere nel 1994 con
l’appoggio militare e politico di Clinton; venne di nuovo deposto e di
nuovo nel 2001 rimesso in sella. Questo indiscusso appoggio, dice ora
David Rothkopf, fu il vero errore: «Alla fine venne fuori che Aristide
non era il santo che le commosse star di Hollywood e i giornalisti
americani liberal sostenevano». Eppure, continua, «sapevamo, ce lo
aveva detto l’intelligence, chi era Aristide, ma abbiamo guardato
dall’altra parte». Non fu un errore dovuto a malafede, ma, al
contrario, a un’illusione: «Vedemmo Aristide come la possibile
affermazione di una politica fondata sulla speranza». Ma il risultato
è lo stesso. Per questo Clinton è rimasto impegnato con Haiti. Per
questo oggi viene richiamato ad avere un ruolo.
Il fardello di decenni è ora tutto raccolto da Barack Obama, nero lui
stesso - e il colore della pelle non è un dettaglio. Se Obama ridesse
speranza ad Haiti, salverebbe gli errori del passato, e bilancerebbe
forse nel suo cuore, e in quello di molti dei suoi votanti, le
decisioni di guerra fatte dagli Usa, e oggi da lui stesso, su altri
fronti.
Da Haiti insomma qualcosa può ripartire. La storia forse si può
riscrivere. Di questo parlano queste ore. E se Cuba, l’Arcinemica, ha
deciso di acconsentire ad aprire agli Yankee i suoi spazi aerei, per
facilitare le operazioni di soccorso, forse a questo nuovo inizio gli
Usa non sono i soli a pensare
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