martedì 7 aprile 2009

Paola Meneganti: telefonini e politica

Non mi piace intervenire su Silvio Berlusconi. Mi pare che ci sia poco ancora da dire, che non sia ripetitivo e forse banale, sicuramente inconcludente.
Berlusconi è riuscito a costruire nel Paese una cultura-subcultura-acultura tale che ciò che nei consessi civili indigna, stupisce, muove al compatimento o al disprezzo, qui viene vissuto come dimostrazione di guapperia e di machismo d’accatto. Ha costruito il Paese come voleva lui, e insiste su questa strada carnascialesca e sbracata perché sa che qui gli giova e gli fa aumentare i consensi.
Lo vedete sulla riva del Reno, appiccicato al telefonino, e, nella foto successiva, un primo piano allibito di Angela Merkel, che non sarà Rosa Luxemburg ma è una “normale” capo di Stato di un “normale” Paese europeo. Come si diceva un tempo, neppure un po’ di educazione: quella che, appunto, ti fa ignorare il telefonino se sei impegnato insieme a qualcuno in un momento importante e significativo. Quella che veniva e, forse, viene ancora insegnata come un sistema di regole per stare al mondo, per stare nel mondo, in maniera civile e condivisa.
Io non amo particolarmente le cerimonie, ma insomma pensiamo al Reno, al suo peso simbolico, a quanto abbia inciso questa linea di confine naturale nella storia di Francia e Germania, e quindi nella storia europea: quanto sangue quante speranze.
Ma questo è il Paese in cui le persone parlano al cellulare durante le conferenze, urlano al cellulare in treno o in pullman, lo fanno squillare durante i concerti.
Berlusconi si assume meriti e capacità, poi viene sonoramente contraddetto, sbeffeggiato, compatito, ma non qui da noi. Non da qui da noi.
Esponente di quella Italia che abbiamo visto crescere negli ultimi 20-25 anni: qualche soldo in più, e allora che vadano a ramengo cultura, studio, impegno, solidarietà, azione politica, storia, memoria. Contro la libertà di stampa “ci vogliono azioni dirette e dure”. E poi, ci vogliono le televisioni. I format.
All’inizio del ‘900 si levarono molte voci preoccupate ed impaurite dell’impatto travolgente che ebbe la rivoluzione industriale/tecnologica: i nuovi mezzi di produzione seriale, la ripetizione, il consumo, i modelli, i patterns che cominciavano a strutturare l’esperienza umana. La società di massa, con tutto ciò che di terribile e grandioso ha comportato.
Allora c’erano frammentazione dell’esperienza e analfabetismo diffuso e grandi paure collettive e il crollo dei valori di un mondo e una globalizzazione certo limitata rispetto a quella di oggi, ma comunque potente … arrivarono la 1° guerra mondiale, il fascismo. Eccetera.
È un’analisi tirata via, anzi neppure un’analisi, ma credo convenga riflettere su questi aspetti, ivi compresa la questione dell’analfabetismo. Io credo che oggi si possa parlare di analfabetismo diffuso.
Che cos’è l’alfabetizzazione? Imparare a riconoscere segni e simboli per tradurli in un linguaggio dotato di senso, che, come tutti i linguaggi, cresca, produca e subisca modificazioni mediante l’incontro con l’esperienza, ne venga nutrito e la nutra.
Ebbene, è un processo che oggi molte persone non sanno più fare. Decodificano i segni ed i simboli, ma non li traducono in senso: li subiscono, se ne fanno tramortire, non interagiscono con loro.
E’ questa la grande vittoria di Silvio Berlusconi: ha vinto sul piano culturale.
Possiamo dirci: per ora. Il mondo è grande e terribile, scriveva Gramsci, ogni giorno è nuovo, la nascita avviene di continuo, il “miracolo della natalità”, lo chiama Hannah Arendt. Vecchie talpe stanno scavando. Forse.
In Europa sta scoppiando la rabbia sociale, ha detto Massimo Cacciari in un’intervista con Umberto de Giovannangeli (Unità 5 aprile). I “sequestri” francesi, le proteste di Londra, Strasburgo, Atene. Imputa la terribile situazione di crisi che l’Europa ed il mondo vivono alla “sciagurata deregulation che ha improntato la colossale crescita economica degli anni Novanta e del primo scorcio del millennio”, “senza alcuna capacità né volontà di regolazione dei mercati o della finanza”. Prosegue dicendo che teme soluzioni autoritarie, perché a sinistra non vede nessuno capace di dare riposte adeguate a questa sfida. Parla di crisi della democrazia, poiché è cambiata in profondità non solo l’idea, ma la stessa possibilità di rappresentanza. Dice “siamo diventati tutti democratici nona caso quando la democrazia che abbiamo conosciuto ha cominciato a far acqua da tutte le parti …”.
Punto. Tutto convincente, ma devo fare un’osservazione sommessa.
Che l’emergere di nuovi soggetti e soggettività poneva nuove domande, inedite ed urgenti, alla democrazia ed alla sua capacità universale di rappresentare è un tema posto con lucidità già da molti anni, per esempio dalla riflessione femminista. Questione totalmente ignorata.
Che lasciare lo sviluppo economico nelle mani del mercato e dei meccanismi finanziari fosse pericoloso e carico di rischi per l’equità e la giustizia sociale è questione posta anche con maggiore vigore, negli anni scorsi, ma, nella migliore delle ipotesi, ha ricevuto accuse di arretratezza, di inadeguatezza rispetto alle magnifiche sorti e progressive della modernità, quando non di sovietismo.
Che occorreva agire politicamente sullo sviluppo economico ragionando in termini di limiti allo sviluppo, di sostenibilità, di attenzione alla Terra Madre è stato cavallo di battaglia di grandi movimenti di opinione e di soggetti politici, ma anche la sinistra “di governo” spesso li ha bellamente ignorati.
Bene fermarci qui. Oggi la situazione è ad un punto tale di emergenza che si rischiano, ancora una volta, pensieri confusi e soluzioni concrete abborracciate. Allora, sono convinta che occorra partire da ciò che ci divide per poi giungere a ciò che ci unisce.
P.M. 6.4.09

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