lunedì 17 marzo 2014

Vittorio Melandri: Per quale Italia?

PER QUALE ITALIA? In chiusura dell’elzeviro in memoria di Cesare Segre, Corrado Stajano ci offre anche una fotografia del nostro Paese che in troppi ci ostiniamo a non voler guardare, come se IL FARE, a cui Segre, ricorda Stajano, non ha mai rinunciato, sia un FARE possibile solo a condizione di credere che tutto si possa superare, a cominciare da quell’impegno civile che ci dovrebbe impedire non solo di dire, ma anche solo di pensare, che con un “DELINQUENTE” si possa por mano anche ad una sola virgola della Costituzione. «ERA UN UOMO CURIOSO CHE ODIAVA LA MEDIOCRITÀ. SEMPRE IN GUARDIA, IL PIÙ DELLE VOLTE DELUSO. LA GIOIA DELLA LIBERAZIONE FU BREVE, I FASCÌSTÌ ERANO RIMASTI, AI LORO POSTI. PROVÒ LA STESSA DELUSIONE DOPO IL FALLIMENTO DEL CENTROSINISTRA; IL ’68 NON LO SCANDALIZZÒ; NEL 1994 DOPO LA VITTORIA ELETTORALE DEL POLO DELLA LIBERTÀ SENTÌ IL PERICOLO E PROMOSSE CON PERSONE DI GRANDE E PICCOLO NOME DELLA CULTURA ITALIANA IL MANIFESTO DEMOCRATICO, UN’AZIONE RIBELLE.» L’ARTICOLO DI STAJANO L’impegno civile fu la bussola nonostante le delusioni. SPERIMENTÒ LE PERSECUZIONI E NON SCELSE LA TORRE D’AVORIO. Di Corrado Stajano (Corriere della Sera 17 marzo 2014) Non ha fatto in tempo, Cesare, a goder la festa cui diceva di tener tanto, la festa per la sua Opera critica, il Meridiano uscito in febbraio. Chissà se poi ci credeva veramente o fingeva anche con gli amici, dopo che il male dal primo di agosto dell’anno scorso l’aveva assalito. Si era rotto una vertebra a Cortina, ma il vero tormento era nascosto nel corpo sofferente. Diceva di non sapere, lui abituato a scovare le varianti di un frammento nelle pieghe delle pagine degli amati scrittori di secoli lontani e anche di oggi. Il suo corpo doveva essere per lui come quelle righeimpresse sulla carta antica e nuova su cui fin da ragazzo aveva curvato gli occhi e l’anima. Era stato adulto fin da piccolo, Cesare Segre, nato a Verzuolo, in Piemonte, nel 1928, passato attraverso le tragedie del Novecento che gli avevano plasmato la vita e che non aveva mai dimenticato, tra passato e presente. Quel sorrisino che si captava sempre nei suoi occhi acuti era il suo segno. E spesso non si capiva se era ironico, deridente nei confronti delle sciagure e delle bassezze umane o soltanto triste per un Paese che con le opere e gli scritti aveva sempre cercato di render migliore, più civile, rispettoso della cultura e della sua Storia. Philologus in aeternum scrisse nel 1984 in un’intervista immaginaria pubblicata su «Belfagor». Ma non fu certo un filologo della normalità. Un filologo della complessità, piuttosto, sempre aperto al nuovo, cancèllatore degli schemi. Usò gli strumenti della stilistica, poi dello strutturalismo, poi della semiotica cercando sempre di mantenere un equilibrio nell’interpretazione dei testi letterari, un punto d’incontro tra la volontà dell’autore, del critico, del lettore. Si considerava simile a un restauratore, felice quando riapparivano, come per miracolo su un muro, i colori originari di una pittura malamente guastati. Era sempre alla ricerca del nuovo, non lo disdegnava mai, lo mescolava, invece. Chi lo ascoltava parlare con quella sua voce appena sussurrata non immaginava il suo fervore di giocatore della letteratura e della storia, la sua passione, l’amore per la sfida. Le persecuzioni della prima giovinezza, gli anni trascorsi nascosto nel collegio della Madonna dei Laghi, ad Avigliana, furono nodalì per lui, sempre dalla parte delle vittime, dei perseguitati. Fu un cittadino fedele di libertà e giustizia, maestro di se stesso, allora lettore onnivoro. E dopo fu fedele sempre ai suoi maestri, erede e rinnovatore della loro lezione: Santorre Debenedettì, fratello della nonna paterna, personaggio mitologico ed eccentrico, storico erudito; Benvenuto Terracini, il secondo grande maestro, professore di Storia della lingua e di Glottologìa, con cui si laureò; e Gianfranco Contini, il terzo maestro, crìtìco ed editore di testi, del quale fu il più giovane degli allievi. Per la loro influenza, era solito dire, aveva assorbito le tre diverse tendenze della filologia, arricchendo così il suo repertorio di idee e le sue possibilità di uomo e di studioso. Era un uomo curioso che odiava la mediocrità. Sempre in guardia, il più delle volte deluso. La gioia della liberazione fu breve, i fascisti erano rimasti, ai loro posti. Provò la stessa delusione dopo il fallimento del centrosinistra; il ’68 non lo scandalizzò; nel 1994 dopo la vittoria elettorale del Polo della libertà sentì il pericolo e promosse con persone di grande e piccolo nome della cultura italiana il Manifesto democratico, un’azione ribelle. Non restò mai chiuso nelle torri d’avorio. L’impegno morale e civile gli fecero da bussola. Sostava certe volte malinconico davanti alle piccole lapidi dei ragazzi partigiani con le loro coroncine appassite. Per quale Italia?, diceva come a se stesso ma non rinunciava a fare.

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