giovedì 9 febbraio 2012

Gennaro Lopez: Liberare la sinistra dal pensiero unico

LIBERARE LA SINISTRA DAL “PENSIERO UNICO”


Le attuali difficoltà della sinistra italiana a definire un suo autonomo e credibile progetto di cambiamento sulla base dei principi di eguaglianza, giustizia sociale, riscatto delle persone da ogni forma di sfruttamento, sono strettamente correlate con tre fattori, essi stessi generatori di queste difficoltà: 1. la crisi della forma di democrazia ispirata al parlamentarismo (e dunque a politiche di rappresentanza e di “mediazione” partitica e istituzionale); 2. la crisi della politica, da tempo privata di una sua autonomia e dunque disarmata nei confronti delle forze e delle dinamiche economico-finanziarie; 3. la mancata elaborazione di una proposta organica e di prospettiva per l'Europa.
1. Analizzare e comprendere cause, natura e dimensioni della crisi economico-finanziaria in atto è sicuramente fondamentale: le diagnosi ormai abbondano, anche se non sempre (anzi, piuttosto di rado) esse suggeriscono alla politica soluzioni praticabili e non subalterne a quelle stesse “leggi” economiche e finanziarie che questa crisi hanno determinato o, quanto meno, non sono state in grado di impedire. Non dovrebbero sfuggire alla sinistra alcune coordinate che, a livello globale, aiutano a inquadrare i fenomeni nella loro giusta dimensione. Quando ragioniamo di un certo modello di capitalismo (per schematizzare, quello dei cosiddetti “paesi più avanzati” in una fase caratterizzata dal circolo vizioso: produzione di merci – consumi - finanziarizzazione delle plusvalenze) e dei suoi rapporti con i mercati (con quelli finanziari in particolare), occorre sempre tenere sullo sfondo il formidabile riequilibrio, da molti anni in atto, degli assetti produttivi a livello globale (BRIC e non solo). La competizione planetaria viene declinata secondo modalità inedite e produce nuovi conflitti, destinati a ridisegnare i rapporti di forza geopolitici. Almeno due questioni appaiono cruciali: quella della disponibilità di risorse energetiche e quella dell'egemonia monetaria (dollaro vs euro). Le aree più coinvolte (per ovvia forza di cose, non certo per un destino cinico e baro) sono il nord-America e l'Europa. Perciò proprio in queste aree sono entrati in tensione i rapporti tra economia e politica, tra capitalismo e democrazia: sappiamo come è andata fin qui (politica ostaggio dell'economia, progressiva riduzione degli spazi di democrazia in nome di scelte e decisioni urgenti da affidare a burocrazie e tecnocrazie), ma sappiamo anche che l'esperienza storica di analoghi passaggi non promette nulla di buono e che, dunque, sarebbe necessario correre ai ripari e mettere in salvo politica e democrazia.
2. Sulla nostra condizione pesa poi enormemente l'inconsistenza politica dell'Europa. Questo singolare coacervo di individualità statuali (la famiglia di parenti stretti tenuta insieme dall'euro, che diventa famiglia allargata quando si riunisce con i parenti non vincolati all'euro) sta mostrando tutta la sua fragilità strutturale nel momento in cui l'asprezza delle competizioni globali in atto mette a nudo e colpisce ogni debolezza. E proprio nel contesto europeo il ricorso alle cure -ritenute salvifiche- di burocrazie e tecnocrazie rende ancora più evidenti le patologie della politica e delle istituzioni democratiche. Historia non docet. Il livello di regressione politica qui è tale da apparire persino patetico: quando si riunisce la tribù dell'euro, poiché non si hanno idee e progetti da opporre alle leggi dominanti della finanza globale, assume automaticamente il ruolo di capo-tribù chi, rispetto a quelle leggi, può vantare una maggiore coerenza: dunque, la Germania. Di conseguenza, nessuno osa sollevare quella gigantesca “questione meridionale” che coinvolge tutto il sud del continente, dal Portogallo alla Grecia, nessuno appare in grado di collegare tale questione ad una possibile politica comunitaria attenta al Mediterraneo, all'Africa, al medio e vicino Oriente; tutti sono, invece, concentrati sul debito greco e su come far quadrare i conti greci costi quel che costi sul piano sociale e su quello delle più elementari regole democratiche.
3. L'attuale quadro politico-istituzionale italiano (col governo di “tecnici”) appare del tutto coerente con la situazione europea. Naturalmente, la nostra storia più recente incoraggia valutazioni tendenti ad esaltare lo “scampato pericolo”: valutazioni senz'altro legittime, ma che sarebbe utile inserire in un discorso attento anche al contesto storico e alle possibili prospettive. Per esempio, appare difficile prescindere da un'analisi attenta del capitalismo italiano, delle sue caratteristiche e delle sue tendenze. Tradizionalmente debole sul piano industriale (fatte le debite eccezioni), per alcuni decenni forte sul piano manifatturiero ma ormai in declino anche in questo campo, esso è il prodotto di una borghesia imprenditoriale in genere assai poco lungimirante, perciò poco propensa a mettersi in gioco con un proprio autonomo progetto economico-sociale. Eppure, nelle fasi di espansione economica del secondo dopoguerra, alcune “famiglie” del capitalismo italiano questa propensione l'hanno manifestata e praticata, conquistando, almeno sotto questo aspetto, un ruolo egemone per la classe sociale di appartenenza. Ma a partire almeno dall'ultimo decennio del secolo scorso, col parallelo tramonto di quel modello capitalistico, questa vocazione egemonica è venuta via via affievolendosi fino a scomparire del tutto. Bisognerebbe provare ad offrire anche questa chiave di lettura a due fenomeni italiani: il cosiddetto “berlusconismo” da un lato, dall'altro lato l'estrema frammentazione e la conflittualità senza progetto che caratterizzano l'attuale panorama sociale.
4. La tesi potrà sembrare ardita, ma proprio la sostanziale assenza di una classe egemone (intendendo “egemonia” in senso gramsciano, senza negare quindi la divisione della società in “dominanti” e “dominati”, in “forti” e “deboli”, in “ricchi” e “poveri”) determina l'assenza di progettualità e dunque l'attuale inconsistenza e afasia della politica. Poiché non può darsi democrazia senza politica e poiché la democrazia è il terreno sul quale la sinistra può e deve affermarsi, la crisi (o l'assenza) di un'egemonia sociale va colta come occasione storica per costruire nuova egemonia e nuova capacità progettuale. Possono, da questo punto di vista, risultare utili un'analisi ed un ragionamento che prendano le mosse dalle questioni qui sopra segnalate? Può il discorso sulle alleanze da costruire e mettere in campo essere conseguente -come sembrerebbe logico- e non propedeutico a questa analisi e a questo ragionamento? Vogliamo finalmente liberare la sinistra dalle prigioni del “pensiero unico” offrendole un orizzonte nuovo e tutto politico, con proposte capaci di guardare all'Europa (facendo nostra la bandiera degli “Stati Uniti d'Europa”) e al mondo (dando priorità alle questioni del lavoro e della condizione umana)?

Gennaro Lopez

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