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Liberi di scegliere sulla propria morte. “Sia fatta la mia volontà”, una docufiction su funerali civili e testamento biologico - micromega-online - micromega
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Il PD e il lavoro
Dopo lunga e travagliata attesa, la montagna ha partorito……….il Decalogo!
di Renato Fioretti
La posizione ufficiale del Pd sul tema “lavoro”, espressa attraverso il documento: ”Sviluppo, lavoro, welfare: il decalogo del Pd per il’diritto unico’ del lavoro” - approvato dall’Assemblea nazionale del 21 e 22 maggio - merita di essere attentamente valutata e commentata; anche di là dai contenuti di merito.
In questo senso, il primo elemento è rappresentato dal notevole ritardo con il quale il maggior partito di opposizione ha inteso rispondere alle numerose iniziative governative.
A cominciare dal “chiacchiericcio” di singoli ministri - da Tremonti a Sacconi - per finire alla cruda realtà rappresentata dell’ennesimo “Manifesto per la controriforma del diritto del lavoro”; il Ddl 1167!
Tra l’altro, il perdurare dell’assordante silenzio - in termini di adeguate e concrete proposte politiche - aveva prodotto il convincimento secondo il quale la linea del partito fosse sostanzialmente rappresentata dai due disegni di legge, sull’istituzione del c.d. “Contratto unico d’inserimento”, presentati al Senato da Ichino e Nerozzi.
Di conseguenza, ritenere la linea del Pd ufficialmente coincidente all’ipotesi del “Cui” avanzata da Nerozzi, se non, addirittura, a quella di Ichino - la cui proposta di Contratto unico prevede una “fase d’inserimento”, senza la tutela dell’art. 18 dello Statuto, da vero e proprio record mondiale (10 anni) - aveva generato preoccupazione e allarme.
Per fortuna, un dato positivo si evince dalla lettura del documento approvato dall’Assemblea. Nel testo, infatti, non vi è alcun riferimento al contratto unico; anzi, le critiche del Prof. Ichino dovrebbero adeguatamente tranquillizzare coloro che - al pari del sottoscritto, ma dall’interno del Pd - avevano sempre manifestato evidenti perplessità circa l’opportunità di affidare allo stesso un rilevante ruolo nell’ambito della Commissione Lavoro di palazzo Madama. Se non altro, per la sua perdurante e ostinata difesa della legge-delega 30/03 (e del suo decreto applicativo 276/03) che, a suo dire: “Nulla ha aggiunto, all’esistente, in termini di flessibilità e precarietà”!
Non altrettanto positivo, a mio avviso, è da considerare il risultato della votazione che ha prodotto l’approvazione del documento proposto all’Assemblea da Stefano Fassina, responsabile nazionale dell’economia.
Infatti, anche se può apparire una questione di secondaria importanza o, addirittura, per gli amanti delle statistiche, insignificante, ritengo che se è vero - come ampiamente riportato dalla stampa - che il testo è stato approvato con una cinquantina di voti favorevoli e 42 astensioni, è altrettanto (preoccupantemente) vero che su di un tema di tale rilevanza politica e sociale sarebbe stato auspicabile un confronto più “teso”, che avesse prodotto maggiori contrasti e “distinguo” - anche a rischio di contrapposizioni più nette, ma “di merito” - piuttosto che un così consistente numero di “asettiche” astensioni, pari quasi al numero dei favorevoli.
Nel merito del documento, superando la condivisibile analisi circa le caratteristiche dell’asfittico mercato del lavoro italiano e i suoi problemi fondamentali: l’alto indice di precarietà e il bassissimo tasso di occupazione delle donne e dei giovani, è opportuno approfondire qualche elemento, particolarmente interessante, tra quelli che Stefano Fassina definisce “I capisaldi della strategia del Pd, da portare avanti in modo graduale al fine di evitare ogni onere aggiuntivo per la finanza pubblica”.
Però, la prima cosa che colpisce l’attenzione del lettore, è la sostanziale “auto castrazione” di un’opposizione che - relativamente alla richiesta di provvedimenti e soluzioni legislative tese a superare le evidenti contraddizioni presenti nel mercato del lavoro - si fa (preventivamente) carico di evidenziare l’esigenza di “evitare ogni onere aggiuntivo per la finanza pubblica”.
Certo, la preoccupazione relativa alla sana gestione dei conti pubblici, rappresenta un’opera meritoria e degna di lode ma appare per lo meno “strano” - oltre che irrituale - che, ad anteporre questa pre-condizione, sia una forza politica (di opposizione) che dichiara, contemporaneamente, di considerare la centralità del tema del lavoro quale “stella polare” della propria azione.
Inoltre, non si può non rilevare - nel corpo del documento, come nei “capisaldi” - la totale assenza di una riflessione critica rispetto alla straripante dose di “flessibilità” - che troppo spesso fa rima con “precarietà” - introdotta in Italia, nel corso degli ultimi anni, dai quattro governi di centrodestra.
A questo riguardo, di là dal merito delle ipotesi prospettate, non è assolutamente condivisibile la posizione secondo la quale, piuttosto che pretendere l’abrogazione di norme (apparentemente definite) inique e discriminanti - naturalmente, alludo a quelle relative ad alcuni aspetti del part time, del rapporto di lavoro a tempo determinato e, in particolare, al vero e proprio “supermarket” delle tipologie contrattuali rappresentate dal decreto legislativo 276/03 - sarebbe opportuno limitarsi a proporre di “riformare” l’esistente.
Nello specifico: l’idea di rendere incentivante il contratto a tempo indeterminato - attraverso misure fiscali e contributive che rendano meno oneroso il costo della stabilità rispetto a quello della precarietà - mi pare troppo semplicistica e, soprattutto, fuorviante.
In effetti, essa è direttamente riconducibile al (falso) principio secondo il quale ci si deve limitare a intervenire - per quanto possibile - compatibilmente all’attuale e immodificabile condizione di estrema flessibilità contrattuale.
A mio parere, si tratta - piuttosto - di ricondurre a norma “pre - Berlusconi” le controriforme operate rispetto alle tipologie contrattuali non riconducibili al rapporto di lavoro subordinato e a tempo indeterminato.
In questo senso, ad esempio, per quanto attiene al tempo determinato, contrariamente a quanto indicato nel documento del Pd - che prevede una generica restrizione della durata complessiva e delle causali - si tratta, invece, di pretendere il superamento delle attuali general - generiche causali di carattere tecnico - produttivo e ripristinare la (già ampia) casistica antecedente la riforma del 2001.
E’, invece, condivisibile l’introduzione di un compenso minimo - determinato con riferimento ai vigenti Ccnl di settore e di categoria - per coloro che prestano la propria opera in regime di contratti a progetto, con mansioni similari o, comunque, riconducibili a quelle del lavoro subordinato, piuttosto che, come previsto dalla vigente normativa, con riferimento ai compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo (art. 63, decreto legislativo 276/03). Criterio che ha fino ad oggi prodotto, oggettivamente, una vera e propria “ghettizzazione” dei lavoratori coinvolti.
Contemporaneamente, appare incomprensibile che la stessa ipotesi sia rivolta con riferimento ai lavoratori e alle lavoratrici attualmente escluse dall’applicazione dei Ccnl. A meno che non si sottintenda il ricorso al c.d. “salario minimo legale”, determinato attraverso una specifica norma di legge e rivolto a tutelare coloro ai quali non viene applicato alcun contratto collettivo.
In questo caso, si tratterebbe di una questione ben diversa, che meriterebbe una discussione “di merito” meglio articolata e rispetto alla quale, personalmente, nutro grandi perplessità; ma non è questa la sede per discutere di un provvedimento che, tra l’altro, è spesso evocato - a mio parere, in maniera impropria e strumentale - quale efficace strumento di lotta al “sommerso” e al “lavoro nero”.
Un altro punto poco convincente riguarda l’ipotesi di procedere all’integrazione delle pensioni delle future generazioni di lavoratori e lavoratrici attraverso una quota a carico della fiscalità generale.
A questo riguardo, a parte il fatto che appare molto improbabile riuscire a coniugare una quota supplementare a carico della fiscalità generale con l’incipit secondo il quale è indispensabile evitare ogni onere aggiuntivo per la finanza pubblica, sarebbe piuttosto opportuno prevedere un adeguamento a quelli del lavoro subordinato di tutti i costi fiscali e contributivi a carico delle aziende (e dei lavoratori), a prescindere dalla tipologia contrattuale sottoscritta.
In definitiva, il documento approvato dai vertici del Pd mostra, a mio parere, un’evidente carenza di elaborazione teorica. La sensazione è che al rischio di proposte concretamente alternative allo status quo, sia stata preferita un’opera di maquillage attraverso “correttivi” a una condizione ritenuta sostanzialmente irreversibile.
Personalmente, avrei preferito minori cautele e maggiore spregiudicatezza propositiva. In questo senso, ritengo - ad esempio - indifferibile una riforma dell’art. 2094 del c.c.
Sarebbe necessario, in estrema sintesi, pervenire alla definizione della figura del lavoratore “economicamente dipendente” che, libero dalla condicio sine qua non del lavoro subordinato, quale soggezione al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, identifichi tante delle figure professionali - con annesse (diverse) tipologie contrattuali - oggi considerate (pseudo) autonome.
Naturalmente, è opportuno evidenziare che la suddetta ipotesi di riforma non è riconducibile alla nozione di “dipendenza economica” teorizzata da Ichino.
Il Pd, il lavoro e la “Sindrome di Stoccolma”
La pratica difensiva, cui taluni ricorrono, nell’impossibilità di offrire spunti offensivi, crea una forma di disagio che induce a un perverso meccanismo di identificazione.
di Renato Fioretti
Non sappiamo se il documento: ”Sviluppo, lavoro, welfare: il decalogo del Pd per il ‘diritto unico’ del lavoro”, recentemente approvato dall’Assemblea nazionale, produrrà gli effetti sperati.
Negli auspici dei responsabili nazionali, dovrebbe coinvolgere in un’ampia discussione di merito i dirigenti periferici e gli iscritti al partito.
E’ noto, invece, che esso ha già determinato l’avvio di un vivace confronto, “senza esclusione di colpi”, tra Marino e Ichino da una parte e Stefano Fassina - responsabile nazionale del Pd per l’economia - dall’altra.
In questa sede non ripeterò quanto già rilevato rispetto ai contenuti delle linee-guida che Fassina propone quali “capisaldi della strategia politica del partito sul tema lavoro”; così come eviterò di approfondire la posizione di Ignazio Marino.
All’ex aspirante alla segreteria del Partito democratico - cui va tutta la mia stima per le battaglie intraprese a sostegno della laicità dello Stato - concedo tutte le attenuanti possibili perché, rispetto alle questioni che attengono alla condizione dei lavoratori e al mercato del lavoro italiano, è in condizione di oggettiva difficoltà e sostanziale inadeguatezza.
Le stesse considerazioni non possono essere espresse rispetto alla posizione assunta dal prof. Ichino.
L’autorevolezza del proponente e le motivazioni che ispirano le sue ipotesi di lavoro impongono attente riflessioni e ponderate considerazioni di merito. Ed è con questo spirito e con la stima dovuta a un “addetto ai lavori” del massimo livello, che è opportuno interrogarsi circa le ragioni che lo inducono a una così aspra contesa.
Naturalmente, è opportuno precisare che è comprensibile e perfettamente legittimo che il senatore Ichino - unitamente a Nerozzi, sostenitore del Cui (Contratto unico di inserimento) - continui a difendere e cercare di valorizzare la sua proposta di legge sull’istituzione del c.d. “Contratto unico”.
Rispetto ad alcune questioni sollevate da Ichino: lo stato della preoccupante situazione nella quale versa il mercato del lavoro italiano, la sua frammentazione, le disparità di trattamento e le iniquità presenti, si tratta solo di prendere atto di dati incontrovertibili.
Così com’è evidente a tutti che è ormai diventata insostenibile la condizione di sostanziale apartheid che - per utilizzare una sua recente definizione - separa i lavoratori “protetti” dai “paria”. Soprattutto quando i soggetti coinvolti in questa sorta di “girone infernale”, dal quale diventa sempre più difficile riuscire a evadere, sono, in particolare, centinaia di migliaia (se non milioni) di giovani e di donne.
Il punto di contrasto, però, è rappresentato dalla “terapia” suggerita.
Infatti, tanto Ichino quanto Nerozzi, a valle della condivisibile analisi circa le numerose discrasie presenti nel mercato del lavoro, suggerisce una soluzione che, personalmente, ritengo “peggiore del male”!
Non è questa la sede per ripetere le considerazioni che m’inducono a ritenere che il contratto unico, in tutte le sue versioni, piuttosto che riprodurre un rapporto di lavoro a tempo indeterminato senza lo strumento della “conversione” - come sostengono i suoi proponenti - rappresenti invece una sorta di rapporto di lavoro a tempo determinato “a geometria variabile”, nel quale all’indeterminatezza della durata della prestazione - che non può essere ricondotta alla stessa logica dell’attuale “tempo indeterminato” - si aggiunge l’ennesimo tentativo di “aggiramento” dell’art. 18 dello Statuto.
In quest’occasione, preferisco fare qualche valutazione sulle motivazioni che, a mio parere, inducono Ichino e Nerozzi a criticare (condivisibilmente) la filosofia del “Decalogo” di Fassina e a sostenere con tanta veemenza il ricorso al contratto unico.
La prima ipotesi è dettata dal sostegno che Ichino ha sempre espresso nei confronti della legge-delega 30/03.
Questa linea rinvia all’assunto secondo il quale la frammentazione, le disparità di trattamento, le iniquità (sociali, prima che contrattuali) e la stessa evidente condizione di apartheid del mercato del lavoro italiano, non sono imputabili alla proliferazione delle fattispecie legali di prestazione lavorativa.
Quindi, la massiccia dose di flessibilità “numerica” (che troppo spesso si coniuga con “precarietà”), introdotta nel nostro ordinamento attraverso il decreto legislativo 276/03, non ne rappresenterebbe la naturale conseguenza!
Anzi, ancora oggi - con ammirabile coerenza ma, a mio avviso, anche contro la più elementare logica - Ichino sostiene che la legge Biagi del 2003 ha infranto assai meno tabù di quanto avesse fatto in precedenza la legge Treu del 1997.
La conseguenza è che: di fronte all’ineluttabilità dell’attuale “supermarket” delle tipologie contrattuali, al prevalere degli interessi delle aziende rispetto alle aspirazioni dei lavoratori (come cinicamente recita l’art. 1 del 276/03) e alla (pseudo) “rendita di posizione” della quale godrebbero gli attuali lavoratori a tempo indeterminato - come se non fosse noto a tutti che oggi gli strumenti a disposizione delle aziende per eliminare il “superfluo” sono molteplici e di facile accesso - per superare il c.d. “dualismo” tra insider e outsider, è indispensabile procedere a una parificazione minima “al ribasso” che, piuttosto che svolgere una funzione inclusiva “a favore di”, tenda a una “redistribuzione” dell’esistente.
E’ questa, a mio parere, la logica cui soggiace l’ipotesi del contratto unico!
Per dirla con una “battuta” (già nota): è come teorizzare che, tagliando i capelli a coloro che sono dotati di una folta capigliatura (o, anche, appena sufficiente) - al fine di produrre parrucche da distribuire ai “calvi” - si realizzi un’encomiabile misura di equità sociale!
L’altra possibile lettura (buonista), di carattere politico e, in quanto tale, degna di essere presa in considerazione e meritevole del massimo rispetto, anche se non condivisa, induce a ritenere che Nerozzi e Ichino - il primo più del secondo - consapevoli dei propri limiti (politici) e di quelli del partito di riferimento, piuttosto che avventurarsi in un difficile percorso “a ostacoli” - teso a sostenere e affermare una scelta d’inclusione sociale - preferiscano adeguarsi alla dilagante pratica del riformismo “prèt à porter” cui cercano di assuefarci i Tremonti, Sacconi, Brunetta e &!
Solo così, ritengo, possa spiegarsi la posizione di chi, a valle di una condivisibile analisi circa i numerosi problemi presenti in un mercato del lavoro completamente “destrutturato” e ricondotto a immagine e somiglianza delle suddette “esigenze” - nel quale, peraltro, si avverte l’assoluta necessità di ricondurre a norme di civiltà una serie di provvedimenti legislativi che ledono i più elementari principi di equità e trasparenza - piuttosto che assumere posizioni politiche di ferma intransigenza, al fine di operare riforme degne di tal nome, offre l’impressione di autolimitarsi a ricercare soluzioni compatibili allo status quo!
Di fronte a queste ipotesi, diventa estremamente preoccupante, per il futuro dei lavoratori italiani, il rischio che l’opzione prevalente nel Pd - a prescindere dal successo dell’una o dell’altra - rappresenti un comodo “alibi politico” per quanti, dall’interno della Cgil, hanno già dimostrato di seguire con interesse la possibilità di operare riforme “compatibili”.