giovedì 3 giugno 2010

Il PD e il lavoro

Dopo lunga e travagliata attesa, la montagna ha partorito……….il Decalogo!

di Renato Fioretti

La posizione ufficiale del Pd sul tema “lavoro”, espressa attraverso il documento: ”Sviluppo, lavoro, welfare: il decalogo del Pd per il’diritto unico’ del lavoro” - approvato dall’Assemblea nazionale del 21 e 22 maggio - merita di essere attentamente valutata e commentata; anche di là dai contenuti di merito.

In questo senso, il primo elemento è rappresentato dal notevole ritardo con il quale il maggior partito di opposizione ha inteso rispondere alle numerose iniziative governative.

A cominciare dal “chiacchiericcio” di singoli ministri - da Tremonti a Sacconi - per finire alla cruda realtà rappresentata dell’ennesimo “Manifesto per la controriforma del diritto del lavoro”; il Ddl 1167!

Tra l’altro, il perdurare dell’assordante silenzio - in termini di adeguate e concrete proposte politiche - aveva prodotto il convincimento secondo il quale la linea del partito fosse sostanzialmente rappresentata dai due disegni di legge, sull’istituzione del c.d. “Contratto unico d’inserimento”, presentati al Senato da Ichino e Nerozzi.

Di conseguenza, ritenere la linea del Pd ufficialmente coincidente all’ipotesi del “Cui” avanzata da Nerozzi, se non, addirittura, a quella di Ichino - la cui proposta di Contratto unico prevede una “fase d’inserimento”, senza la tutela dell’art. 18 dello Statuto, da vero e proprio record mondiale (10 anni) - aveva generato preoccupazione e allarme.

Per fortuna, un dato positivo si evince dalla lettura del documento approvato dall’Assemblea. Nel testo, infatti, non vi è alcun riferimento al contratto unico; anzi, le critiche del Prof. Ichino dovrebbero adeguatamente tranquillizzare coloro che - al pari del sottoscritto, ma dall’interno del Pd - avevano sempre manifestato evidenti perplessità circa l’opportunità di affidare allo stesso un rilevante ruolo nell’ambito della Commissione Lavoro di palazzo Madama. Se non altro, per la sua perdurante e ostinata difesa della legge-delega 30/03 (e del suo decreto applicativo 276/03) che, a suo dire: “Nulla ha aggiunto, all’esistente, in termini di flessibilità e precarietà”!

Non altrettanto positivo, a mio avviso, è da considerare il risultato della votazione che ha prodotto l’approvazione del documento proposto all’Assemblea da Stefano Fassina, responsabile nazionale dell’economia.

Infatti, anche se può apparire una questione di secondaria importanza o, addirittura, per gli amanti delle statistiche, insignificante, ritengo che se è vero - come ampiamente riportato dalla stampa - che il testo è stato approvato con una cinquantina di voti favorevoli e 42 astensioni, è altrettanto (preoccupantemente) vero che su di un tema di tale rilevanza politica e sociale sarebbe stato auspicabile un confronto più “teso”, che avesse prodotto maggiori contrasti e “distinguo” - anche a rischio di contrapposizioni più nette, ma “di merito” - piuttosto che un così consistente numero di “asettiche” astensioni, pari quasi al numero dei favorevoli.

Nel merito del documento, superando la condivisibile analisi circa le caratteristiche dell’asfittico mercato del lavoro italiano e i suoi problemi fondamentali: l’alto indice di precarietà e il bassissimo tasso di occupazione delle donne e dei giovani, è opportuno approfondire qualche elemento, particolarmente interessante, tra quelli che Stefano Fassina definisce “I capisaldi della strategia del Pd, da portare avanti in modo graduale al fine di evitare ogni onere aggiuntivo per la finanza pubblica”.

Però, la prima cosa che colpisce l’attenzione del lettore, è la sostanziale “auto castrazione” di un’opposizione che - relativamente alla richiesta di provvedimenti e soluzioni legislative tese a superare le evidenti contraddizioni presenti nel mercato del lavoro - si fa (preventivamente) carico di evidenziare l’esigenza di “evitare ogni onere aggiuntivo per la finanza pubblica”.

Certo, la preoccupazione relativa alla sana gestione dei conti pubblici, rappresenta un’opera meritoria e degna di lode ma appare per lo meno “strano” - oltre che irrituale - che, ad anteporre questa pre-condizione, sia una forza politica (di opposizione) che dichiara, contemporaneamente, di considerare la centralità del tema del lavoro quale “stella polare” della propria azione.

Inoltre, non si può non rilevare - nel corpo del documento, come nei “capisaldi” - la totale assenza di una riflessione critica rispetto alla straripante dose di “flessibilità” - che troppo spesso fa rima con “precarietà” - introdotta in Italia, nel corso degli ultimi anni, dai quattro governi di centrodestra.

A questo riguardo, di là dal merito delle ipotesi prospettate, non è assolutamente condivisibile la posizione secondo la quale, piuttosto che pretendere l’abrogazione di norme (apparentemente definite) inique e discriminanti - naturalmente, alludo a quelle relative ad alcuni aspetti del part time, del rapporto di lavoro a tempo determinato e, in particolare, al vero e proprio “supermarket” delle tipologie contrattuali rappresentate dal decreto legislativo 276/03 - sarebbe opportuno limitarsi a proporre di “riformare” l’esistente.

Nello specifico: l’idea di rendere incentivante il contratto a tempo indeterminato - attraverso misure fiscali e contributive che rendano meno oneroso il costo della stabilità rispetto a quello della precarietà - mi pare troppo semplicistica e, soprattutto, fuorviante.

In effetti, essa è direttamente riconducibile al (falso) principio secondo il quale ci si deve limitare a intervenire - per quanto possibile - compatibilmente all’attuale e immodificabile condizione di estrema flessibilità contrattuale.

A mio parere, si tratta - piuttosto - di ricondurre a norma “pre - Berlusconi” le controriforme operate rispetto alle tipologie contrattuali non riconducibili al rapporto di lavoro subordinato e a tempo indeterminato.

In questo senso, ad esempio, per quanto attiene al tempo determinato, contrariamente a quanto indicato nel documento del Pd - che prevede una generica restrizione della durata complessiva e delle causali - si tratta, invece, di pretendere il superamento delle attuali general - generiche causali di carattere tecnico - produttivo e ripristinare la (già ampia) casistica antecedente la riforma del 2001.

E’, invece, condivisibile l’introduzione di un compenso minimo - determinato con riferimento ai vigenti Ccnl di settore e di categoria - per coloro che prestano la propria opera in regime di contratti a progetto, con mansioni similari o, comunque, riconducibili a quelle del lavoro subordinato, piuttosto che, come previsto dalla vigente normativa, con riferimento ai compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo (art. 63, decreto legislativo 276/03). Criterio che ha fino ad oggi prodotto, oggettivamente, una vera e propria “ghettizzazione” dei lavoratori coinvolti.

Contemporaneamente, appare incomprensibile che la stessa ipotesi sia rivolta con riferimento ai lavoratori e alle lavoratrici attualmente escluse dall’applicazione dei Ccnl. A meno che non si sottintenda il ricorso al c.d. “salario minimo legale”, determinato attraverso una specifica norma di legge e rivolto a tutelare coloro ai quali non viene applicato alcun contratto collettivo.

In questo caso, si tratterebbe di una questione ben diversa, che meriterebbe una discussione “di merito” meglio articolata e rispetto alla quale, personalmente, nutro grandi perplessità; ma non è questa la sede per discutere di un provvedimento che, tra l’altro, è spesso evocato - a mio parere, in maniera impropria e strumentale - quale efficace strumento di lotta al “sommerso” e al “lavoro nero”.

Un altro punto poco convincente riguarda l’ipotesi di procedere all’integrazione delle pensioni delle future generazioni di lavoratori e lavoratrici attraverso una quota a carico della fiscalità generale.

A questo riguardo, a parte il fatto che appare molto improbabile riuscire a coniugare una quota supplementare a carico della fiscalità generale con l’incipit secondo il quale è indispensabile evitare ogni onere aggiuntivo per la finanza pubblica, sarebbe piuttosto opportuno prevedere un adeguamento a quelli del lavoro subordinato di tutti i costi fiscali e contributivi a carico delle aziende (e dei lavoratori), a prescindere dalla tipologia contrattuale sottoscritta.

In definitiva, il documento approvato dai vertici del Pd mostra, a mio parere, un’evidente carenza di elaborazione teorica. La sensazione è che al rischio di proposte concretamente alternative allo status quo, sia stata preferita un’opera di maquillage attraverso “correttivi” a una condizione ritenuta sostanzialmente irreversibile.

Personalmente, avrei preferito minori cautele e maggiore spregiudicatezza propositiva. In questo senso, ritengo - ad esempio - indifferibile una riforma dell’art. 2094 del c.c.

Sarebbe necessario, in estrema sintesi, pervenire alla definizione della figura del lavoratore “economicamente dipendente” che, libero dalla condicio sine qua non del lavoro subordinato, quale soggezione al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, identifichi tante delle figure professionali - con annesse (diverse) tipologie contrattuali - oggi considerate (pseudo) autonome.

Naturalmente, è opportuno evidenziare che la suddetta ipotesi di riforma non è riconducibile alla nozione di “dipendenza economica” teorizzata da Ichino.

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