La pratica difensiva, cui taluni ricorrono, nell’impossibilità di offrire spunti offensivi, crea una forma di disagio che induce a un perverso meccanismo di identificazione.
di Renato Fioretti
Non sappiamo se il documento: ”Sviluppo, lavoro, welfare: il decalogo del Pd per il ‘diritto unico’ del lavoro”, recentemente approvato dall’Assemblea nazionale, produrrà gli effetti sperati.
Negli auspici dei responsabili nazionali, dovrebbe coinvolgere in un’ampia discussione di merito i dirigenti periferici e gli iscritti al partito.
E’ noto, invece, che esso ha già determinato l’avvio di un vivace confronto, “senza esclusione di colpi”, tra Marino e Ichino da una parte e Stefano Fassina - responsabile nazionale del Pd per l’economia - dall’altra.
In questa sede non ripeterò quanto già rilevato rispetto ai contenuti delle linee-guida che Fassina propone quali “capisaldi della strategia politica del partito sul tema lavoro”; così come eviterò di approfondire la posizione di Ignazio Marino.
All’ex aspirante alla segreteria del Partito democratico - cui va tutta la mia stima per le battaglie intraprese a sostegno della laicità dello Stato - concedo tutte le attenuanti possibili perché, rispetto alle questioni che attengono alla condizione dei lavoratori e al mercato del lavoro italiano, è in condizione di oggettiva difficoltà e sostanziale inadeguatezza.
Le stesse considerazioni non possono essere espresse rispetto alla posizione assunta dal prof. Ichino.
L’autorevolezza del proponente e le motivazioni che ispirano le sue ipotesi di lavoro impongono attente riflessioni e ponderate considerazioni di merito. Ed è con questo spirito e con la stima dovuta a un “addetto ai lavori” del massimo livello, che è opportuno interrogarsi circa le ragioni che lo inducono a una così aspra contesa.
Naturalmente, è opportuno precisare che è comprensibile e perfettamente legittimo che il senatore Ichino - unitamente a Nerozzi, sostenitore del Cui (Contratto unico di inserimento) - continui a difendere e cercare di valorizzare la sua proposta di legge sull’istituzione del c.d. “Contratto unico”.
Rispetto ad alcune questioni sollevate da Ichino: lo stato della preoccupante situazione nella quale versa il mercato del lavoro italiano, la sua frammentazione, le disparità di trattamento e le iniquità presenti, si tratta solo di prendere atto di dati incontrovertibili.
Così com’è evidente a tutti che è ormai diventata insostenibile la condizione di sostanziale apartheid che - per utilizzare una sua recente definizione - separa i lavoratori “protetti” dai “paria”. Soprattutto quando i soggetti coinvolti in questa sorta di “girone infernale”, dal quale diventa sempre più difficile riuscire a evadere, sono, in particolare, centinaia di migliaia (se non milioni) di giovani e di donne.
Il punto di contrasto, però, è rappresentato dalla “terapia” suggerita.
Infatti, tanto Ichino quanto Nerozzi, a valle della condivisibile analisi circa le numerose discrasie presenti nel mercato del lavoro, suggerisce una soluzione che, personalmente, ritengo “peggiore del male”!
Non è questa la sede per ripetere le considerazioni che m’inducono a ritenere che il contratto unico, in tutte le sue versioni, piuttosto che riprodurre un rapporto di lavoro a tempo indeterminato senza lo strumento della “conversione” - come sostengono i suoi proponenti - rappresenti invece una sorta di rapporto di lavoro a tempo determinato “a geometria variabile”, nel quale all’indeterminatezza della durata della prestazione - che non può essere ricondotta alla stessa logica dell’attuale “tempo indeterminato” - si aggiunge l’ennesimo tentativo di “aggiramento” dell’art. 18 dello Statuto.
In quest’occasione, preferisco fare qualche valutazione sulle motivazioni che, a mio parere, inducono Ichino e Nerozzi a criticare (condivisibilmente) la filosofia del “Decalogo” di Fassina e a sostenere con tanta veemenza il ricorso al contratto unico.
La prima ipotesi è dettata dal sostegno che Ichino ha sempre espresso nei confronti della legge-delega 30/03.
Questa linea rinvia all’assunto secondo il quale la frammentazione, le disparità di trattamento, le iniquità (sociali, prima che contrattuali) e la stessa evidente condizione di apartheid del mercato del lavoro italiano, non sono imputabili alla proliferazione delle fattispecie legali di prestazione lavorativa.
Quindi, la massiccia dose di flessibilità “numerica” (che troppo spesso si coniuga con “precarietà”), introdotta nel nostro ordinamento attraverso il decreto legislativo 276/03, non ne rappresenterebbe la naturale conseguenza!
Anzi, ancora oggi - con ammirabile coerenza ma, a mio avviso, anche contro la più elementare logica - Ichino sostiene che la legge Biagi del 2003 ha infranto assai meno tabù di quanto avesse fatto in precedenza la legge Treu del 1997.
La conseguenza è che: di fronte all’ineluttabilità dell’attuale “supermarket” delle tipologie contrattuali, al prevalere degli interessi delle aziende rispetto alle aspirazioni dei lavoratori (come cinicamente recita l’art. 1 del 276/03) e alla (pseudo) “rendita di posizione” della quale godrebbero gli attuali lavoratori a tempo indeterminato - come se non fosse noto a tutti che oggi gli strumenti a disposizione delle aziende per eliminare il “superfluo” sono molteplici e di facile accesso - per superare il c.d. “dualismo” tra insider e outsider, è indispensabile procedere a una parificazione minima “al ribasso” che, piuttosto che svolgere una funzione inclusiva “a favore di”, tenda a una “redistribuzione” dell’esistente.
E’ questa, a mio parere, la logica cui soggiace l’ipotesi del contratto unico!
Per dirla con una “battuta” (già nota): è come teorizzare che, tagliando i capelli a coloro che sono dotati di una folta capigliatura (o, anche, appena sufficiente) - al fine di produrre parrucche da distribuire ai “calvi” - si realizzi un’encomiabile misura di equità sociale!
L’altra possibile lettura (buonista), di carattere politico e, in quanto tale, degna di essere presa in considerazione e meritevole del massimo rispetto, anche se non condivisa, induce a ritenere che Nerozzi e Ichino - il primo più del secondo - consapevoli dei propri limiti (politici) e di quelli del partito di riferimento, piuttosto che avventurarsi in un difficile percorso “a ostacoli” - teso a sostenere e affermare una scelta d’inclusione sociale - preferiscano adeguarsi alla dilagante pratica del riformismo “prèt à porter” cui cercano di assuefarci i Tremonti, Sacconi, Brunetta e &!
Solo così, ritengo, possa spiegarsi la posizione di chi, a valle di una condivisibile analisi circa i numerosi problemi presenti in un mercato del lavoro completamente “destrutturato” e ricondotto a immagine e somiglianza delle suddette “esigenze” - nel quale, peraltro, si avverte l’assoluta necessità di ricondurre a norme di civiltà una serie di provvedimenti legislativi che ledono i più elementari principi di equità e trasparenza - piuttosto che assumere posizioni politiche di ferma intransigenza, al fine di operare riforme degne di tal nome, offre l’impressione di autolimitarsi a ricercare soluzioni compatibili allo status quo!
Di fronte a queste ipotesi, diventa estremamente preoccupante, per il futuro dei lavoratori italiani, il rischio che l’opzione prevalente nel Pd - a prescindere dal successo dell’una o dell’altra - rappresenti un comodo “alibi politico” per quanti, dall’interno della Cgil, hanno già dimostrato di seguire con interesse la possibilità di operare riforme “compatibili”.
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