Cos’era la teoria della «Terza Via» elaborata da uno studioso come Karl Mannheim, morto nel 1947, che la espose nell’opera «Libertà, potere e pianificazione democratica» e che tanto fece discutere negli Anni Sessanta e Settanta prima di cadere completamente nel dimenticatoio ed essere liquidata con sufficienza come irrimedibilmente utopica?
Pubblicata postuma negli Anni Cinquanta, la teoria della «Terza Via» fu severamente criticata dai partiti comunisti in quanto considerata una «ideologia portante della socialdemocrazia europea», all’epoca uscita da poco dalla «svolta» di Bad-Godsberg (su torneremo tra qualche giorno). Sarebbe giunto il momento di rivedere, alla luce (o se si preferisce all’ombra) della crisi economica mondiale, questo giudizio all’epoca espresso frettolosamente, frutto di una visione dogmatica e settaria del marxismo e della funzione del movimento operaio nell’Europa Occidentale e non solo.
Avvicinare con mente critica il pensiero e l’opera di Mannheim significa rivisitare il tessuto dell’area culturale mitteleuropea, che si sviluppa tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento lungo il «bacino danubiano» comprendendo intellettuali di diverse nazioni; la lingua comune per ovvie ragioni storiche e in parte etniche è quella tedesca. Per intenderci è sufficiente citare uomini come Wilhelm Dilthey, Max Weber e Gyòrgy Lukacs, di cui fu amico e collaboratore lo stesso Mannheim, prima di emigrare nei paesi anglosassoni.
Mannheim partiva proprio dalla consapevolezza della ricchezza culturale e umana del Vecchio Continente, umiliato nella sua libera creazione di valori che vanno, come la storia dimostra, dal fascismo e dallo stalinismo, dall’irrazionalismo volontaristico di destra all’inflessibilità burocratica dell’estrema sinistra. L’Europa è, infatti, una realtà storica molto complessa ed articolata, che sfugge a modelli sociali partoriti da una visione dogmatica del mondo. Mannheim rivendicava alla scienza sociale il ruolo di comprensione e di interpretazione critica e di rielaborazione di nuovi modelli sociali, che avrebbero espresso altresì la complessità e l’articolazione della vita associata europea.
In Mannheim si nota il vigore critico della sua originaria ispirazione marxista, il senso della storia ereditato da Dilthey e da Weber, il valore dell’esperienza sociale mutuato dal pragmatismo di James e Peirce, la dimensione pedagogica dei problemi politici e sociali assimilata dal grande pedagogista americano Dewey. Su quest’ultimo punto è importante porre l’accento, in quanto egli fa sua una costante del pensiero pedagogico: il rapporto dialettico tra «progetto sociale» e «progetto educativo», espresso dai padri fondatori della pedagogia moderna e contemporanea.
Desta inoltre estremo interesse la sua non-identificazione dell’ideale di democrazia con l’ultima fase dell’oligarchia e del capitalismo monopolistico. C’è in lui la cosciente consapevolezza dell’ambiguità della borghesia, che nata nella democrazia, si rese complice della più nefasta delle dittature: il fascismo. Da queste premesse assai ampie e da orizzonti storici ben definiti parte l’elaborazione di un nuovo progetto politico, sociale ed educativo: la «Terza Via» che è possibile realizzare attraverso l’uso dell’intelligenza e della fantasia. Viene spontanea una riflessione nei confronti di una certa nostra classe dirigente, che ha scambiato l’intelligenza per l’astuzia e il piccolo cabotaggio politico, dissipando i valori ideali e le energie morali di un popolo come quello italiano, assetato di pulizia e onestà, vessato dai vecchi e dai nuovi prepotenti.
Mannheim introduce nella sua ricerca un altro elemento importantissimo: la pianificazione democratica, come strumento della progettazione e della costruzione sociale. Egli si rende conto che il liberismo è finito, ma non i valori di libertà e di democrazia. Di conseguenza, lo scopo della nuova impresa è edificare una società democraticamente pianificata fondandola sul compromesso, che non significa necessariamente debolezza e rinuncia di fronte ai mali, ma discussione e confronto sui problemi e sulle soluzioni, accettazione del valore umano, sociale e politico della cooperazione di tutti i cittadini in una comune responsabilità.
Sarebbe interessante verificare le affinità e le diversità con il concetto di blocco storico, espresso da Gramsci nei suoi Quaderni. Le linee direttrici del nuovo lavoro sono ben definite da Mannheim secondo il quale è necessario PIANIFICARE per raggiungere una serie di obiettivi quali: la libertà nel controllo democratico; il bene comune, non al servizio di oligarchie finanziarie; la giustizia sociale contro ogni forma di sfruttamento; una società pluriclasse, garanzia di un reale pluralismo politico e culturale; nuovi «standards» culturali, escludendo il livellamento verso il basso; evitare i pericoli di una società massificata; l’equilibrio tra potere centrale e autonomia locale; lo sviluppo, con lo scopo di edificare un socialismo dell’opulenza e non della miseria;
Un nuovo progetto di società doveva, dunque, secondo Mannheim, fondarsi su una progettazione del reale e del sociale, la cui natura doveva essere essenzialmente democratica, fondata cioè sul più ampio consenso e sulla partecipazione sostanziale alla vita e al controllo sociale.
L’unità e l’omogeneità di una classe dirigente democratica non avrebbe dovuto essere basata su un «credo», ma sul rapporto dialettico con la realtà in movimento e sulla capacità di elaborare risposte e soluzioni, nella prospettiva politica della società pianificata nella libertà.
Parlare ieri come oggi di queste cose, significava contribuire ad impostare seriamente il dibattito tra le forze politiche, soprattutto quelle della sinistra laica e marxista. Era uno stimolo per la sinistra, minata già allora da una certa mediocrità culturale, era un invito per gli intellettuali, non di rado senza il coraggio della critica e del dissenso dal generale squallore dell’orizzonte culturale italiano. Era l’occasione per iniziare a pensare l’elaborazione di una nuova politica della trasformazione sociale e storica. Era l’occasione per la formulazione di un «New Deal» della politica italiana ed europea.
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