andrearomano
Ieri 17 marzo 2009, 8.07.53
Silvio va forte? Non certo nel mondo
Ieri 17 marzo 2009, 10.02.00
Silvio domina, Silvio tranquillizza, Silvio impazza. Tra meriti propri e demeriti altrui la forza politica di Berlusconi non è mai stata tanto imponente. Ma siamo poi sicuri che fuori dai confini del nostro paese la sua stella abbia seguito lo stesso tragitto? O non sarà invece che allo zenit raggiunto dal berlusconismo in patria si sta associando un suo indebolimento nella comunità internazionale? Qualche indizio in questo senso viene da uno sguardo anche superficiale a quelli che sono stati i suoi tradizionali punti di forza nel mondo. Russia e Stati Uniti, innanzitutto. Le aree nelle quali Berlusconi ha impiantato negli anni una miscela peculiare di personalismo e influenza nazionale, giocando alternativamente le tre carte dell’affidabilità ideologica, del legame personale e del ruolo di intermediazione economica. E tuttavia scommettendo le proprie fortune su scenari geopolitici in via di rapida e ineluttabile trasformazione.
Si trasforma innanzitutto il teatro statunitense, sul quale Berlusconi aveva investito negli anni di Bush volendo presentarsi come l’alleato più affidabile tra gli alleati europei. Lo aveva fatto senza assumere fino in fondo l’onere delle armi che era stato di Blair o Aznar, ma pescando dal bagaglio delle tradizioni di politica estera italiana la formula dell’esclusivismo bilaterale. Quella secondo la quale l’Italia può avvantaggiarsi non tanto per le responsabilità concrete che è in grado di assumersi nelle istituzioni multilaterali di cui è parte, quanto per la riconoscibilità e la legittimazione che riceve direttamente dal capogruppo. È la formula che ha spinto Berlusconi a provare a saltare la fila per accreditarsi come il miglior amico europeo di Washington, sul piano strettamente ideologico piuttosto che su quello della disponibilità a contribuire agli sforzi dei propri partner. Un tentativo che si era già rivelato non del tutto efficace negli anni di Bush, la cui presidenza ideologica non ha mai dismesso il tradizionale pragmatismo internazionale degli USA, ma che con Barack Obama perde qualsiasi utilità residua. Non già perché il nuovo presidente sia animato da una spinta ideologica uguale e contraria a quella del predecessore, ma perché il suo tratto post-ideologico sta già moltiplicando l’attenzione statunitense ai risultati concretamente raggiunti dalle diverse alleanze e dai diversi partner piuttosto che alle professioni di fedeltà recitate da questo o quell’alleato.
Altrettanto radicale è la trasformazione in corso sul teatro russo, per quanto poco si parli o si scriva di quanto sta avvenendo alle fondamenta del regime post-sovietico. Per la prima volta da molti anni si è incrinato il blocco che ha sostenuto l’ascesa e la stabilizzazione del putinismo. Alti prezzi del petrolio e delle materie prime, centralizzazione amministrativa, politiche sociali costose ma ad alto rendimento consensuale, intimidazione della stampa e dell’opposizione. È stato un blocco che si è giovato dell’assenza di una qualsiasi alternativa politica credibile a Putin e al suo regime di semi-democrazia paternalistica, presso il quale Berlusconi si è legittimato come il più entusiasta ambasciatore europeo. Con ogni probabilità le ragioni del suo entusiasmo sono tanto economiche (necessariamente personali e non necessariamente trasparenti) quanto politiche (la convinzione che l’Italia possa trarre vantaggio da una relazione privilegiata con Mosca). In ogni caso la partita russa è sempre stata giocata da Berlusconi in primissima persona, investendo solo ed esclusivamente su Putin e sulla solidità del putinismo. Ma le cose cambiano anche qui. Il crollo del prezzo del petrolio e delle materie prime sta indebolendo le politiche di pacificazione sociale del regime mentre il consolidamento di Medvedev annuncia una conflittualità crescente all’interno dell’ormai ex blocco di potere presidenziale, dove è destinata a prodursi quell’alternativa al putinismo che non assumerà le forme liberali che attendono gli occhi occidentali.
L’indebolimento delle stampelle personali che Berlusconi si era costruito a Mosca e Washington non è ancora traumatico, ma produce sintomi già visibili. Come l’offerta venuta da Berlusconi, nel corso del suo incontro con Hillary Clinton agli inizi del mese, per svolgere un ruolo diretto di mediazione nei confronti del Cremlino. Offerta ampiamente rilanciata da Palazzo Chigi ma sostanzialmente caduta nel vuoto a Washington, dove la nuova stagione del pragmatismo post-ideologico non richiede per il momento la delega di funzioni particolari a chi ha costruito strumenti di dialogo di carattere più personalistico che politico. È ampiamente probabile che l’agenda internazionale dei prossimi mesi, tra G20 londinese e G8 della Maddalena, veda Berlusconi alzare il volume del suo protagonismo globale. Non gli mancherà certo la capacità di valorizzare in patria quello che saprà dire o farsi dire in quelle occasioni. Ma qualcosa è definitivamente cambiato nelle sue quotazioni diplomatiche internazionali, lasciandoci l’onere di gestire in piena autonomia il suo successo domestico.
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