“Un sassolone nello stagno” e la rivoluzione della dignità
Ieri sera, 15 marzo, ospite di Fabio Fazio, Romano Prodi si è tolto qualche sassolino dalle scarpe. Beato lui, vien di dire, che può toglierseli sotto amabili riflettori e con l’ausilio della grazia del conduttore più educato di tutta la TV italiana.
Ma oltre ai sassolini che si è tolto dalle scarpe, il Professore in pensione ha pensato bene di scagliare un “sassolone” nello stagno putrescente della politica italiana, anche se per farlo ha dovuto fingere di ignorare che la sua amata creatura, il PD, è una “ninfea” che galleggia in quello stesso stagno, e non assomiglia per nulla a quelle di Monet che ornano le sale interrate dell’Orangerie.
Il “sassolone” cui mi riferisco, è quello lanciato da Prodi a favore di una ri-scrittura dell’Art. 49 della Costituzione, quello che per memoria, riporto per intero.
“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.”
Ascoltando Prodi mi è tornato alla mente di avere scritto qualcosa in proposito, nel bel mezzo dell’ultima legislatura che ha visto Berlusconi all’opposizione, era il 20 settembre 2007. Assalito da una botta di immodestia, ve lo propongo qui di seguito.
Se voi non vi occupate di politica la politica si occupa di voi!
Per quel che vale la mia opinione, sono da sempre convinto che l’art. 49 della nostra Costituzione, quello che nomina espressamente i “partiti”, vada arricchito nelle sue determinazioni.
Va da sé che non condivido l’affermazione di Beppe Grillo secondo il quale i partiti bisogna distruggerli, e condivido invece quella di Piero Fassino che sostiene che bisogna ricostruirli. Ma qui comincia la brutta, molto brutta sensazione, di essere preso per i fondelli da tutti; da Grillo che scopre l’acqua calda e da Fassino che la scopre fredda.
E da ultimo (solo in ordine di tempo) anche dal professor Sartori che scopre il 19 settembre 2007 sulla prima pagina del Corriere della Sera, “i miasmi di questa imputridita palude” che il professore identifica con la mai nata “Seconda Repubblica”, mentre da troppo tempo coincide con la politica italiana tout court.
“Cedendo alle pressioni dei miei amici ho accettato di presentarmi candidato alle prossime elezioni. …. La gente di qui la metteremo con le spalle al muro la obbligheremo a dar bene i voti preferenziali ….. sa come è diviso il collegio signorina Becker?.... non vorrà dirmi che è un’astensionista ….. attenzione, se voi non vi occupate di politica la politica si occupa di voi. Io personalmente ho abbandonato tutto per la politica, non vado più neanche a caccia …. La politica non è un gioco da ragazzi… ciò che serve per animare una campagna elettorale moderna come la nostra sono i grandi mezzi e noi li abbiamo. Ovviamente la gente fa sempre delle domande; da dove viene il denaro, chi paga i manifesti i volantini, ma è inutile rispondere, non capirebbero. So bene che si dovrebbe spiegare sempre tutto agli elettori, purtroppo non è possibile, bisogna far felice la gente anche contro il suo parere.”
Questo che ho testé proposto è un dialogare tratto dal film di François Truffaut “La sposa in nero”, adattamento cinematografico del romanzo “The Bride Wore Black” di Cornell Woolrich. Truffaut è anche autore (insieme a Jean-Louis Richard) della sceneggiatura e cioè dei dialoghi.
Per conto di Truffaut quindi, nel dialogo sopra riportato a parlare è René Morane, interpretato da Michael Lonsdale che forse in tanti ricorderanno nei panni del commissario Lebel del “Giorno dello Sciacallo”, e si rivolge ad una splendente Jeanne Moreau che in quel momento del film appare sotto le mentite spoglie della signorina Becker.
Il film, un “noir”, è del 1967, e questo breve dialogo dimostra come giusto quarant’anni fa, i mali della politica che oggi denuncia Grillo, e che secondo altri verranno sanati con il “partito nuovo” erano tutti noti, identici a quelli di oggi e così chiari, da essere proposti all’attenzione di un pubblico che guardava un film non certo di denuncia sociale o politica.
Ma l’arte di scoprire l’acqua calda o quella fredda, è un’arte antica, da sempre praticata dagli “ottimati” e dalle classi dirigenti.
I “sudditi” non dovrebbero abboccare, ma occorrerebbe a noi quello che in tutta evidenza non abbiamo, innanzi tutto, la capacità di accettare l’idea che alla nostra specie sono consentite solo “verità provvisorie”. Succede invece che alla ricerca come siamo di “rassicuranti” verità definitive, di decisioni fulminee e risolutive, portate ovviamente avanti da “decisionisti” pluri-laureati, cadiamo puntualmente preda delle truffe più banali, sempre uguali, e puntualmente denunciate financo dagli stessi autori, come fossero sempre nuove.
Esemplare la vicenda dei lavavetri, “in Italia umiliante per la sua piccolezza”, come l’ha giustamente definita Furio Colombo. E la frase di Colombo mi ha suggerito come definire la nostra condizione di cittadini italiani, quella per cui possiamo dirci appunto: “umiliati”.
Umiliati, anche se pare che i primi a non accorgersene, forse per una forma di pudore mal riposto, siamo proprio noi, che tutto diamo a parere meno che, per dirla con Fedor Dostoevskij, di essere “umiliati e offesi”. Il giorno prima che Colombo spendesse la sua frase, Antonio Padellaro sempre sull’Unità affermava che una “folla” (io ho inteso volesse dire sempre più numerosa) “comincia ad averne le tasche piene” dei privilegi riservati alle varie caste (che non si esauriscono certo con quella politica e quella sindacale).
Non sono così ottimista come Padellaro, e penso che la “folla” per quanto numerosa sia comunque una minoranza, ma …. oltretutto, cosa significa in fondo averne le tasche piene, se l’esito continua ad essere quello di aver in buona considerazione il berlusconismo con annessi e connessi, tutt’al più privato solo di Berlusconi?
Sino a che noi cittadini italiani non faremo i conti con la nostra condizione di umiliati, e non ci sentiremo offesi nei nostri sentimenti più intimi da questo “stato” di cose, per cui la “criminalità organizzata” la fa da padrona dove vuole, intanto che solerti politici mettono sotto il loro tallone perfidi lavavetri; sino a che non sarà chiaro che il “pizzo” che intere categorie di lavoratori sono costretti a pagare in intere regioni italiane, non vale tanto per il fatturato che accumula, ma perché è la dimostrazione patente di chi vince la sfida del comando sul terreno, fra Stato italiano e “criminalità” organizzata; sino a che non ci si deciderà a ricordare che Libero Grassi non denunciò solo la sua volontà di ribellione al “pizzo”, ma anche la sua convinzione che il possibile successo nell’impresa dipendeva dalla cacciata della “cattiva qualità del consenso” di cui si nutriva e si nutre la politica italiana (e non a caso fu ucciso); ogni azione di questa politica imbelle e incapace, per non dire vigliacca, si risolverà in una nuova umiliazione inflitta a chi non può e/o non vuole dimettersi da cittadino italiano.
Temo proprio che non basti un Vdey, ci vorrebbe una rivoluzione, quella “rivoluzione della dignità”, che solo gli umiliati consapevoli della propria condizione e gli offesi che intendono liberarsi dell’oppressione dell’offesa, sapranno/potranno/dovranno, prima o poi innescare. Prima che si inneschi una tale rivoluzione, mi convinco ogni giorno di più che ogni speranza è vana.
Vittorio Melandri
Rileggendomi a distanza di un anno e mezzo, dopo aver sentito Prodi affermare che senza i partiti non si fa politica, debbo proprio riconoscere che sono “d’accordo” con lui, senza i partiti non si fa politica, e con questi partiti si può solo fare una politica oscena.
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